mercoledì 17 dicembre 2014

Lo Hobbit - La Battaglia delle Cinque Armate

Un buon finale per una saga epica


Smaug, risvegliato dai Nani, attacca Pontelagolungo, dove semina morte e distruzione. Bard riesce però nell'impresa di ucciderlo, scagliando la freccia nera nell'unico punto scoperto della corazza del mostro. La notizia della sconfitta del Drago si sparge rapidamente, ed Elfi e Uomini arrivano alla Montagna Solitaria per reclamare una parte del tesoro. Thorin, tuttavia, totalmente soggiogato dalla malia del tesoro del Drago, rifiuta qualunque concessione, portando i tre popoli sull'orlo della guerra. Nel frattempo gli Orchi di Sauron marciano sulla montagna, pronti a uccidere tutti i nemici dell'Oscuro Signore.

E così siamo arrivati alla fine: dopo sei film Peter Jackson scrive la parola fine sulla sua rivisitazione dell'universo tolkieniano. Alcuni capitoli sono stati intimenticabili (La Compagnia dell'Anello, Il Ritorno del Re), altri rivedibili (La desolazione di Smaug), ma tutti sono accomunati dalla capacità di generare nello spettatore un fanciullesco stupore, trasportandolo in un mondo di fantasia che in cuor nostro vorremmo fosse reale. La Battaglia delle Cinque Armate non fa eccezione, e regala due ore e rotti di emozione e divertimento, tra battaglie, attacchi di creature sovrannaturali e crisi di coscienza. Il film ricorda da vicino Le Due Torri, il film della Trilogia dell'Anello caratterizzato dalla presenza incombente, massiccia e spettacolare della battaglia del Fosso di Helm. Il film ha un sapore decisamente marziale, diviso com'è tra battaglie di diversa natura e motivazione: c'è quella degli abitanti di Pontelagolungo per la sopravvivenza, quella tra Elfi e Nani per le ricchezze della Montagna, quella che unisce questi ultimi e gli Uomini contro la comune minaccia degli Orchi; c'è la battaglia di Thorin contro il malefico incanto dell'oro del Drago, quella di Bilbo per evitare una guerra fratricida, quella del Bianco Consiglio contro Sauron rivelato.

Jackson si districa tra i vari momenti con la consueta maestria e abilità, regalando alcuni momenti di grande spettacolo (battaglia di Dol Guldur e attacco del Drago su tutti) e una scena di grande maturità artistica quando mette Thorin di fronte ai suoi spettri e alle sue contraddizioni. La lotta interiore del Nano viene resa in modo originale, con il suo inconscio e i suoi demoni incarnati dall'ombra del Drago, che aleggia sia sul suo oro sia sul suo cuore, in un richiamo esplicito dei miti nordici cui Tolkien si è ispirato per creare la Terra di Mezzo.
Gli attori svolgono il loro compito in modo egregio, con Martin Freeman che conferma ancora una volta di essere un Bilbo perfetto, e Richard Armitage che dona un accresciuto spessore al personaggio di Thorin.

Si arriva così al finale, che strappa una lacrima ai fan della prima ora grazie a una ring composition da manuale, con Bilbo che finisce il suo racconto là dove inizia la grande avventura di suo nipote Frodo. La Battaglia delle Cinque Armate è una degna conclusione di una trilogia certamente in tono minore rispetto a quella dell'Anello, ma comunque in grado di emozionare ancora una volta gli spettatori, risvegliando quell'infantile piacere di stare ad occhi spalancati mentre la storia prende vita di fronte a noi.

***

Pier

Nota a margine da fan intransigente: peste e maledizioni sul traduttore italiano, che non si è nemmeno premurato di verificare che "Five Armies" è sempre stato tradotto con "Cinque Eserciti".

lunedì 15 dicembre 2014

Pride

La forza gentile degli emarginati


Londra, 1984. I minatori gallesi sono ormai allo stremo mentre si prolunga lo sciopero contro le politiche del governo Thatcher. In loro aiuto accorre inaspettattamente un'associazione per i diritti omosessuali, Lesbian and Gays Support the Miners, guidata dal giovane attivista Mark. Dopo qualche iniziale diffidenza, i due gruppi cominceranno a collaborare in modo efficace, creando un patto di solidarietà a favore del cambiamento sociale e contro tutte le discriminazioni.

Ci voleva, un film come Pride, in un periodo come questo, dove la crisi che ha messo in ginocchio tante persone sta generando una situazione paradossale, in cui i poveri e gli emarginati si fanno la guerra tra loro mentre i ricchi godono. Ci voleva, in un'epoca in cui solidarietà è spesso una parola vuota, quasi fastidiosa, questa storia vera del rapporto tra associazioni omosessuali e minatori gallesi, inizialmente divisi da reciproche diffidenze, ma poi uniti contro il nemico comune, che vuole privarli di lavoro e dignità. Ci voleva la storia di Mark e dei suoi amici, un idealista alla testa di un'armata Brancaleone di sognatori, un'armata disorganizzata, imperfetta, ingestibile, ma proprio per questo umana e capace di grandi cose.

Pride è una commedia drammatica da manuale, in cui risata e lacrime, divertimento e riflessione vanno di pari passo, non lasciando mai veramente spazio l'uno all'altro, ma procedendo in parallelo a costruire una grande storia vera. La forza vitale dei LGSM, contrapposta alla burbera cordialità dei minatori, crea momenti di ilarità irresistibili, ma sullo sfondo aleggiano sempre i fantasmi che perseguitano i due gruppi di protagonisti: da una parte l'AIDS, che in quegli anni comincia a mietere le sue vittime, e dall'altra la disoccupazione e la fame.

Il cast è perfetto, umano, vivo, corale, coinvolge e avvince con storie di ordinaria umanità, di emancipazione e di rivendicazioni. Su tutti spicca la coppia composta da Dominic West e Andrew Scott, che colpisce per verità, intimità e voglia di vivere appieno il proprio amore, contro la malattia e le convenzioni imposte dalla società.

Pride è un gioiellino, una commedia che sembra scritta dal Ken Loach degli esordi, in cui risata e impegno sociale si uniscono in un matrimonio perfetto e in cui la salvezza dei mani nel mondo è ancora nella mano tesa dei nostri compagni di sventura. Da non perdere.

**** 1/2

Pier

sabato 13 dicembre 2014

Magic in the Moonlight

Divertimento in tono minore



Europa,1928. Stanley Crawford è un celebre prestigiatore che, sotto lo pseudonimo e le vesti del cinese Wei Ling Soo, incanta le platee di tutto il Vecchio Continente. Crawford è un gentiluomo inglese snob e dalla battuta tagliente, così conscio della propria intelligenza da risultare spesso arrogante e saccente. Quando un amico gli propone di aiutarlo a smascherare una presunta medium che ha circuito il giovane rampollo di una ricca famiglia americana, Crawford accetta senza indugio, desideroso di mostrare la propria superiorità. Si reca quindi in Costa Azzurra, dove si spaccia per un uomo d'affari. L'incontro con la medium, la giovane Sophie Baker, ha però un effetto inaspettato su Crawford: per la prima volta in vita sua, capisce cosa sia l'amore.

Dopo i toni cupi Blue Jasmine, Woody torna alla commedia sofisticata e leggera che tanto spesso ha esplorato negli ultimi dieci anni. Lo fa con un film all'apparenza leggero e scanzonato, che racconta la storia di un burbero misantropo che viene cambiato dall'amore. Sotto la superficie, tuttavia, si intravedono tematiche più profonde: Allen ritrae lo splendore dei roaring twenties, tra feste, abiti da cocktail, jazz e charleston, ma ambienta il film un anno prima del crack in borsa che distruggerà quel sogno; mostra l'incanto e lo sfarzo dell'Europa, ma fa anche intravedere le prime crepe che portarono al nazismo e al secondo conflitto mondiale; celebra l'amore, ma fa anche intendere che l'amore, come tutti i sentimenti, non è altro che un illusione che aiuta l'uomo ad andare avanti in questa valle di lacrime.

Il pessimismo cosmico e il cinismo alleniano si incarnano alla perfezione nella figura di Stanely Crawford, un personaggio che sembra scritto su misura per Colin Firth, che lo interpreta con quell'altezzosità e quel distaccato disprezzo per il resto dell'umanità di cui solo lui sa essere capace. Accanto a lui brilla Emma Stone, deliziosa nel ruolo della protagonista, cui dona un irresistibile mix di innocenza e malizia che rende il personaggio credibile e interessante.
Da notare, come sempre nei film di Allen, una colonna sonora d'epoca semplicemente perfetta, tra jazz, swing e ballate romantiche.

Magic in the Moonlight non passerà alla storia come il miglior film di Woody Allen, ma è una commedia gradevole e divertente, una farsa in tono minore che fa sorridere più che ridere, con una grazia e una leggerezza che, se non lo rendono memorabile né originale, di certo regalano un'ora e mezzo spensierata allo spettatore.

***

Pier

mercoledì 12 novembre 2014

Interstellar

Un viaggio coraggioso ma senza cuore



Terra, futuro prossimo venturo. Il pianeta è squassato da ventate di sabbia che rendono il terreno sterile e minacciano la sopravvivenza dell'umanità. Tutte le risorse sono concentrate nelle coltivazioni, e ogni altra forma di ricerca scientifica è stata derubricata a propaganda. L'ex astronauta Cooper, costretto a diventare agricoltore, grazie a una strana anomalia gravitazionale scoperta nella stanza della figlia Murphy viene in contatto con una base spaziale segreta, dove si sta preparando una missione che ha come scopo quella di individuare altri pianeti dove trasferire la razza umana. Cooper accetta di pilotare lo shuttle per salvare la sua famiglia e tutta l'umanità dall'estinzione. Inizia così un viaggio che lo porterà fino ai confini estremi dello spazio e del tempo.

L'ambizione, il desiderio di andare oltre è la cifra dell'essere umano, ciò che lo rende diverso dagli altri animali: è il messaggio chiave di Interstellar, ma potrebbe essere il riassunto della cinematografia di Christopher Nolan. Nessun regista nel panorama contemporaneo, infatti, mostra il suo stesso costante desiderio di andare oltre i propri limiti, di esplorare mondi e meccanismi narrativi che sembrano impraticabili, di realizzare film radicalmente diversi da tutto ciò che è stato fatto in precedenza. Interstellar è un film coraggioso, innovativo non solo a livello visivo, ma anche a livello narrativo, per la sua capacità di unire spettacolarità e impegno, una storia appassionante e un meccanismo narrativo tanto affascinante quanto complesso. Nolan si pone come obiettivo 2001: Odissea nello spazio e va oltre, esplorando quei confini che Kubrick aveva lasciato inesplorati, indagando i motivi che possono spingere l'umanità ad affrontare un'avventura verso l'ignoto, che con tutta probabilità si concluderà con la loro morte.

Il genere fantascientifico viene rielaborato in modo originale. Il futuro della Terra è uguale al nostro passato recente, la paura dell'estinzione ci ha portato ad abbandonare quel sano desiderio di guardare oltre, verso le stelle, e a concentrarci sul quotidiano, condannandoci paradossalmente all'estinzione. La Terra di Nolan è vicina e lontana al tempo stesso, un futuro che somiglia sinistramente al nostro presente, sconvolto da continui fenomeni climatici estremi. La speranza viene dalla scienza, da un'esplorazione spaziale che dovrà affrontare tutte le leggi dello spazio e del tempo, che si sviluppano diversamente per i vari a protagonisti. Nolan sviluppa il racconto su piani paralleli che si rincorrono, si inseguono, e infine si incastrano e sovrappongono, violando le leggi della fisica per guidarci a scoprire ciò che non conosciamo. Il viaggio di Cooper - uno straordinario Matthew McConaughey, capace di passare in modo credibile - dalla risata alla commozione nell'arco di pochi secondi - diventa il viaggio dell'umanità intera, il suo percorso verso la conoscenza di se stessi e dell'universo che ci circonda.

Il film costringe lo spettatore a rimanere continuamente concentrato, e riesce a farlo senza annoiare mai, grazie anche a un meccanismo narrativo e visivo costruito con sapienza e rigore. Le regole del gioco si rivelano a poco a poco, in un processo di scoperta graduale e per questo appagante, in cui la visionarietà delle immagini restituisce la meraviglia di chi esplora per la prima volta mondi sconosciuti. Questa perfezione narrativa e visiva viene pagata con una certa freddezza emotiva, che impedisce di appassionarsi ai personaggi anche in scene che dovrebbero essere drammatiche. Per quanto sembri un rischio calcolato, questo finisce per privare il film di un'umanità che avrebbe arricchito notevolmente la forza e la portata del suo messaggio.

Interstellar è un film coraggioso e avvincente, una ventata d'aria fresca nel panorama degli stantii blockbuster d'oggigiorno, un tentativo riuscito di dimostrare che il cinema di intrattenimento può avere successo anche quando richiede attenzione per comprendere un meccanismo narrativo complesso ma comunque soddisfacente nella sua fredda e distante perfezione.

 *** 1/2

Pier

mercoledì 22 ottobre 2014

I Guardiani della Galassia

Fantascienza Pop



Terra, fine anni Ottanta. Il giorno della morte di sua madre, il giovane Peter Quill viene rapito da un'astronava aliena di proprietà di un gruppo di fuorilegge, i Ravager, che lo allevano come uno di loro. Anni dopo, ritroviamo Peter su un pianeta deserto, intento a impadronirsi di un ambito quanto misterioso artefatto, una sfera. Si fa chiamare Spacelord, ed è uno dei ricercati numero uno della polizia galattica. La sfera, però, fa gola a molti, e Peter finirà invischiato in una lotta con altri ricercati: il procione Rocket, il suo amico Groot, una creatura-albero dal cuore d'oro e dalla potenza devastante, la bella e combattiva Gamora e Drax, uno dei criminali più crudeli della galassia. Dopo essere stati arrestati, i cinque seppelliranno l'ascia di guerra e uniranno le forze per fuggire e reimpadronirsi della sfera, nel tentativo di impedire che venga utilizzata per distruggere un pianeta e, forse, l'intero universo.

I Guardiani della Galassia inizia negli anni 80, e non è un caso: il regista James Gunn non fa mistero delle sue fonti di ispirazione, e si ricollega allo spirito scanzonato e disincantanto dei primi Guerre Stellari e di Indiana Jones, creando un riuscito mix di generi e personaggi (quell'Awesome Mix che dà il titolo all'audiocassetta che Peter ascolta sempre, unico ricordo tangibile di sua madre). Il film naviga tra commedia, avventura e dramma, concentrandosi sui personaggi più che sulle scene d'azione o sugli effetti speciali (che sono comunque di altissimo livello). Tutti i protagonisti sono reietti, emarginati, intrappolati in un passato che impedisce loro di vivere come vorrebbero e di avere rapporti onesti con gli altri. La trama segue con attenzione la loro evoluzione come gruppo, collegandola con efficacia con gli eventi narrati e la missione che, a poco a poco, si delinea di fronte a loro, fino ad arrivare al climax emotivo e narrativo del film, quando gli eroi smettono di essere individui per divenire una squadra, unita nell'abbraccio protettivo del laconico ma iperespressivo Groot.

Il film scorre veloce tra battute, combattimenti e momenti rivelatori, e James Gunn lo dirige con mano sicura, rendendolo godibile anche per chi non conosce il fumetto da cui è tratto. Gli attori sono brillanti e hanno facce e voci perfette per i rispettivi ruoli, con Chris Pratt che si candida a diventare il nuovo "adorabile spaccone" di Hollywood, Bautista che regala una performance di inatteso spessore comico, e Bradley Cooper (Rocky) e Vin Diesel (Groot) che formano una strana coppia in computer grafica divertente ed efficace. Un po' sottotono rispetto agli altri Zoe Saldana, che paga però anche il minore spessore del suo personaggio.

I Guardiani della Galassia rilegge il genere del cinecomic, creando un ibrido tra il primo Iron Man e la fantascienza anni 80 che non si prende troppo sul serio e risulta originale e godibilissimo per lo spettatore. Per gli appassionati del genere, un appuntamento non perdere.

*** 1/2

Pier

lunedì 20 ottobre 2014

Il giovane favoloso

Una biografia dell'anima



Il racconto della vita di Giacomo Leopardi, dall'infanzia di "studio matto e disperatissimo" a Recanati fino alla morte in quel di Napoli, passando per la contrastata esperienza fiorentina. Un viaggio attraverso la poesia e l'animo del poeta, accompagnato dalla lenta deformazione del suo corpo.

Portare al cinema la vita di Giacomo Leopardi è impresa complessa e audace, soprattutto in Italia: la figura è complessa sotto molteplici punti di vista, e il suo multiforme ingegno difficilmente si presta a un inquadramento preciso e definito quale quello richiesto da un'opera biografica tradizionale. Servirebbe qualcosa come ciò che ha realizzato Todd Haynes con Io non sono qui, in cui Bob Dylan viene raccontato da angolature diverse, attraverso attori diversi e storie diverse, nel tentativo di restituire il caleidoscopio artistico della sua opera. In Italia, tuttavia, un'operazione di questo genere è impossibile, e Martone non sarebbe comunque il regista indicato per portarla avanti. Il regista napoletano riesce però a evitare il rischio fiction tv, e realizza un film rigoroso, che nel suo impianto classico riesce ad avere qualche spunto innovativo.

Leopardi viene raccontato attraverso ciò che più lo rappresenta, le sue parole, che permeano tutto il film, fuoriuscendo da lettere, poesie e racconti per entrare nel parlato, nella sua vita di tutti i giorni. Attraverso la sua viva voce ripercorriamo l'ambiguo rapporto con il padre Monaldo, sia mentore che carnefice, l'amicizia con Ranieri, l'impietoso e inesorabile incedere della malattia che ne avrebbe deformato il corpo. Elio Germano dà voce e fisico al poeta con una prestazione sublime e misurata, in cui riesce a rendere lo strazio interiore di Leopardi senza scivolare nella gigioneria né nell'eccesso.
La musica, moderna come composizione ma fuori dal tempo nel suono, accompagna alla perfezione le vicissitudini di Leopardi, divenendo non solo complemento alle immagini ma parte attiva del processo narrativo.

Martone dirige il film con mano sicura, inserendo all'interno di una biografia classica alcuni elementi visivi di forte impatto (la Natura matrigna, il finale), che contribuiscono ad arricchire una trama per il resto molto classica e con poco slancio nello svolgimento e nell'impostazione. Nonostante la durata eccessiva e alcuni momenti artificiosi e ridondanti, il film stimola e coinvolge lo spettatore, fino a un finale emozionante, in cui la penultima poesia di Leopardi, La ginestra, diviene la summa della sua vita e della sua esistenza, testamento spirituale di un intellettuale incompreso dal suo tempo e dalla famiglia, ma che ha segnato in modo indelebile la storia della letteratura non solo italiana.

***1/2

Pier

martedì 14 ottobre 2014

Pasolini

Appunti per un film superficiale


L’ultimo giorno di vita di Pier Paolo Pasolini, raccontato attraverso immagini della sua quotidianità e del suo film mai realizzato, "Porno-Teo-Kolossal". Tra incontri con amici, familiari e colleghi, il film ci accompagna fino al suo tragico epilogo, l’omicidio dell’intellettuale nella notte tra il 1 e il 2 novembre 1975.

Difficile raccontare con efficacia una figura così complessa come quella di Pier Paolo Pasolini, uno degli intellettuali più innovativi e poliedrici del Novecento italiano. Difficile anche parlare della sua morte, ancora al centro di controversie, senza scadere nel complottismo. Abel Ferrara inizia in modo originale, scegliendo di alternare il quotidiano con la fantasia, la realtà con la finzione filmica e letteraria. I lati positivi del film, tuttavia, finiscono qui, a causa di una serie di errori e superficialità che sarebbero imperdonabili persino per un regista alle prime armi. La continua alternanza tra italiano e inglese, operata senza una logica precisa, risulta innaturale e spesso fastidiosa, costringendo attori italiani a parlare un inglese innaturale e non eccelso, e Willem Dafoe a esprimersi in un italiano stentato da Stanlio e Ollio, che mal si adatta alla figura che interpreta. Per una volta, il doppiaggio arriva a salvare il film, eliminando questa bruttura almeno dalla versione italiana.

Anche senza considerare questa discutibile scelta espressiva, tuttavia, il film non riesce a raggiungere il suo scopo, ovvero quello di offrire un ritratto intimo di Pasolini, in cui il personaggio pubblico lascia posto a quello privato. Ferrara è infatti del tutto disinteressato a fornire un profilo intellettuale di Pasolini, o a spiegare la sua importanza all’interno del panorama culturale italiano e mondiale. Persino le sue idee politiche rimangono sullo sfondo, accessorie rispetto al racconto dell’uomo. La missione di Ferrara è un mezzo fallimento: Pasolini pecca di superficialità, sorvolando su numerosi aspetti della complessa personalità e poetica dell'intellettuale italiano e scivolando spesso nella banalità. Ferrara non riesce né a umanizzare il personaggio, nonostante l’inserimento di scene di vita quotidiana, né a trasmetterne la profonda vitalità intellettuale.

Il film dà quindi la sensazione di essere incompiuto, un’accozzaglia di appunti e immagini girate per raccogliere le informazioni necessarie a realizzare il film vero e proprio. Non valgono a salvare Pasolini i numerosi elementi di interesse a livello visivo, con alcune immagini di grande bellezza e verità, soprattutto nel finale: qui il contrasto tra la luminosa leggerezza delle note del Barbiere di Siviglia e le cupe immagini del ritrovamento del cadavere e del lutto creano un momento di forte intensità emotiva. Dafoe incarna alla perfezione il protagonista a livello fisico, sopperendo almeno in parte alla scarsa veridicità che l’uso dell’inglese (o, peggio ancora, di un italiano abborracciato) conferisce alle sue battute. Intorno a lui si muove un cast italiano di alto livello cui vengono concesse scene da comparse. L'unico che riesce a distinguersi è Ninetto Davoli nella parte di Epifanio/Eduardo de Filippo, unico a non essere forzato all’uso dell’inglese e dunque a non rimanere azzoppato nella sua naturalezza espressiva (per quanto un De Filippo che parla in romano non sia esattamente l'ideale...).

Il film di Ferrara risulta piatto, poco convincente e superficiale perché rimane a metà del guado, indeciso tra l’uso di una lingua o dell’altra, tra raccontare un grande intellettuale per quello che era o cercare di esaltarne l’umanità, tra l’essere un film artistico o un biopic da sceneggiato televisivo.

*1/2

Pier

PS: questa recensione è stata rielaborata a partire da quella già pubblicata su Nonsolocinema durante la Mostra. La trovate qui.

venerdì 10 ottobre 2014

Dove nascono le emozioni


Dopo averci regalato quelli che sono senza dubbio i migliori film d'animazione degli ultimi decenni, la Pixar sembrava aver perso il suo tocco magico.

Film come Cars 2, Brave e, in minor misura, Monsters University facevano pensare che la vena creativa fosse esaurita, e l'annuncio dei seguiti di Alla ricerca di Nemo e Gli Incredibili sembravano confermarlo, soprattutto considerando la passata avversione per i sequel della casa di Luxo jr.

Come può una studio cinematografico dimostrare a tutti che non solo non ha esaurito la creatività, ma è anzi pronto a superare nuovi ostacoli e affrontare sfide all'apparenza impossibili? Semplice: realizzando un film come questo, che ci porta alle radici stesse delle emozioni e della creatività.



Il regista e sceneggiatore è Pete Docter, a mio parere il miglior creativo di casa Pixar, autore di Monsters & Co e Up. Le premesse per il capolavoro ci sono tutte: non ci resta che aspettare.

PS: quanto è bello Rabbia?

Pier

martedì 16 settembre 2014

Sin City 2 - Una donna per cui uccidere

L'estetica del peccato



Sin City è la città del peccato, dove la legge non esiste e vige la legge del più forte. In una notte che sembra eterna si incrociano storie e personaggi, che lasciano dietro di sè una scia di sangue. Incontriamo così Marv, in preda a un'ira così cocente da fargli accettare qualunque missione omicida; Dwight, ancora irretito da Ava, la Dea, una donna dal fascino così potente che può uccidere; Johnny, un fortunato e presuntuoso giocatore d'azzardo; e Nancy, spogliarellista decisa a vendicare la morte del suo angelo custode, il poliziotto John Hartigan.

Ci sono voluti nove anni perchè Frank Miller e Rober Rodriguez realizzassero il secondo capitolo della saga cinematografica tratta dai fumetti di Miller. L'attesa non è stata vana. Sin City 2 riparte dai punti forti del primo capitolo - il sontuoso bianco e nero, la scarnezza di dialoghi e l'abbondanza di monologhi interiori, il sapiente equilibrio tra la violenza delle azioni e la meravigliosa estetica delle immagini - e riesce a migliorarli e a esaltarli ulteriormente. Il 3D dona profondità e volume allo splendido bianco e nero, macchiato di tocchi di colore più vari e indovinati rispetto al primo capitolo. La storia scorre che è un piacere, alternando sapientemente humor nero, noir, pulp e tragedie di sapore quasi shakesperiano. Rodriguez e Miller dirigono con piglio e sicurezza un film che regalia momenti di pura estasi visiva fin dalle prime scene, in una resa filmica che migliora il fumetto e lo arricchisce.

La sceneggiatura è sostenuta da un cast in forma eccellente, dalla new entry Gordon-Levitt, adorabile ed eroico spaccone, al ritorno di Mickey Rourke, semplicemente perfetto nei panni del ruvido Marv. Quella che brilla più di tutti è però la donna per cui uccidere del titolo: Eva Green è una femme fatale da manuale, una vera Dea dotata di una bellezza quasi irreale, pari solo alla sua straordinaria bravura.
La fotografia è la punta di diamante del film, un pezzo di bravura che riesce a sposare le atmosfere fumose, sudate e torride dei noir con Humphrey Bogart al gusto pulp dei film di Tarantino.

Sin City 2 è un capolavoro nel suo genere, in grado di creare quel sapiente mix tra reale e surreale che è proprio del fumetto, e a tradurlo in un linguaggio cinematografico fresco ed efficace, in grado di intrattenere lo spettatore alternando momenti di divertimento a momenti di pura tensione. Da non perdere.

****

Pier

sabato 6 settembre 2014

Venezia 2014 - Il Totoleone

Eccoci qui come ogni anno per il Totoleone. Come sempre, oltre al pronostico, anche il mio personale favorito.


Osella per il miglior contributo tecnico
Questo premio è un terno al lotto ogni anno, dato che non si sa nemmeno la categoria (fotografia? montaggio? musica?) cui verrà assegnata. Ipotizzando che venga data alla fotografia, il favorito, nonché mio preferito, non può che essere A pigeon sat on a branch reflecting on existence, con immagini che sembrano quadri per la loro perfezione e armonia.
Pronostico: A pigeon sat on a branch reflecting on existence
Scelta personale: pigeon sat on a branch reflecting on existence

Osella per la miglior sceneggiatura
Non si sono viste sceneggiature brillanti come quella di Philomena lo scorso anno, ma Birdman è sembrato il film con l'impianto narrativo più solido, insieme a Red Amnesia. Quest'ultimo è piaciuto molto, e sembra dunque favorito.
Pronostico: Red Amnesia
Scelta personale: Birdman

Premio Mastroianni 
Tanti giovani interessanti, tra il bambino di Sivas e quello di Le dernier coup de marteau. Tuttavia, la tendenza è quella di premiare artisti più maturi, e il favorito sarebbe dunque Adam Driver per Hungry Hearts.
Pronostico: Adam Driver (Hungry Hearts)
Scelta personale: Romain Paul (Le dernier coup de marteau)

Coppa Volpi maschile
Molti candidati, da Germano a Michael Keaton, passando per Viggo Mortensen, Willem Dafoe e Tahar Rakim. Leggermente favorito Viggo, con Michael Keaton che ottiene invece la mia preferenza.
Pronostico: Viggo Mortensen (Loin des hommes)
Scelta personale: Michael Keaton (Birdman)

Coppa Volpi femminile
In un anno in cui ci sono solo tre film con protagoniste femminili, la competizione è piuttosto ristretta. La Gainsbourg sembra fuori dai giochi, la Rohrwacher non può vincere per giustizia divina, quindi la favorita, mia e dei pronostici, è Yuanzheng Feng di Red Amnesia.
Pronostico: Yuanzheng Feng (Red amnesia)
Scelta personale: Yuanzheng Feng (Red amnesia)

Gran Premio della Giuria
Premio difficile da pronosticare quest'anno, vista l'atipicità del presidente di giuria. Il favorito sembra essere The Look of Silence, il terribile e splendido documentario di Oppenheimer, che potrebbe ambire a qualcosa di più se già la scorsa Mostra non avesse premiato un documentario.
Pronostico: The look of silence
Scelta personale: The look of silence

Leone d'argento
Un premio per il cinema italiano sembra inevitabile, vista anche la qualità delle opere proposte quest'anno. Ecco quindi che Anime nere, il più apprezzato dei tre in concorso, sembra favorito. Il mio preferito resta Birdman, con Inarritu che realizza un film in cui ogni elemento si incastra alla perfezione con gli altri.
Pronostico: Anime nere
Scelta personale: Birdman

Leone d'oro
Ed eccoci all'ultimo premio, il più importante. L'esito è molto incerto, ma Konchalovsky sembra aver catturato i cuori di tutti i giurati con la storia del suo postino. Per me il film migliore rimane quello di Roy Andersson, splendido apologo satirico e filosofico sull'inutilità dell'esistenza umana.
Pronostico: The postman's white nights
Scelta personale: A pigeon sat on a branch reflecting on existence

Da Venezia per quest'anno è tutto, appuntamento al 2015!

Pier

Telegrammi da Venezia 2014 - #6


Ultimo telegramma veneziano, questo pomeriggio il Totoleone!


Nymphomaniac Vol. 2 - Long version (Fuori Concorso), voto 5.5. Un notevole passo indietro rispetto al primo, dove il mix tra carnalità  e poesia creava un magnifico effetto straniante che conquistava e ammaliava. Qui la carne e la parola divengono predominanti, in un trionfo retorico che lascia poco spazio alla psicologia. Qui la recensione completa per Nonsolocinema.

The Sound and the Fury (Fuori Concorso), voto 7. Franco realizza un adattamento di Faulkner rispettoso, attento e intenso, in cui recitazione e parole del romanzo si fondono alla perfezione. Manca forse un po' di emozione, ma il rigore formale è encomiabile.

Burying the Ex (Fuori Concorso), voto 6/7. Joe Dante ritorna al genere horror comico con quella che definisce una "zomb-com", una romantic comedy con gli zombie. Il film diverte grazie alla sua capacità di non prendersi sul serio, tra citazioni horror, un po' di splatter e molte battute azzeccate. Da segnalare la presenza (che contribuisce al divertimento meta-filmico) di Alexandra Daddario e Ashley Greene, già vampira Alice Cullen nella saga Twilight.

No one's child (Settimana della Critica, Vincitore), voto 7.5. La storia di un bambino cresciuto dai lupi, che dopo essersi reintegrato nella società si ritrova in mezzo al conflitto jugoslavo. Il film è interessante e alterna abilmente divertimento ed emozione, con un finale che induce anche alla riflessione.

Arance e Martello (Settimana della Critica), voto 6.5. Diego Bianchi, detto Zoro, esordisce alla regia con un film divertente, che colpisce più per l'interessante lavoro di regia e fotografia che per l'originalità del messaggio politico di cui vorrebbe farsi portatore.

The Postman's White Nights (Concorso), voto 8.5. Koncaloskij racconta la storia vera di un postino in un paesino della Siberia, incapace di lasciare il suo lavoro e la sua vita, fatta di piccoli rituali quotidiani e incontri con gli altri abitanti dei villaggi in cui lavora. Un film toccante nella sua semplicità, in cui il conflitto tra ruralità e vita moderna rimane sullo sfondo (memorabile in questo senso la scena finale), ma segna profondamente le esistenze dei protagonisti.





venerdì 5 settembre 2014

Telegrammi da Venezia 2014 - #5


Quinta parte dei telegrammi veneziani. Domani arrivano la sesta e ultima parte e il Totoleone.


Sivas (Concorso), voto 5. Storia banale e non approfondita del rapporto tra un ragazzo e un cane da combattimento. Il film si salva solo per l'interpretazione del giovane protagonista e le atmosfere, ma non basta.

Cymbeline (Orizzonti), voto 3. Di gran lunga il peggior film visto qui al festival, un adattamento moderno di Shakespeare che fa rabbrividire per lo spreco di talento che mette in scena. Ed Harris, Ethan Hawke e Milla Jovovich recitano in un lavoro raffazzonato e approssimativo, che non riesce né a emozionare né a interessare.

La Trattativa (Fuori Concorso), voto 7. La Guzzanti smette i panni della pasionaria per indossare quelli della documentarista, e realizza un film che, per quanto ovviamente non imparziale, offre una panoramica interessante e puntuale  sui fatti riguardanti la presunta trattativa Stato-mafia, riuscendo a rendere il racconto piacevole e a volte persino divertente.

Theeb (Orizzonti), voto 8. Splendida storia di maturazione e crescita di un giovane beduino, che scopre le tradizioni e l'intima natura del suo popolo attraverso un viaggio nel deserto con il fratello e un ospite in difficoltà.

Pasolini (Concorso), voto 5. Nonostante qualche guizzo artistico, il film di Ferrara su Pasolini risulta superficiale. Ottima la prova di Dafoe, nonostante la scellerata scelta di fargli recitare alcune scene in italiano. Qui la recensione completa fatta per Nonsolocinema.

Le dernier coup de marteau (Concorso), voto 7. Interessante film sull'adolescenza, tra musica classica, calcio e problemi di salute. Qui la recensione completa.

mercoledì 3 settembre 2014

Telegrammi da Venezia 2014 - #4


Quarta parte dei telegrammi veneziani, con i film visti negli ultimi due giorni e qualcuno che mi ero dimenticato da quelli precedenti.


Ich seh, Ich seh - Goodnight Mommy (Orizzonti), voto 7.5. Thriller psicologico a tinte horror che indaga il rapporto tra realtà effettiva e realtà percepita, attraverso un confronto scontro tra una madre reduce da un'operazione che le ha cambiato i lineamenti e i due figli convinti che si tratti di un impostore. L'inquietudine cresce inquadratura dopo inquadratura, fino al disturbante ma potente finale.

Il Giovane Favoloso (Concorso), voto 7. Martone dirige un film solido e dall'impianto molto classico, che pecca di lungaggini ma ha il grande merito di raccontare Leopardi senza scivoloni retorici né facili pietismi. Germano dona anima e corpo al poeta di Recanati, offrendo un'interpretazione superba. Finale poeticamente perfetto.

Nobi - Fires on the Plain (Concorso), voto 7.5. Tsukamoto dirige un film di grande forza visiva, in cui l'orrore della guerra e le sue devastanti conseguenze sulla psiche umana vengono raccontate senza sconti né edulcorazioni. Nonostante gli evitabilissimi eccessi di alcune scene, il film colpisce per realismo e drammaticità.

A Pigeon Sat on a Branch Reflecting on Existence (Concorso), voto 9. Geniale, dissacrante e filosofico, con una fotografia strepitosa. A mio parere, fin qui, il film migliore della mostra. Qui la recensione completa.




lunedì 1 settembre 2014

Telegrammi da Venezia 2014 - #3

Terzo telegramma da Venezia, con molti film, del concorso e non.


She's Funny That Way (Fuori Concorso), voto 9.5. Il ritorno di Peter Bogdanovich, uno dei geni della commedia sofisticata made in USA (L'ultimo spettacolo, Paper Moon, Ma papà ti manda sola, e tant altri), è semplicemente strepitoso. Elegante, esilarante, ben recitato, il film non concede una pausa, e diverte facendoci riscoprire il piacere del racconto e dell'arte di raccontare. Una bella storia è migliore della verità, dice la protagonista (la rivelazione Imogen Poots), e noi concordiamo. Il finale è una perla assoluta.

The Humbling (Fuori Concorso), voto 6.5. Adattare i romanzi di Roth non è mai semplice, dato che significa trovare un espediente efficace per tradurre in immagini i suoi flussi di coscienza. Levinson riesce nell'impresa consegnando il film nelle mani di Al Pacino, che gigioneggia in modo irresistibile nei panni di un grande attore che ha perso il suo talento. Oltre a Pacino, però, c'è poco altro, e il film risulta interessante ma abbastanza superficiale.

Hungry Hearts (Concorso), voto 3/4. Costanzo dimostra ancora una volta di essere un ottimo creatore di immagini (anche se questo è forse il suo film più debole, in questo senso) ma uno sceneggiatore scadente, soprattutto nella costruzione dei personaggi. Il film inizia con una scena a tema scatologico che starebbe bene in un cinepanettone, e prosegue con il racconto della crescente pazzia di una madre che, per mantenere puro il figlio neonato, finisce per non nutrirlo. La parte della madre è affidata ad Alba Rohrwacher, come tutti i ruoli di donne disturbate negli ultimi cinque anni di cinema italiano, che offre una prova monocorde, con un viso sempre in bilico tra pianto ed espressione di disprezzo, anche quando il copione non lo richiede. Il film si regge quindi sulle spalle di Adam Driver, per cui passare dal set di Scorsese o del nuovo Star Wars a lavorare con la Rohrwacher deve essere stato un trauma non da poco.

The Cut (Concorso), voto 7. Film di forte impatto emotivo nella prima parte, The Cut si perde in lungaggini nella seconda, risultando comunque interessante nel suo racconto dell'odissea di un padre armeno alla ricerca delle figlie dopo la dissoluzione dell'Impero Ottomano. Akin dirige con il consueto rigore, tratteggiando un protagonista che tocca il cuore dello spettatore.

The Boxtrolls (Fuori Concorso), voto 7.5. Terzo film d'animazione per gli studios Laika, che racconta una storia di emarginazione e persecuzione razziale travestendola da favola per bambini, in cui dei troll dal cuore d'oro vengono cacciati dagli abitanti di un paesino sonnacchioso. Il film funziona, tra momenti comici e drammatici, e gli adulti non mancheranno di notare gli inquietanti e ben costruiti richiami ai regimi totalitari del XX secolo.

Senza nessuna pietà (Orizzonti), voto 4.5. Noir italiano ben girato, ma con una trama molto banale. Qui la recensione completa.

Loin des hommes (Concorso), voto 7.5. Tratto da un racconto di Camus, questo western atipico è sorretto da una fotografia eccellente e da un ottimo Viggo Mortensen, che recita in francese e in arabo. Manca però il coinvolgimento emotivo. Qui la recensione completa.

sabato 30 agosto 2014

Telegrammi da Venezia 2014 - #2


Secondo telegramma da Venezia, con i film visti negli ultimi due giorni. Prima di iniziare, un'informazione: nche quest'anno collaboro con Nonsolocinema, e metterò qui i link alle recensioni estese che faccio per loro.


99 Homes (Concorso), voto 7.5. Il film racconta il dramma collettivo della crisi dei mutui negli USA attraverso la storia di una vittima che si trasforma in carnefice, passando dall'essere sfrattato a lavorare per un esecutore di sfratti. Morale e praticità non coincidono, il conflitto, interiore e famigliare, è inevitabile. Michael Shannon incarna alla perfezione il diavolo tentatore e Andrew Garfield lo spaesato e distrutto padre di famiglia che finisce per lavorare per lui. Intenso, solido, un film che fa riflettere sulla miseria umana e sulle illusioni costruite sul denaro e la ricchezza facile.

The Look of Silence (Concorso), voto 8.5. Oppenheimer torna sul luogo del delitto e, dopo aver raccontato la strage dei "comunisti" indonesiani dal punto di vista degli assassini con il documentario The Act of Killing, decide di raccontare quella tragedia dal punto di vista dei parenti delle vittime. Per farlo sceglie la via più difficile e coraggiosa: metterle a confronto con gli aguzzini dei loro cari, che ancora oggi detengono il potere nel paese. Crudo, forte, un pugno allo stomaco che ci ricorda ancora una volta la banalità del male, raccontandoci un crimine che tutti hanno perpetrato ma di cui nessuno sembra sentirsi responsabile.

Anime Nere (Concorso), voto 8. Francesco Munzi parla di ndrangheta in modo coraggioso e originale, mostrandoci sia il profondo radicamento nazionale e internazionale del fenomeno, sia le sue radici affondate saldamente nella terra e nei monti calabresi. Pastorizia e edilizia, omicidi e affari: nulla viene tralasciato, tutto finisce sotto la cupa lente di Munzi, supportato da un cast intenso e vero e da una fotografia crepuscolare che rende il film uno dei migliori degli ultimi anni nel panorama italiano. I fan della serie Gomorra non possono perderselo.

Heaven Knows What (Orizzonti), voto 7. Essere homeless a Manhattan, oggi, senza retorica né insegnamenti morali, seguendo due ragazzi tossicodipendenti attraverso il loro eterno peregrinare per la Grande Mela. A tratti confuso, il film convince per il realismo delle vicende narrate e l'ottima prova corale del cast, nonché per la regia dei fratelli Safdie che con una camera a mano ritrovano lo spirito di scoperta e ricerca del quotidiano tipico della Nouvelle Vague.

Manglehorn (Concorso), voto 8. Un uomo comune, con un brutto carattere e l'incapacità di relazionarsi con altre persone senza urtarne i sentimenti; la sua vita, tra appuntamenti fissi e fallimentari tentativi di renderla normale; i suoi sogni, infranti in un passato pieno di errori e perduti in un'amore che non riesce a dimenticare. David Gordon Green dirige un film emozionante, con una sceneggiatura sviluppata in modo innovativo, in cui un Al Pacino sottotono mostra a tutti cosa significhi essere un attore sublime, capace di uno spettro di emozioni immenso anche senza dover ricorrere a urla e scenate.

La rançon de la gloire (Concorso), voto 6.5. Leggero e simpatico omaggio a Chaplin, che però risulta fuori posto in concorso. Qui la recensione completa: http://nonsolocinema.com/La-rancon-de-la-gloire-di-Xavier_30370.html

giovedì 28 agosto 2014

Telegrammi da Venezia 2014 - #1


Come ogni anno, Filmora è a Venezia, e vi racconterà i film visti in Laguna.


Ecco quelli visti finora:

Reality (Orizzonti), voto 7.5. Quentin Depieux, regista del cult Rubber, realizza un film in cui la ricerca del miglior urlo della storia del cinema diventa un allucinato percorso interiore, in cui cinema e realtà si interesecano fino a confondersi. Un Inland Empire girato con maggiore autorironia e divertimento, in cui il regista riflette con delirante intelligenza sul cinema in generale e sul proprio modo di intenderlo in particolare.

Qin'ai de (Dearest) (Fuori Concorso), voto 7. Film di denuncia che racconta un aspetto poco conosciuto della realtà cinese, il rapimento di bambini da parte di gruppi criminali, attraverso gli occhi dei genitori di uno di loro. Rigoroso e senza particolari acuti, il film colpisce per la sua solidità e per l'abilità con cui riesce a raccontare il dolore di una perdita da molteplici punti di vista, compreso quello di una complice dei rapitori.

Birdman (Concorso), voto 8.5. Iñárritu realizza un film bello, intelligente senza essere cerebrale, educativo senza essere didascalico, in cui racconta il tentativo di riscatto personale e professionale di un attore divenuto famoso per avere interpretato Birdman, supereroe protagonista di una serie di film di successo negli anni '90. Michael Keaton offre una prova sontuosa, in cui il confine tra attore e personaggio scompare e viene messa la "depressione dorata" di chi vive sotto i riflettori. Iñárritu dirige con eccezionale abilità e perizia tecnica un cast strepitoso (oltre a Keaton, spiccano Norton e Galifianakis) e realizza un film di grande ricchezza tematica, che dimostra come sia possibile fare cinema impegnato intrattenendo lo spettatore.


sabato 23 agosto 2014

Luciano Vincenzoni - I dimenticati: puntata 12



Il grande pubblico ricorda solitamente gli attori e, qualche volta, i registi. Ecco la ragione principale per cui Luciano Vincenzoni, di professione sceneggiatore, è oggi un "dimenticato", pur avendo firmato alcuni tra i più celebri film del cinema italiano del dopoguerra.

Nato a Treviso nel 1928, fin da ragazzino trascorreva giornate intere nell'unica sala cinematografica della sua città, grazie alla generosità del proprietario che, al prezzo di un unico biglietto, gli consentiva di entrare al primo spettacolo per uscire soltanto al termine dell'ultimo. All'inizio degli anni Quaranta sapeva già tutto del cinema italiano e di quello americano. Pur avendo compiuti studi in legge, era quindi destinato a far parte di quell'ambiente, anche per le sue doti di inventore di storie.

Vi entrò però solo per un colpo di fortuna. Durante la guerra volle offrire da bere a un concittadino di nome Tony Roma, ufficiale di Marina in libera uscita; questi, già alticcio, involontariamente approfittò troppo della generosità del ragazzo che però, mostrando già il carattere orgoglioso che l'avrebbe contraddistinto in seguito, non si tirò indietro. Qualche anno dopo, finita la guerra, in un periodo in cui la famiglia Vincenzoni se la passava male, Tony Roma, che nel frattempo aveva fatto fortuna e voleva investire nel cinema, tornò all'improvviso a bordo di un macchinone americano per sdebitarsi. Donò a Luciano cinque milioni, e lo portò con sè a Roma come produttore esecutivo di quello che rimarrà l'unico film da lui finanziato: Incantesimo tragico - Oliva (1951), di Mario Sequi. Fu un fiasco, ma Vincenzoni ormai aveva realizzato la sua aspirazione e non voleva più lasciare Roma, e decise di restare in attesa di un'altra occasione.

Questa arrivò grazie a una storia che aveva scritto anni prima ispirandosi a un fatto di cronaca: raccontava di un tranviere che viene ingiustamente sospeso dal lavoro e allora, nottetempo, ruba un tram dal deposito e raccoglie i nottambuli improvvisando una grande festa a base di danze e cibo, comparso per magia. Alla fine il tranviere viene processato, assolto e reintegrato sul posto di lavoro. Era una storia molto esile, che però descriveva bene lo spirito di un paese che usciva dalla guerra e aveva voglia di buoni sentimenti. Vincenzoni vedeva in Aldo Fabrizi l'interprete ideale del protagonista, perciò fece in modo d'incontrarlo. A Fabrizi la storia piacque, comprò il soggetto e incaricò Vincenzoni di scriverne anche la sceneggiatura, affiancandogli Ruggero Maccari. Il regista era Mario Bonnard, che però si ammalò presto e fu sostituito dall'aiuto, un giovane Sergio Leone, che fece così il suo esordio, pur non accreditato, dietro la macchina da presa. Il film, uscito nel 1954 col titolo Hanno rubato un tram e oggi purtroppo dimenticato, era un gioiellino e Vincenzoni ne trasse soddisfazione professionale ed economica.


I soldi però, com'era suo costume, li sperperò subito e anche il successo lo abbandonò presto. Un aiuto gli venne da Ennio Flaiano che lo aveva preso in simpatia. Un giorno lo accompagnò dal regista Hugo Fregonese, che stava iniziando le riprese di un film su una compagnia itinerante di attori, I girovaghi, con Carla Del Poggio e Peter Ustinov. Mancava il protagonista, perché Mastroianni aveva rifiutato, e il regista offrì la parte a Vincenzoni, che era di bell'aspetto. Questi, pur non avendo alcuna intenzione di fare l'attore, accettò solo per la paga di centomila lire al giorno. Poco prima di terminare le riprese, però, Vincenzoni litigò con il regista e abbandonò il set. Nelle ultime scene fu quindi sostituito da una controfigura, la quale risulterà poi accreditata come protagonista dell'intero film.

Poco dopo Vincenzoni conobbe un giovane cineasta squattrinato come lui, Pietro Germi. Insieme, nel 1955, realizzarono Il ferroviere. Il film, che aveva per protagonista lo stesso Germi, costò ottanta milioni e incassò un miliardo e duecento milioni. Pareva l'inizio di un grande sodalizio tra Germi e Vincenzoni. Tuttavia, entrambi avevano un pessimo carattere, e quindi il loro rapporto passava spesso dalla proficua collaborazione a furibonde litigate, che li portavano a interrompere anche per molti anni i loro rapporti. Il primo litigio avvenne proprio dopo il successo de Il ferroviere, lasciando Vincenzoni ancora una volta senza lavoro e senza soldi.

La sua situazione era disperata: tutto quel che possedeva, a parte i debiti, erano sette soggetti già pronti da realizzare e mille lire. Consapevole del valore del suo materiale e sapendo che Dino De Laurentiis aveva fama di produttore scontroso ma illuminato, utilizzò le mille lire per prendere un taxi che lo portasse nei suoi uffici, dall'altra parte di Roma. Vincenzoni non conosceva De Laurentiis e non aveva appuntamento con lui; era insomma una follia, tipica di chi non ha più niente da perdere. A metà corsa il tassametro segnava già 1500 lire. Arrivato, Vincenzoni disse al tassista di aspettarlo, meditando di fuggire per i campi attigui se le cose fossero andate male.



Fece irruzione nell'ufficio di De Laurentiis e mancò poco che questi chiamasse la polizia. Per fortuna, in quel momento c'era in ufficio Carlo Lizzani, che conosceva Vincenzoni e garantì per lui. Dino gli concesse allora un quarto d'ora, ma le storie di Vincenzoni lo interessarono a tal punto che, dopo due ore, gli disse che gli avrebbe comprato tutti i sette soggetti, tre dei quali - La grande guerra (1959, regia di Mario Monicelli), Il gobbo (1960, regia di Carlo Lizzani) e I due nemici (1961, regia di Guy Hamilton) - sarebbero stati immediatamente realizzati.Vincenzoni, che contava di guadagnare duecentomila lire, uscì con un milione per ciascun soggetto, un contratto di collaborazione per tre anni a un milione al mese e due milioni in contanti per le "piccole spese", tra cui il taxi.
Era ormai ricco, e presto sarebbe diventato anche famoso: i film da lui scritti per De Laurentiis ebbero infatti un buon successo di pubblico e critica. In particolare, La grande guerra, interpretato da Alberto Sordi e Vittorio Gassman, si aggiudicò il Leone d'Oro a Venezia nel 1959



Dopo diciannove film, però, anche la collaborazione con De Laurentiis finì in modo brusco: Vincenzoni si persuase che un collaboratore di Dino, geloso di lui, lo stesse boicottando e si dimise. Nel frattempo aveva riallacciato i rapporti con Germi, con il quale crearono la società di produzione RPA e realizzarono Sedotta e abbandonata (1964), che vinse il Nastro d'Argento per la miglior sceneggiatura. Si recarono poi a Parigi per discutere di un progetto di co-produzione internazionale per un film a episodi, poi non realizzato. I due intesero il soggiorno con diverso spirito: Germi era interessato alla visita di chiese e musei, mentre Vincenzoni preferiva dedicarsi ai divertimenti notturni. Pur di svicolare da Germi s'inventò addirittura come scusa una cena di lavoro con Zanuch, presidente della Fox. Germi, però, sospettoso, gli disse: "Se scopro che mi racconti bugie hai finito di lavorare con me". Questa frase preoccupò Vincenzoni, al punto da indurlo a recarsi veramente all'Elisée Matignon, ristorante e locale notturno parigino frequentato da tutto il mondo del cinema, a cercare Zanuch e avvicinarlo inventandosi qualcosa. Scoprì con angoscia che era partito il giorno prima. Vi era però Ilya Lopert, capo della United Artists. Vincenzoni si presentò a lui come sceneggiatore de La grande guerra, distribuito l'anno precedente in America proprio dalla United Artists (con enorme successo), ma non riuscì ad interessarlo finché non gli fece il nome di Germi - che l'anno precedente aveva vinto l'Oscar con Divorzio all'Italiana - inventandosi anche con lui che stavano trattando con la Fox per un contratto da ducentocinquantamila dollari. Al che Lopert gli disse: "Vi offro il doppio. Venite domani nel mio ufficio a firmare il contratto".

Per la United Artists i due realizzarono nel 1965 Signore e signori, nel quale Vincenzoni raccontò la sua Treviso, con la quale non fu tenero: il film era infatti costituito da tre episodi nei quali vengono messi alla berlina i vizi della provincia italiana e l'indole ipocrita e pettegola dei suoi abitanti. Il film incontrò il successo del pubblico e della critica, al punto da vincere la Palma d'oro a Cannes (ex aequo con Un uomo e una donna di Lelouch), oltre al David per la miglior regia e il Nastro d'Argento per la miglior sceneggiatura, scritta, oltre che da Vincenzoni, anche da Age e Scarpelli e Flaiano.



Difficile pensare che a questo punto Vincenzoni potesse tornare in miseria, ma così andò, e i rapporti con Germi si guastarono di nuovo, questa volta definitivamente. Lo salvò la visita del vecchio amico Sergio Leone, conosciuto sul set di Hanno rubato un tram. Leone era reduce dal trionfo ottenuto con Per un pugno di dollari, ma gli avevano chiesto un seguito e temeva di fallire. Perciò chiese aiuto a Vincenzoni, pur non aspettandosi che un autore importante come lui avrebbe accettato di dedicarsi a uno "spaghetti western". Non poteva immaginare però che non avesse più una lira. Vincenzoni non poté che accettare, e scrisse insieme a Leone Per qualche dollaro in più (1965), che in Italia spopolò. Allora Vincenzoni chiamò Lopert, ormai grande amico, e gli consigliò di comprare i diritti per l'America. Lopert non solo lo fece, ma chiese se avevano in mente un seguito; Vincenzoni improvvisò una storia su tre banditi che durante la guerra di secessione cercano un tesoro e Lopert lo finanziò sulla fiducia con un milione di dollari. Divenne Il buono, il brutto e il cattivo (1966), l'ultimo della cosiddetta "trilogia del dollaro". Successivamente, per Leone Vincenzoni scrisse poi anche Giù la testa (1971).



Grazie ai film di Leone, Vincenzoni era diventato famoso anche in America: un giorno ricevette una telefonata di Billy Wilder - che considerava, insieme a Germi, il suo regista di riferimento - il quale gli offrì di lavorare insieme alla sceneggiatura di Che cosa è successo tra mio padre e tuo madre? (1972), ambientato a Ischia. Fu l'inizio di un soggiorno a Hollywood, durato diversi anni, nei quali Vincenzoni si conquistò la stima e l'amicizia dei più grandi divi americani. Sempre negli Stati Uniti, per conto di De Laurentiis (col quale era tornato in ottimi rapporti) realizzò L'orca assassina (1977), anche in veste di coproduttore.
Tornato in Italia lavorò ancora molto, scrivendo film meno riusciti, fra i quali vale la pena ricordare soprattutto i due con Steno, Piedone lo sbirro (1973) e La poliziotta (1974), e quello con Nuti, il poetico e surreale Casablanca Casablanca (1985). Il suo ultimo lavoro fu Malena di Tornatore, nel 2000.

Morto pochi mesi fa, Vincenzoni ha lasciato un'eredità senza lasciare eredi. La sua natura solitaria da un lato lo ha isolato dal contesto creativo e produttivo del cinema italiano, dove tutti formavano dei clan di amici dentro e fuori dal set, ma dall'altro gli ha permesso diventare il più internazionale dei nostri sceneggiatori, capace come nessun altro di negoziare con i produttori stranieri e di costruire con loro relazioni fondate unicamente sulla considerazione che per lui avevano i più importanti registi e attori del mondo, e che sono state assai proficue per il nostro cinema. Lo ha fatto senza secondi fini, con lo spirito dell'artista di talento che privilegia la voglia di divertirsi e non si comporta secondo l'interesse. A gratificarlo è stata la possibilità di svolgere il mestiere che amava, l'unico per cui si sentiva portato, che gli ha permesso di lavorare con quei personaggi che, dalla piccola sala di Treviso, gli apparivano come degli eroi lontani.

Giovanni M.

venerdì 6 giugno 2014

Maps to the Stars - Lo sconsiglio: puntata 15

Maps to the Stars



 Con questo film, Cronenberg entra di diritto nel gruppo "grandissimi registi rimbambiti dal passare degli anni", di cui fa parte da ormai qualche anno Ridley Scott.

Un insulso melò che mischia paranormale, gioventù bruciate e complessi edipici che manco Freud. E sbadigli, tantissimi sbadigli.

Livello di sconsiglio: Massimo (*****)


giovedì 29 maggio 2014

X-Men: Giorni di un Futuro Passato

Cambiare il passato per un futuro migliore


In un futuro distopico in cui giganteschi robot intelligenti chiamati Sentinelle hanno sterminato i mutanti, il Professor Xavier e Magneto uniscono le forze per cercare di cambiare il passato. Sfruttando i poteri di Kitty Pride, inviano la coscienza di Wolverine all'interno del suo io degli anni Settanta, affinchè impedisca il realizzarsi dell'evento che donò linfa al progetto-Sentinelle: l'omicidio del loro creatore, Bolivar Trask, da parte di Mystica, e la sua conseguente cattura, che permise di rendere i robot capaci di adattarsi ai poteri dei mutanti. Wolverine dovrà convincere gli Xavier e Magneto del passato a collaborare per il bene comune: un'impresa ardua, viste le diverse strade intraprese dai due ex amici.

Dopo aver affidato il riuscito X-Men l'inizio a Matthew Vaughn, capace di spazzare via le perplessità generate dal terzo episodio della prima trilogia, Bryan Singer torna dietro la macchina da presa per mettere in scena una delle saghe più famose del gruppo di mutanti targati Marvel. Giorni di un futuro passato è un film narrativamente ambizioso, sia per la fama del materiale di partenza, sia per il moltiplicarsi dei piani narrativi, dispersi nel tempo e nello spazio e suddivisi tra diversi protagonisti e situazioni. La regia di Singer è all'altezza delle sue aspirazioni, e riesce a districarsi con agilità e sicurezza in una sceneggiatura densa e ricca di eventi, riuscendo persino a concedersi l'opportunità di strizzare l'occhio alla storia, al cinema e alla serialità televisiva con una serie di citazioni molto riuscite. Il ritmo è adrenalinico, ma alle scene d'azione si accompagnano momenti comici - irresistibili tutte le sequenze con Quicksilver - e drammatici, con alcuni scambi tra il giovane Magneto e il giovane Xavier che si distinguono per intensità emotiva e recitativa.

Singer riesce anche a concedere il giusto spazio a tutti i membri del suo cast di all-star, in cui le nuove leve brillano più della vecchia guardia, sia per il maggior interesse del loro segmento di storia, sia per il minutaggio più elevato. McAvoy e Fassbender conferiscono ai loro personaggi una gravitas e una profondità che li rendono più eroi drammatici che da fumetto, e rendono il film qualcosa di più di un semplice blockbuster, in grado di toccare, seppur superficialmente, temi profondi a livello storico, scientifico e filosofico. Accanto a loro brilla la new entry Peter Dinklage, un villain perfetto nella sua perversa ottusità.

Giorni di un futuro passato reinventa il passato e il presente della saga, cancellando con un colpo di spugna tutti gli errori del terzo capitolo della prima trilogia, e getta le basi per il suo futuro, suggerendo la presenza di una doppia storyline, una ambientata nel presente, l'altra nel passato. Singer è riuscito con mano sapiente a unire le tematiche della diversità proprie dei primi capitoli con l'afflato storico di X-Men l'inizio, creando così un film che soddisfa dal punto di vista dello spettacolo e offre anche qualche spunto di riflessione.

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Pier




venerdì 23 maggio 2014

Locke

Un saggio di scrittura e recitazione




Ivan Locke è alla guida della sua auto verso Londra. Chiuso nell'abitacolo, con la sola compagnia del suo cellulare e dei suoi pensieri, l'uomo dovrà risolvere una crisi coniugale, aiutare una donna a partorire, ed assicurarsi che il progetto edilizio di cui è responsabile venga portato a termine durante la sua assenza. Il viaggio diventa quindi una corsa contro il tempo, in cui il protagonista impara a venire a patti con se stesso e le proprie scelte.

Il tocco sapiente di uno sceneggiatore si vede soprattutto quando la messa in scena concede poche libertà, obbligandolo all'unità di tempo e di luogo. Steven Knight, già sceneggiatore per Steven Frears e David Cronenberg, nella sua opera seconda da regista si esibisce in uno sfoggio di bravura, raccontando la vita di un personaggio attraverso il viaggio che questo compie, solo, in una notte destinata a cambiargli la vita. Il mondo esterno non ha consistenza fisica, ed esiste solo attraverso le voci con cui Locke dialoga al cellulare, impegnato in una sarabanda lessicale e dialogica con cui cerca non tanto di salvare la sua vita e il suo lavoro, quanto di fare la cosa giusta. Knight riesce a generare tensione e attesa grazie al solo uso della parola, utilizzata magistralmente e con ritmi e tempi vicini alla perfezione.

A sostenere lo sforzo di scrittura di Knight c'è un Tom Hardy eccellente, che brilla per la sua capacità di comunicare il dramma interiore del protagonista, il suo strazio e i suoi dubbi, senza ricorrere a urla o esagerazioni di sorta. La sua recitazione è misurata e contenuta, ma riesce comunque a scavare nel personaggio e a trasmettere le sue emozioni allo spettatore, grazie alla mimica facciale, alle variazioni di tono o alla concitazione del dialogo.
Registicamente il film fa il massimo possibile date le condizioni, con la macchina da presa costretta nell'abitacolo di un'auto e la fotografia su un'atmosfera notturna fredda e straniante come le luci di un'autostrada.

Locke è un esperimento ben riuscito, che porta lo spettatore nel cuore delle emozioni del protagonista, portandolo a vivere insieme a lui, come un passeggero, le emozioni e i dilemmi che questo si trova ad affrontare in una notte come tante che diventa però la più importante della sua vita.

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Pier

mercoledì 21 maggio 2014

Godzilla

Lo sporco inganno del trailer e il mostro cuccioloso



Joe Brody è un ingegnere nucleare che lavora in una centrale in Giappone insieme alla moglie. Quando un impulso elettromagnetico di origine sconosciuta provoca una scossa sismica che distrugge la centrale e causa la morte della moglie, la missione di Brody diventa scoprire le vere ragioni del disastro. Quindici anni dopo la sua ricerca lo porterà a scoprire quello che le autorità hanno tenuto nascosto al mondo, una verità inquietante e terribile che affonda le sue radici nell’alba del mondo e della vita sulla Terra.

Dopo il disastroso film del 1998, Godzilla, il padre dei kaiju giapponesi assorti a nuova fama in Occidente grazie a Pacific Rim, sembrava pronto a un rilancio in grande stile. Tutto nel trailer lasciava pensare a un blockbuster di altissimo livello: un protagonista come Bryan Cranston, reduce dal successo di Breaking Bad; una trama finalmente sensata e coerente con la storia del mostro e le tematiche ad esso connesse; e, soprattutto, un mostro ed effetti speciali delle aspettative.
Se l’ultima aspettativa è stata soddisfatta, le prime due sono state ampiamente deluse: Godzilla è un film lento e noioso, in cui l’unico attore in grado di recitare viene messo da parte quasi subito per lasciare spazio a dei protagonisti inespressivi o per chiara incapacità, come nel caso della Olsen e di Taylor-Johnson o per scarsa convinzione, come nel caso di Watanabe e Strathairn, due grandi attori che sembrano domandarsi a ogni scena perché diamine si trovino in una tale baracconata, salvo poi guardare il portafoglio e ricordarsene.

La trama, oltre a essere insopportabilmente lenta, un peccato mortale per un film del genere, è anche ridicola e incoerente, con Godzilla ridotto al ruolo di comparsa e, soprattutto, elevato a difensore dell’umanità anziché esserne la nemesi. Un mostro che dovrebbe essere la rappresentazione fisica  dell’orrore del nucleare e dei disastri che questo può provocare diventa così un animale guardiano, pronto persino a sacrificare se stesso di salvare Tokyo prima e San Francisco poi dalla terribile furia distruttrice dei MUTO, mostri con velleità riproduttive che sembrano copiati pari pari da alcuni degli alieni di Pacific Rim. In alcune inquadrature Godzilla risulta addirittura tenero, un povero cucciolo spossato dalle lunghe ore di gioco, cui è giusto concedere un riposino. Il tutto per una creatura la cui sola apparizione dovrebbe incutere terrore ed evocare morte e devastazione.

Rimangono gli effetti speciali e la spettacolarità di alcune scene (il lancio dei paracadutisti su tutte), che non bastano però a ripagare lo spettatore per una trama così insulsa e, soprattutto, per l’inganno perpetuato con il trailer, raramente utilizzato in maniera così smaccatamente manipolatrice, con alcune immagini, come quella della Statua della Libertà distrutta, che non compaiono nemmeno nel film, dato che tutta l’azione si svolge sull’Oceano Pacifico e di New York manco si vede l'ombra.

Godzilla è un film inutile e dimenticabile che, pur riuscendo a fare nettamente meglio del suo predecessore americano, è del tutto incapace di creare quella tensione narrativa e quella sensazione di catastrofe incombente che un disaster movie  dovrebbe generare nello spettatore.

* 1/2

Pier

giovedì 15 maggio 2014

Solo gli amanti sopravvivono

Vampiri e Romanticismo



Adam è un musicista underground con un nutrito seguito di fan che non ne conoscono però il volto. Vive recluso in una casa in periferia di Detroit, dove colleziona chitarre d'epoca e si dedica appieno alla sua arte. Eva vive a Tangeri, immersa in libri e stoffe pregiate, e si incontra quotidianamente Christopher Marlowe, il drammaturgo elisabettiano, preso il Caffè "Le Mille e una Notte". Adam ed Eve sono vampiri, e si amano ormai da diversi secoli. Periodicamente l'uno fa visita all'altro, e i due si abbandonano a un rapporto fatto del reciproco amore per l'arte, il bello, e per una vita insieme destinata a non finire mai.

Dimenticate i ridicoli sbrilluccichi di Twilight, i combattimenti di Blade e persino la raffinata e riuscita decadenza gotica di Dracula di Bram Stoker e Intervista col Vampiro: Solo gli amanti sopravvivono è una rivisitazione del tutto originale del mito del vampiro, visto non più come individuo tormentato dalla propria condizione, ma come unico essere in grado di apprezzare la bellezza del mondo e delle creazioni umane. La vita eterna dona prospettiva e capacità di focalizzarsi sulle cose importanti, come arte, letteratura e scienza, anzichè fare come gli umani, gli "zombie" come li chiama Adam, incapaci di ricordare il proprio passato e di apprezzare il bello intorno a loro, intrappolati in una vita grigia, buia e senza futuro.

Jarmush usa il mito del vampiro per fare critica sociale, calando i due protagonisti in due città decadenti e crepuscolari, la Detroit martoriata dalla crisi di Adam e la Tangeri corrotta, soffocante e immobile di Eve. I due vampiri diventano così allo stesso tempo i primi e gli ultimi esponenti di una nuova specie, moderni Adamo ed Eva che si muovono sull'orlo di una società in rovina, cercando di venirne toccati il meno possibile. Il pessimismo cosmico di Jarmush si estende a tutte le specie, con la sorella di Eve (un'ottima Mia Wasikowska) a rappresentare il lato deviato dei vampiri, un edonismo che smette di essere contemplazione e amore per le cose belle per diventare lussuria senza freni.

Il mondo in cui si muovono i protagonisti è immobile, intrappolato in un eterno ritorno, un cerchio in cui tutto è punto di inizio e punto di fine, e solo chi sa amare, amare davvero la vita sopravvive. Il Romanticismo che pervade l'opera di Jarmush è al tempo stesso la sua forza e il suo limite, dato che dona al film l'atmosfera decadente e intellettuale che lo rende unico, ma è anche la causa della lentezza del ritmo e della narrazione. Per quanto la staticità della messa in scena sia senza dubbio una scelta voluta, la lentezza finirebbe per azzoppare il film se non fosse per lo straordinario lavoro di caratterizzazione dei personaggi. Adam ed Eve hanno una profondità psicologica e una ricchezza di dettaglio senza precedenti nei film di genere, e sono sorretti dalle due sublimi interpretazioni di Tom Hiddleston e Tilda Swinton.
Questo, insieme a una fotografia sontuosa e a una colonna sonora notturna e avvolgente, rappresenta il vero punto di forza del film, il soffio vitale che dona un'anima alla creatura di Jarmush ed evita che rimanga solo una superficiale speculazione intellettuale.

Solo gli amanti sopravvivono è un film d'autore con la "a" maiuscola, intriso della poetica e delle riflessioni che caratterizzano i film del regista statunitense. Il tocco delicato con cui ci accompagna nell'infinita notte delle esistenze di Adam ed Eve è unico e inconfondibile, e crea un armonico contrasto con la durezza delle immagini delle città e dell'umanità in rovina, rispecchiando il contrasto insito nella figura del vampiro tra morte del corpo e vitalità dell'anima.

**** 1/2

Pier

domenica 13 aprile 2014

Grand Budapest Hotel

Quando la favola sconfigge la decadenza



Monsieur Gustave è il concierge del Grand Budapest Hotel, un hotel di lusso in mezzo all'Europa. E' il migliore nel suo lavoro, che esegue con grande perizia e attenzione, e gode per questo della stima e della fiducia dei suoi facoltosi ospiti, soprattutto di quelli anziani e di sesso femminile. Quando una di esse, Madame D., passa a miglior vita in circostanze misteriose, egli eredita un prezioso dipinto, scatenando le ire della famiglia della facoltosa nobildonna. Successivamente accusato di omicidio, Monsieur Gustave si imbarcherà in una rocambolesca fuga per dimostrare la sua innocenza accompagnato dal suo fedele lobby boy Zero, mentre l'ombra del conflitto mondiale si allunga sull'Europa.

Sono pochi i registi che riescono ad avere uno stile immediatamente riconoscibile senza risultare ripetitivi e sempre uguali a se stessi. L'esercizio richiede abilità, inventiva, ma soprattutto la capacità di cambiare sempre generi e stilemi narrativi, applicando la propria estetica di volta in volta a tematiche e ambientazioni differenti. Wes Anderson è uno di questi registi, un maestro di stile ed estetica, senza eguali nella sua capacità di narrare visivamente una storia, utilizzando le immagini come strumento narrativo ed espressivo. Le immagini dei suoi film non svolgono mai una funzione meramente estetica, ma raccontano storie, personaggi e situazioni, con una forza e una capacità evocativa impareggiate nel cinema contemporaneo. Grand Budapest Hotel porta l'impronta di Wes Anderson in ogni elemento della scenografia, dei costumi, in ogni inquadratura o scelta musicale, applicandola però a un genere nuovo per il regista statunitense, una favola dalle forti connotazioni comiche e, a volte, grottesche.

L'arte del narrare è al centro del racconto, con ogni storia che viene raccontata dal protagonista di un'altra, in un gioco di scatole cinesi che esalta il contenuto emotivo e affettivo della storia, in un omaggio esplicito ed implicito ai libri di Stefan Zweig e al cinema di Lubitsch e Billy Wilder. Wes Anderson mette in scena una favola che dipinge l'eleganza e la classe degli hotel di una volta, dove tutto è perfetto e nulla è fuori posto, metafora di un'Europa splendente ma destinata per via della guerra a diventare una fatiscente rovina, memoria di un tempo glorioso che non sembra destinato a tornare. La storia di Monsieur Gustave e del suo delizioso lobby boy è quella di un lento disfacimento, in cui il razzismo e confini arbitrari diventano legacci cui sembra impossibile sfuggire. La libertà, tuttavia, è a portata di mano per chi ha spirito d'iniziativa e fantasia: i nostri eroi sperimenteranno rocambolesche fughe di prigione, amori romantici e contrastati, e continui tentativi di omicidio, alleati nella loro missione da alleanze di concierge quasi onnipotenti, amanti intraprendenti e una notevole faccia tosta, il tutto spruzzato di quel tanto di profumo necessario a fare buona figura in società.

Il film ha un gran ritmo e regala momenti di esilarante comicità verbale e visiva, sorretta da scenografia e fotografie superbe. A queste si accompagna un cast stellare, in cui spiccano lo strepitoso Ralph Fiennes, personificazione dello stile e del nobile contegno, il villain vampiresco di Adrien Brody, e l'esordiente Tony Revolori, la cui comicità a metà tra Buster Keaton e Charlie Chaplin lo rende un personaggio comico e drammatico al tempo stesso, che finisce per rappresentare tutti i popoli perseguitati della storia d'Europa.

Grand Budapest Hotel è un film delizioso, in cui il talento visivo di Wes Anderson racconta una storia che, in apparenza banale, rivela via via la sua profondità e i suoi diversi significati, offrendo tanti spunti interpretativi quanti sono i suoi piani narrativi, in un rocambolesco gioco di incastri e di rimandi che estasia gli occhi e alleggerisce il cuore.

****1/2

Pier

domenica 6 aprile 2014

Captain America - The Winter Soldier


Una spy story in salsa super



Dopo gli eventi narrati in The Avengers, Capitan America ha continuato a collaborare con lo S.H.I.E.L.D., l'agenzia segreta governativa guidata dal sempre più paranoico Nick Fury, per contrastare i piani di gruppi terroristici e criminali. Una di queste operazioni, tuttavia, rivela la possibile presenza di una falla di sicurezza nell'agenzia. Fury viene attaccato e ferito gravemente prima che possa compiere ulteriori indagini. Si reca così da Capitan America, rivelandogli i suoi sospetti ed affidandogli la chiavetta USB che contiene i dati sensibili di una delle più importanti operazioni militari sotto il controllo dello S.H.I.E.L.D. Quando la situazione precipiterà, Capitan America sarà costretto ad affrontare vecchi nemici e fantasmi, oltre che a capire chi è davvero dalla sua parte e chi invece sta facendo il doppio gioco.

Il secondo capitolo di Capitan America mantiene i pregi del primo - maggior realismo e rigore nella trama e nella messa in scena - unendoli però a una maggiore spettacolarità e a una trama più intrigante ed avvincente. Il film sembra più una spy story che un film di supereroi, una sorta di James Bond movie con Cap nella parte di 007. Il risultato è un film adrenalinico, senza un attimo di pausa nè un calo di tensione, alimentato da un circolo virtuoso in cui la storia cresce attraverso lo sviluppo dei personaggi, e viceversa. La Marvel realizza così un film "serio", privo di quelle derive comico-infantili ben rappresentate da Leo Ortolani che avevano invece gravato Iron Man 3. Capitan America acquista inoltre uno spessore del tutto nuovo, passando dall'essere un eroe monodimensionale, dedito al bene e ai "valori americani", all'essere un personaggio complesso e tormentato, il cui senso del dovere viene messo a dura prova dai continui tradimenti e colpi di scena che si trova ad affrontare.

La metamorfosi è soprattutto merito della sceneggiatura, dato che Chris Evans, pur non sfigurando, non brilla certo per espressività ed introspezione. In generale, tutti i personaggi sono scritti ottimamente, con la Vedova Nera che regala alcune freddure di spirito tipicamente russo, e Nick Fury, il cui ruolo sembra cucito dal sarto per Samuel L. Jackson, che con la sua freddezza e la sua paranoia è il vero motore dell'azione. Al loro fianco vengono introdotti con la giusta attenzione altri personaggi, la cui vera identità viene rivelata a film in corso, generando un piacevole effetto sorpresa per fan dei fumetti e non.

Captain America - The Winter Soldier è un film solido e con ritmo, in grado di mantenere alta la tensione e di regalare continui colpi di scena. Le scene d'azione sono altamente spettacolari, così come  richiede il genere, e sono accompagnate da un approfondimento dei personaggi di alto livello e da una trama eccellente, che si ricollega al primo capitolo in modo efficace ma non ripetitivo, risultando così uno dei migliori film targati Marvel.

****

Pier

venerdì 14 marzo 2014

Saving Mr. Banks


Una favola moderna



Los Angeles, inizio anni '40. Walt Disney promette a sua figlia che realizzerà un film tratto da Mary Poppins, il personaggio ideato dalla scrittrice Pamela Lyndon Travers. Vent'anni dopo, Disney non è ancora riuscito a mantenere la promessa per via dell'ostinato rifiuto della scrittrice di cedergli i diritti. Determinato a girare il film, Disney invita la scrittrice a Los Angeles, per farla partecipare in prima persona alla stesura della sceneggiatura, concedendole anche un controllo artistico pressochè totale. Miss Travers, spinta dal suo agente e dalle ristrettezze economica, accetta l'invito, ma il suo atteggiamento ostile verso le produzioni disneyane e la ferocia dimostrata nel difendere l'integrità del suo lavoro renderanno la collaborazione con Disney una vera impresa.

Tratto dalla storia vera del rapporto tra Travers e Disney, Saving Mr. Banks pone però l'accento su un altro tipo di relazione, quella tra padre e figli. Da un lato abbiamo Walt Disney, determinato a mantenere la promessa fatta alla figlia; dall'altra abbiamo Pamela Travers, per cui la storia di Mary Poppins non rappresenta solo una creazione artistica, ma un ricordo agrodolce della propria infanzia e, in particolare, dell'adorato padre. Attraverso una continua alternanza tra presente e passato scopriamo a poco a poco la genesi di Mary Poppins, raccontata attraverso gli occhi di Pamela bambina, che passa dal vedere il padre come un cavaliere in sella al suo bianco destriero a comprenderne l'umana debolezza, accentuata da un lavoro che detesta e da una fantasia tanto splendida e prolifica da rendere insopportabile l'aridità del mondo reale.

Il film procede sui toni di un classico Disney, dosando sapientemente risate e commozione, senza però scivolare in scene da lacrima facile o eccessi di retorica. L'equilibrio è garantito sia da una sceneggiatura ben curata e scorrevole, sia dalle splendide interpretazioni dei due protagonisti. Tom Hanks interpreta Disney senza eccedere in gigioneria, trasmettendo la naturale simpatia del personaggio ma riuscendo al tempo stesso a farne intuire la natura autoritaria e poco aperta al compromesso. A brillare però è l'interpretazione di Emma Thompson, scandalosamente ignorata nelle nomination degli Oscar, che unisce un'irresistibile verve comica tipicamente british alla capacità di emozionare con un solo sguardo, un silenzio, una parola non detta. Accanto a loro troviamo un Paul Giamatti solo apparentemente banale, ma in grado di regalare un momento davvero toccante per dignità e assenza di autocommiserazione, e un Colin Farrell , le cui sopracciglie perennemente tristi si adattano perfettamente a un personaggio alcolista e sognatore.

Saving Mr. Banks è un film realizzato con sapienza, che non brilla per originalità ma per la forza della trama e dei personaggi, e per la capacità di regalare allo spettatore quello che promette: sorrisi, lacrime, e una favola senza tempo.

****

Pier

lunedì 3 marzo 2014

Oscar 2014: Il Bilancio


Prima di cominciare, penso di meritarmi una bella auto-pacca sulla spalla: 8 previsioni azzeccate su 11 (qui e qui trovate i pronostici), e in due casi su tre (miglior attrice e miglior montaggio) quando ho sbagliato il pronostico ha vinto il mio preferito. Sono curioso ora di vedere Her di Spike Jonze, premiato per la miglior sceneggiatura originale: non avendolo visto non lo avevo inserito in lista, ma sono contento per Jonze.


Finito l'autocompiacimento, parliamo dei temi centrali della serata. Ovviamente la notizia principale per noi Italiani è che, 16 anni dopo Roberto Benigni, un altro regista del nostro paese ottiene la statuetta per il miglior film straniero: si tratta di Paolo Sorrentino, che con La grande bellezza ha saputo conquistare pubblico e critica d'oltreoceano. Inspiegabilmente maltrattato da alcuni qui in Italia, il film è uno splendido ancorché imperfetto apologo della nostalgia come difesa dalle brutture del quotidiano, come ricordo di un passato felice che ora sembra irrimediabilmente perduto nella mediocrità della vita. Sorrentino ottiene un premio meritato, nonostante The Hunt fosse una validissima alternativa.

Come previsto, ahimè, Leonardo Di Caprio non riesce ad aggiudicarsi l'Oscar nemmeno quest'anno, sconfitto da un Matthew McConaughey oggettivamente strepitoso. Meritatissimo anche l'Oscar per Cate Blanchett, l'attrice migliore della sua generazione, che ottiene finalmente la statuetta da protagonista dopo quella da non protagonista vinta per The Aviator.



Tra i film trionfa  Gravity, che si aggiudica miglior regia, fotografia, montaggio, colonna sonora e tre Oscar tecnici, premiando l'eccezionale e rivoluzionario lavoro fatto da Cuaròn e dalla sua troupe. 12 anni schiavo ottiene tre statuette, tra cui quella più ambita del miglior film, forte di una tematica che è ancora in grado di scuotere le coscienze negli USA. Delusione per  The Wolf of Wall Street, che non si aggiudica alcun premio, e per Nebraska, anche se le aspettative del secondo erano certamente inferiori.

Nell'animazione, da segnalare il trionfo di  Frozen, premiato anche con la miglior canzone come nella miglior tradizione Disney, e l'assenza della Pixar, la seconda in tre anni. Questo tema merita un post dedicato, vista la complessità delle ragioni di questo declino.

Al prossimo anno con gli Oscar, e a tra poco per nuovi articoli e recensioni.

Pier

domenica 2 marzo 2014

Oscar 2014: I Pronostici - Parte Seconda

La seconda parte dei pronostici sugli Oscar in programma questa notte.


Miglior attrice non protagonista
Diciamoci la verità: quest'anno il livello di questa sezione è abbastanza basso. Nessuna performance memorabile, salvo forse quella di June Squibb (Nebraska), perfetta per come unisce cinismo e dolcezza. La favorita è sicuramente Lupita Nyong'o per 12 Anni Schiavo, in cui presta la voce e soprattutto il corpo a una schiava che riesce a mantenere la sua dignità nonostante le umiliazioni. Detto della Squibb, la mia interpretazione preferita è probabilmente quella di Julia Roberts in August: Osage County, anche se Jennifer Lawrence ha offerto una prova comica di altissimo livello in American Hustle.
Pronostico: Lupita Nyong'o
Scelta personale: June Squibb

Miglior attore non protagonista
Vero, Michael Fassbender è intenso e ferino nella parte del crudele schiavista di 12 anni schiavo; e Jonah Hill è esilarante e dissacrante nella sua prova in The Wolf of Wall Street. Tuttavia, la sfida per questo Oscar sembra già decisa in favore di Jared Leto: raramente si è vista una prova di tale misura e intensità in un ruolo che rischiava fortemente di diventare macchiettistico. La sua interpretazione del travestito Rayon in Dallas Buyers Club è di quelle che lasciano il segno, e la scena del dialogo con il padre è forse il momento più commovente e vero visto al cinema quest'anno.

Pronostico: Jared Leto
Scelta personale: Jared Leto



Miglior attrice protagonista
Faccio una premessa: Meryl Streep dovrebbe vincere l'Oscar a ogni nomination. Anche in August: Osage County la sua interpretazione è da manuale di recitazione. Tuttavia, quest'anno la concorrenza è molto agguerrita, e Meryl non gode nè del favore del pronostico (ormai è abituata, avendo il più alto numero di nomination ma non quello di Oscar vinti) nè della mia preferenza. La favorita sembra essere Amy Adams per American Hustle, che ha persino ricevuto l'endorsement della diva Meryl. Tuttavia, la mia preferenza personale cade su Cate Blanchett, semplicemente perfetta in Blue Jasmine, in cui offre forse la miglior prova della sua già eccezionale carriera. Appena dietro di lei si piazza la Judi Dench di Philomena, misurata e intensa come solo le grandi attrici teatrali inglesi sanno essere.
Pronostico: Amy Adams
Scelta personale: Cate Blanchett

Miglior attore protagonista
Ecco, qui mi scende un po' la lacrimuccia, perchè chiunque abbia visto The Wolf of Wall Street sa che mai come quest'anno Leonardo di Caprio meriterebbe l'Oscar. La sua performance è semplicemente stellare, un mix di registri così disparati che sembra impossibile che un unico attore riesca a restituirli efficacemente. E, dato che parliamo dell'attore più bistrattato dall'Academy negli ultimi quindici anni, la sua vittoria dovrebbe essere scontata, giusto? Sbagliato. Perchè quest'anno il pronostico è tutto a favore di Matthew McConaughey, la cui prova in Dallas Buyers Club ha già stregato sia i giurati del Golden Globe che quelli dello Screen Actors Guild Awards.Chiariamoci, McConaughey è bravissimo e si stramerita la vittoria, anche per come è riuscito a rilanciarsi come attore impegnato. La domanda però a questo punto diventa: se non vince nemmeno quest'anno, quando potrà vincere il povero Leo?
Pronostico: Matthew McConaughey
Scelta personale: Leonardo Di Caprio

"Per favore, almeno quest'anno..."

Miglior regia
Se all'Academy ragionassero cum grano salis, la vittoria in questa sezione non dovrebbe nemmeno essere quotata. Alfonso Cuaròn in Gravity ha semplicemente rivoluzionato il modo di fare cinema, di fantascienza e non solo. Raramente un regista è riuscito a fondere in modo così perfetto i vari elementi di un film, creando un'opera magniloquente e un'esperienza indimenticabile per lo spettatore. Leggo invece che il favorito dovrebbe essere David O. Russell per American Hustle, ma voglio credere all'intelligenza dell'Academy, per una volta, quindi dico Cuaròn anche per il pronostico.
Pronostico: Alfonso Cuaròn
Scelta personale: Alfonso Cuaròn

Miglior film

Eccoci finalmente alla categoria più attesa. La competizione è molto alta, ma il favorito sembra essere 12 Anni Schiavo, che ha incantato pubblico e critica d'oltreoceano. Per quanto riguarda la mia scelta personale, devo dire che sono rimasto indeciso fino all'ultimo tra la critica sociale e il comico cinismo di The Wolf of Wall Street e l'intensità emotiva e interpretativa di Dallas Buyers Club. Alla fine ho scelto il secondo, ma la differenza è veramente minima.
Pronostico: 12 Anni Schiavo
Scelta personale: Dallas Buyers Club

Direi che è tutto! Buoni Oscar, e spendete anche voi una lacrimuccia per Leo quando per l'ennesima volta non salirà quegli scalini.

Pier