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sabato 21 giugno 2025

La Trama Fenicia

Uscire dal capitalismo



A livello superficiale, il cinema di Wes Anderson è conosciuto e riconoscibile per l'aspetto visivo: palette di colori curate al dettaglio, inquadrature simmetriche, scenografie teatrali da casa di bambole (qui il nostro approfondimento sul tema). Tuttavia, Wes Anderson è anche molto altro: è, nella prima fase della carriera, un magnifico creatore di personaggi nevrotici ma vivi, veri, e di cui è quasi impossibile non innamorarsi a prima vista (una dote riconosciutagli, fin dagli esordi, nientemeno che da Martin Scorsese). 

Con il tempo, tuttavia, il suo cinema è diventato sempre più politico, con un forte sostrato di anticapitalismo. Si potrebbe dire che questa tematica è sempre stata presente, vista la sua tendenza a raccontare sognatori che si ribellano a un sistema che pensa solo a numeri, regole e risultati (si pensi a Rushmore o a Le avventure acquatiche di Steve Zissou), però era un tema sotterraneo, strisciante, che passava in secondo piano rispetto alle critiche delle convenzioni borghesi e al suo raccontare solitudini che si incontrano e, almeno per un attimo, trovano un po' di conforto nella compagnia l'uno dell'altro. 

Da Fantastic Mr. Fox il tema emerge con maggiore evidenza, ma è con Grand Budapest Hotel che Anderson passa da una fase del suo cinema all'altra: il film finora più premiato di Anderson rappresenta il punto di passaggio dal primo al secondo Anderson, e ne unisce e sublima ambedue le istanze. Nel secondo Anderson, i personaggi diventano sempre meno persone e sempre più maschere della commedia dell'arte, la cui funzione è far emergere e risaltare una satira sociale ed economica che, nascondendosi dietro un'apparenza patinata, colpisce con la violenza del morso di un cobra. Se il primo Anderson usava la perfezione formale degli ambienti come contrasto all'imperfezione interiore dei suoi protagonisti, il secondo Anderson la sfrutta per sottolineare l'assurdità della realtà, in un impeto beckettiano che mette in luce le storture del sistema economico dominante. Dalla marginalizzazione (L'isola dei cani) alla sete di denaro sfrenata (Grand Budapest), passando per il rapporto tra capitalismo e distruzione dell'ambiente (Mr. Fox), per la morte del giornalismo e la disgregazione del tessuto sociale. (The French Dispatch): il secondo Anderson non risparmia alcun aspetto del sistema socioeconomico in cui viviamo. Dietro la perfezione formale e l'opulenza visiva, si nascondono mostri.

La trama fenicia sublima tutti questi tutti temi nella figura del suo protagonista, Zsa-zsa Korda, un magnate senza scrupoli dotato di una magnifica ironia e capacità di ignorare le atrocità commesse. Korda è il capitalismo (anzi: l'anarcocapitalismo) incarnato: affascinante, seducente senza morale, disinteressato alla propria reputazione e interessato solo alla perpetuazione della propria ricchezza, al punto da mettere a repentaglio la sua stessa sopravvivenza. La violenza, inflitta e subita, è parte intrinseca della sua vita, esattamente come lo è del capitalismo contemporaneo. 


Fin qui sembrerebbe un classico film da "secondo Anderson", ma il regista/sceneggiatore sceglie di ribaltare il tavolo, e tornare a raccontare una storia famigliare: il primo Anderson incontra il secondo, e Zsa-zsa intuisce che qualcosa nel suo stile di vita non funziona, e cerca confusamente di recuperare il rapporto con la figlia Liesl. Inizialmente lei non vuole saperne, ma accetta di seguirlo. E Zsa-zsa, fino a quel momento del tutto impervio al cambiamento (qui Wes Anderson parla proprio di questo tema), inizia a vedere che un'altra vita è possibile.

Così, lentamente ma inesorabilmente, le maschere tornano a essere persone, e nel film fa irruzione il sentimento, con Zsa-zsa che, pur portando avanti le sue macchinazioni finanziarie, mette sempre di più al centro il rapporto con Liesl. Nel finale, fuggiti dalla prigione d'oro del capitalismo, troviamo dei personaggi pienamente da "primo Anderson": strani, buffi, disadattati, ma con il coraggio di seguire le proprie passioni, dall'entomologia alla cucina. Il castello di carte del capitalismo cade, e con esso la perfezione formale: l'ultima scena è asimettrica, caotica, senza una palette di colori pastello: è il mondo reale, in cui Zsa-zsa si trova finalmente a vivere, molto meno ricco ma anche molto più felice.

Il cast è, come sempre, sublime, guidato da un Benicio del Toro stropicciato ma immarcescibile, che offre bombe a mano come fossero caramelle e attraversa la vita con stoico cinismo, fino a quando Liesl (un'ottima Mia Threapleton dal fierissimo cipiglio) non fa breccia nel suo cuore. Attorno a loro, un Michael Cera entomologo con segreti, Tom Hanks e Bryan Cranston improbabili appassionati di pallacanestro, un Cumberbatch che incarna tutti gli stereotipi del villain shakespeariano con stralunata e divertita crudeltà, e Bill Murray che è, semplicemente, Dio.

La trama fenicia è un film divertente e avventuroso, che dietro la patina dell'intrattenimento nasconde però una satira feroce di un sistema economico che è talmente radicato nelle nostre vite che, come Zsa-zsa, pensiamo che sia l'unico sistema possibile. Al tempo stesso è un film profondamente emotivo, in cui la soluzione alla crisi di un sistema che tutto divora è il recupero dei rapporti umani e la capacità di rinunciare al guadagno a tutti i costi per rimettere al centro le passioni e la comunità. Non tutto riesce secondo intenzione (alcune scene sono meno emozionanti di quanto potrebbero essere), ma nel complesso funziona e riesce a toccare mente e (soprattutto sul finale) cuore.

****

Pier

sabato 2 settembre 2023

Telegrammi da Venezia 2023 - #2

Secondo telegramma da Venezia, tra donne resuscitate, coloni testardi, pessime ricostruzioni storiche, cinepanettoni inaspettati, e gangster crepuscolari.


Bastarden (Concorso), voto 8. Un uomo caparbio, un territorio dimenticato da Dio e apparentemente sterile, un signorotto locale tanto privilegiato quanto crudele, due servi in fuga: questi gli ingredienti del film di Nikolaj Arcel, girato splendidamente in luce naturale, scelta che regala alcuni immagini mozzafiato della natura matrigna contro cui si battono i protagonisti. Ottima prova, come sempre, del protagonista Mads Mikkelsen, soldato caparbio prigioniero dei suoi principi e della sua ambizione.

The Wonderful Story of Henry Sugar (Fuori Concorso), voto 7. Un bel divertissement in forma di mediometraggio, tratto da un'opera di Roald Dahl. Wes Anderson realizza un film delizioso che parla del potere redentivo delle storie e del racconto, e lo condisce con il suo impeccabile gusto per la messa in scena, sempre più esplicitamente teatrale.

Poor Things (Concorso), voto 9.5. Lanthimos racconta una donna che ri-scopre da zero le convizioni sociali, il suo ruolo nel mondo, e il sesso, in un mix tra horror, commedia (si ride tantissimo) e fantastico che unisce idealmente la poetica del primo Lanthimos (The Lobster, Alps, Il Sacrificio del Cervo Sacro) con La Favorita. Sceneggiatura da manuale, che miscela alla perfezione risate e riflessione, il tutto immerso in un'estetica che strizza l'occhio a Tim Burton e Wes Anderson, ma rielaborati in modo originale, creativo, vivo. Prova superba di Emma Stone nel ruolo di una novella Frankenstein che cerca, anzi, si prende un'emancipazione sociale e sessuale. Un film travolgente, impeccabile, imperdibile.

Adagio (Concorso), voto 7. Tre anziani gangster (il trio Servillo-Mastandrea-Favino) ormai in pensione, un carabiniere non di specchiata onestà, figli da mantenere e figli che si mettono nei guai. Sollima firma un gangster movie all'amatriciana dolente e crepuscolare, che parla di redenzione, espiazione, ed eredità morale. Il film è teso come una corda di violino, senza un minuto di troppo, con protagonisti da tragedia greca, inseguiti da un fato inesorabile mentre Roma, sullo sfondo, brucia. 

Finalmente l'alba (Concorso), voto 3.5 Un accrocco di cose già viste, ma fatte meglio, il nuovo film di Costanzo si distingue per inutilità e per il peccato mortale per eccellenza per un regista: non avere nulla da dire. Non basta a salvarlo (soprattutto a fronte dell'assurdo budget di 30 milioni) una buona fotografia.

The Palace (Fuori Concorso), voto 3. Quella che poteva (e, probabilmente, voleva) essere una satira sociale sui super-ricchi, leggera e incisiva, finisce per essere poco di più di un cinepanettone. Inaccettabile da un regista della caratura di Polanski. Qui la recensione completa scritta per Nonsolocinema.

Pier

martedì 9 novembre 2021

The French Dispatch

Qui, lì, in nessun luogo


Alla morte di Arthur Howitzer Jr., fondatore di The French Dispatch, il supplemento domenicale del quotidiano "The Evening Sun" di Liberty (Kansas), la redazione si riunisce per ricordarlo. Scopre che Howitzer ha deciso che, alla sua morte, il periodico, con sede nell'immaginaria cittadina francese di Ennui-sur-Blasé, dovrà chiudere. La redazione si prepara dunque a stampare l'ultimo numero, fatto di tre storie molto diverse, eppure rappresentative della fervida vita sociale e culturale del paese che lo ospita.

Con The French Dispatch, Anderson si cimenta con nuovi linguaggi (il bianco e nero), soluzione espressive (i cambi scena visibili), generi (il poliziesco/cinema d'azione): pur mantenendo il suo inconfondibile sguardo, è un film diverso, sperimentale, che prova a cercare nuovi modi di raccontare le sue storie fatte. 
Il risultato non è convincente come quello di altri registi "usciti dal seminato" - anche a causa della struttura a episodi, che detrae un po' dal coinvolgimento emotivo che solitamente è la forza dei film di Anderson - ma è comunque estremamente affascinante: è sempre una gioia vedere un regista affermato che prova nuove strade, cercando di reinventarsi senza rinunciare a essere se stesso.

La sperimentazione è visibile già nella struttura a episodi e nel tema: The French Dispatch è un'ode al giornalismo narrativo e, più in generale, all'arte del racconto, al coraggio necessario per avere uno sguardo forte, distintivo e per raccontare il mondo per come lo vediamo, senza compromessi. È anche il film più "politico" di Anderson: il conflitto generazionale, da sempre presente nei suoi film, si fa protesta di piazza, il razzismo e l'omofobia fanno capolino in modo delicato ma di impatto, e la polizia compie a favore di camera azioni che richiamano all'omertà che circonda i pestaggi fuori e dentro le carceri, spesso impuniti. 

La prima volta di Anderson con il bianco e nero convince, ed è splendida nella sua semplicità e pulizia: in alcune scene i bianchi e neri che sfumano con eleganza l'uno nell'altro, la luce soffusa di un ricordo nostalgico; in altre sono più netti, definiti, quasi espressionisti nel loro delineare luci e ombre. Le periodiche e impreviste incursioni di colore (splendida quella che vede protagonista Saoirse Ronan) hanno una qualità onirica, e contribuiscono a trasportare la vicenda in un altrove che è un "qui" diverso per ciascuno spettatore.

La prova del cast è, come sempre, sontuosa: spiccano Chalamet e Del Toro, divertiti e sornioni, e soprattutto un dolente Jeffrey Wright, cuore pulsante del terzo atto che torreggia su tutti gli altri per peculiarità del personaggio (un giornalista culinario che vuole intervistare il più famoso chef di "cucina poliziesca") e portata emotiva del suo passato.

The French Dispatch può apparire superficiale a causa di un estetismo a limiti del perfezionismo e di un sapore per la messa in scena teatrale, a volte in maniera esplicita. Tuttavia, sotto l'abito buono ed elegante si intuisce un cuore pulsante fatto di personaggi bizzarri ma vivi, reali: un gruppo di adorabili asimmetrici costretti a esibirsi su un palco simmetrico, tondi in un mondo quadrato, perennemente alla ricerca di un qualcosa che, come nella vita, finisce spesso per non arrivare. Ma, sembra dirci Anderson, è nell'attesa, nella continua aspirazione che si realizza l'essere umano: un messaggio vecchio di secoli, ma che sembra sempre più vero nella società odierna.

È un film con una grande amarezza di fondo, un senso di non-finito, di interruzione improvvisa e indesiderata, un profumo di sogni non realizzati che accompagna tutte le storie e la vicenda dell'editore e del suo giornale. The French Dispatch è, in questo senso, un perfetto ritratto della nostra epoca, soprattutto per i giovani e le minoranze: un tempo di eterna attesa, di riconoscimenti cercati, inseguiti, ma mai raggiunti, un eterno presente in cui il passato è un macigno lasciatoci da altri e il futuro ha, forse, smesso di esistere.

*** 1/2

Pier

domenica 7 giugno 2020

Nuovo Cinema Paravirus - Speciale "Giappone"

Puntata speciale di Nuovo Cinema Paravirus, che vi accompagna in un viaggio cinematografico in vari paesi del mondo.

Il paese di oggi è il Giappone.


I tre film segnalati sono:

1) Lost in translation. Inspiegabilmente non disponibile in streaming, il film di Sofia Coppola racconta il Giappone con occhi occidentali, cogliendone però appieno lo spirito, la tensione tra passato e presente e l'alienazione della modernità. La solitudine dei protagonisti diviene quella di un popolo, in un incontro tra Oriente e Occidente che ne evidenza le differenze ma, soprattutto, le similarità esistenziali.

2) Black rain - Pioggia sporca (disponibile a noleggio su vari servizi). Uno dei film più sottovalutati di Ridley Scott, un teso thriller poliziesco che sfrutta le atmosfere di Osaka per creare un neo-noir quasi futuristico, in cui il bene e il male sono quasi indistinguibili.

3) L'isola dei cani (disponibile  a noleggio su vari servizi). Una favola moderna, uno dei film più dolci eppur più profondi di Wes Anderson, che trasporta lo spettatore in un mondo fantastico, in cui i cani parlano e il mondo sembra un palco teatrale, eppure reale, con personaggi ed emozioni autentici, vivi, vibranti, che toccano il cuore dello spettatore e lo trascinano con sé. Qui la recensione completa.

Tenete gli occhi aperti per il prossimo speciale di Nuovo Cinema Paravirus. Coming soon!

Pier

giovedì 7 maggio 2020

Nuovo Cinema Paravirus - Puntata 55

Nuova puntata di Nuovo Cinema Paravirus, la rubrica che vi suggerisce film da vedere in quarantena.


Oggi puntata "pazza", con consigli dal pubblico senza un genere predefinito.

I film segnalati sono:

1) Point break (disponibile su Now TV, Sky, Timvision, e Infinity). Un film d'azione adrenalinico dal sapore filosofico, in cui la scelta di una vita estrema, sull'orlo della legalità diviene l'unico modo per sentirsi davvero vivi. Qui la recensione completa.

2) Sharknado (disponibile su Netflix). Un cult assoluto, un concentrato di adrenalina e follia con una premessa semplice quanto geniale: cosa succederebbe a unire un disaster movie con un film sugli squali?

3) Fantastic Mr. Fox (disponibile su Prime Video). Da un racconto di Roald Dahl, un film in stop motion capace di combinare diversi stili e registri, passando con disinvoltura da una comicità sofisticata, quasi da commedia anni '30, a gag degne delle migliori comiche di Charlie Chaplin. Qui la recensione completa.

A domani per la cinquantaseiesima puntata!

Pier


sabato 11 aprile 2020

Nuovo Cinema Paravirus - Puntata 29

Nuova puntata di Nuovo Cinema Paravirus, la rubrica che vi suggerisce film da vedere in quarantena.



Il genere di oggi è il "coming of age".

I film segnalati sono:

1) I 400 colpi (disponibile su Chili). Un classico indimenticabile, che consacrò Truffaut come voce nuova del cinema europeo e che ancora oggi rimane modello spesso citato ma mai superato, con una regia e un'inquadratura finale che hanno fatto la storia.

2) Moonrise Kingdom (disponibile a noleggio su vari servizi). Wes Anderson (qui il nostro speciale su di lui) racconta con la solita perfezione visiva e con un affetto che traspare da ogni inquadratura l'avventura di due giovani Don Chisciotte che cercano di fuggire da un mondo che li esclude e li spaventa. Un film che arriva dritto al cuore. Qui la recensione completa.

3) Spider-Man: Un nuovo universo (disponibile su Netflix). Un film visivamente abbacinante, che porta l'animazione in territori mai esplorati, dimostrando una creatività che da tempo non si vedeva nel genere. La trama non è da meno, sfrutta un tropos della fantascienza (gli universi paralleli) per raccontare una storia di formazione solo all'apparenza classica ma in realtà dotata di una dimensione corale, in cui personaggi diversissimi devono fare i conti con la perdita dei propri punti di riferimento e con l'accettazione di una nuova identità. Qui la recensione completa.

A domani per la trentesima puntata!

Pier


sabato 23 febbraio 2019

Oscar 2019 - I pronostici

Domani sera, come ogni anno, gli occhi del mondo cinematografico si sposteranno sul Dolby Theatre di Los Angeles per la cerimonia di premiazione della novantunesima edizione degli Academy Awards. 

Un'edizione che segna ancora una volta il trionfo assoluto della Mostra Cinematografica di Venezia, presente con ben 39 nomination tra concorso e fuori concorso (alcune - quelle del film First Reformed - addirittura risalenti a due edizioni fa), contro le 13 di Cannes, e che verrà ricordata per essere la prima dopo molti anni senza presentatore a causa del forfait di Kevin Hart, vittima dell'ennesima caccia alle streghe a causa di tweet scritti ennemila anni fa e per cui si era già scusato.

Come ogni anno, Filmora vi propone i suoi pronostici, accompagnati come sempre con le scelte personali del sottoscritto, che inspiegabilmente l'Academy si ostina a ignorare.

Pronti? Iniziamo!


Miglior montaggio
Categoria senza un chiaro favorito, con tutti i contendenti che potrebbero dire la loro. I favoriti sembrano essere Hank Corwin per Vice - L'uomo nell'ombra e John Ottman per Bohemian Rhapsody, con Yorgos Mavropsaridis (La Favorita) possibile sorpresa. Alla fine penso vincerà Corwin, cui va anche la mia preferenza personale: Vice non sarebbe il film che è senza il suo eccezionale montaggio, vero e proprio regolatore del ritmo narrativo.

Pronostico: Hank Corwin, Vice
Scelta personale: Hank Corwin, Vice

Miglior fotografia
Qui il chiarissimo favorito è Alfonso Cuaròn, e con ragione: il bianco e nero di ROMA è splendido e abbacinante, qualcosa che non si vedeva dai tempi di Toro Scatenato. In caso l'Academy volesse evitare di dare tutti i premi a Cuaròn, una possibile sorpresa potrebbe essere Łukasz Żal, direttore della fotografia di quel Cold War che ha incantato il festival di Cannes, guadagnandosi un po' a sorpresa anche una nomination per la miglior regia.
La mia preferenza però ricade sulla sontuosa fotografia de La Favorita, in cui Robbie Ryan ha ripreso la lezione di Stankley Kubrick in Barry Lyndon e la ha rielaborata con originalità, creando un ambiente straniante e allucinato che diventa il perfetto teatro degli intrighi e delle follie di corte.

Pronostico: Alfonso Cuaròn, ROMA
Scelta personale: Robbie Ryan, La Favorita

Miglior film d'animazione
Anni di egemonia Disney/Pixar sembrano giunti alla fine: nonostante l'indubbia qualità di film come Ralph rompe Internet e Gli Incredibili 2, impossibile quest'anno non premiare Spider-Man: Un Nuovo Universo, il più innovativo film d'animazione dai tempi di Ratatouille. Il mio cuore è diviso tra lo splendore visivo di Spider-Man e la dolcezza de L'isola dei cani, ennesima perla nella filmografia di Wes Anderson, ma alla fine scelgo anche io Spider-Man.
Pronostico: Spider-Man: Un Nuovo Universo
Scelta personale: Spider-Man: Un Nuovo Universo

Miglior attore non protagonista
Anche quest'anno, la redazione di Film Ora premierebbe Sam Rockwell, che compare solo per pochi minuti in Vice, ma riesce comunque a lasciare il segno con il suo splendido George W. Bush, un irresistibile utile idiota, talmente cialtrone da farlo risultare simpatico anche al suo più aspro detrattore. Tuttavia, siamo certi che l'Academy premierà la prova di Mahershala Alì in Green Book, sia per il solito politically correct (che il film in questione evita magistralmente), sia per l'oggettiva bontà  della prova di Alì, uno degli attori migliori in circolazione a costruire un personaggio sui silenzi. Richard E. Grant (Copia Originale) è il possibile outsider.
PronosticoMahershala Alì, Green Book
Scelta personale: Sam Rockwell, Vice

Miglior attrice non protagonista
La chiara protagonista sembra essere Regina King per Se la strada potesse parlare, mediocre opera terza (toh, che sorpresa) del regista di Moonlight : la King si è finora aggiudicata tutti i premi e sarebbe davvero sorprendente se dovesse sfuggirle la statuetta. La mia scelta personale, non riuscendo a scegliere tra Rachel Weisz ed Emma Stone ne La Favorita, ricade sulla Marina de Tavira di ROMA, splendida commistione di forza e fragilità imprigionata nell'ipocrisia di una vita borghese.
Pronostico: Regina King, Se la strada potesse parlare
Scelta personale: Marina de Tavira, ROMA

Miglior sceneggiatura originale
Scontro molto aperto in questa categoria, con Vice, La Favorita, e Green Book che potrebbero aggiudicarsi la statuetta. Penso che alla fine la spunterà Green Book, su cui ricade anche la mia scelta personale.
Pronostico: Green Book
Scelta personale: Green Book

Miglior sceneggiatura non originale
Un uomo solo al comando, e il suo nome è Spike Lee: BlacKkKlansman si è finora aggiudicato tutti i premi, e sembra lanciato anche agli Oscar, dove Lee non ha mai vinto. Appena dietro troviamo La ballata di Buster Scruggs, geniale pastiche in salsa western dei fratelli Coen, a parere di chi scrive tra i migliori sceneggiatori di Hollywood: a loro va la mia preferenza personale.
Pronostico: BlacKkKlansman
Scelta personale: La ballata di Buster Scruggs

Miglior attore protagonista
Lotta a due tra Rami Malek (Bohemian Rhapsody) e Christian Bale (Vice) per la statuetta per la migliore interpretazione maschile. Due prove simili (ambedue interpretano un personaggio reale), eppur diversissime: laddove Malek è quasi trascendente nel riportare in vita Freddie Mercury, Bale incarna alla perfezione la banalità e anonimità del male di Cheney. Il favorito sembra essere Malek, anche per dare un riconoscimento alla sua determinazione nel portare a termine un film (non eccezionale) che sembrava maledetto. La mia scelta personale sarebbe un ex aequo, ma dovendo scegliere vado su Bale.
Pronostico: Rami Malek, Bohemian Rhapsody
Scelta personale: Christian Bale, Vice

Miglior attrice protagonista
Una competizione che vede due grandi attrici un po' "attempate" contendersi la statuetta: da una parte Glenn Close, più volte nominata ma che ha sempre mancato il premio; dall'altra Olivia Colman, veterana di cinema e TV britannici, e straripante mattatrice nella parte della regina Anna in La Favorita. Da amante del cinema, non posso né voglio credere ai rumors che vedrebbero Lady Gaga come possibile sorpresa, dato che la sua prova attoriale in A Star is Born, più che agli Oscar, meriterebbe un premio alla sagra del tonno di Stintino. Non avendo purtroppo ancora visto il film che vede protagonista Glenn Close, sia il mio pronostico che la mia preferenza personale vanno alla bravissima e adorabile Olivia Colman.
Pronostico: Olivia ColmanLa Favorita
Scelta personale: Olivia ColmanLa Favorita

Miglior regia
Il favorito in questa categoria è chiaramente Alfonso Cuaròn, che con ROMA ha raccolto il plauso della critica e di gran parte del pubblico. Nonostante non lo abbia amato quanto  altri, la regia è oggettivamente sontuosa nella sua capacità di unire i vari elementi , magnifico bianco e nero  in testa, e creare una madeleine filmica pervasa di nostaglia. La mia scelta personale, tuttavia, ricade sullo splendido lavoro fatto da Yorgos Lanthimos ne La Favorita.
Pronostico: Alfonso Cuaròn, ROMA
Scelta personale: Yorgos Lanthimos, La Favorita

Miglior film
La battaglia per il miglior film è quantomai accesa: da una parte i film realmente meritevoli, come ROMA e La Favorita; dall'altra, quelli spinti per ragioni politico-sociali, come Black Panther, o quelli spinti dal sonno della ragione, come A Star is Born. Nel mezzo, la possibile sorpresa di Green Book: non sarebbe la prima volta che, in un anno senza un chiaro dominatore, l'Academy decidesse di premiare un film più "banale" dal punto di vista cinematografico, ma meritevole da quello narrativo. Alla fine, tuttavia, penso che si imporrà ROMA, finora trionfatore in tutti gli altri premi maggiori. La mia scelta personale, ormai si sarà capito, ricade su La Favorita.
Pronostico: ROMA
Scelta personale: La Favorita

A dopo la cerimonia per il bilancio!

Pier

mercoledì 16 maggio 2018

L’isola dei cani

Una favola per i nostri tempi



Giappone, 2037. A causa di un'influenza canina, i cani continuano a morire. Con il pretesto di voler salvaguardare la salute pubblica, il sindaco di Megasaki City, Kobayashi, esilia tutti i cani in una isola-discarica chiamata trash island. Il figilio adottivo del sindaco, Atari, decide però di partire per l'isola per ritrovare il suo amato cane da guardia, Spots. Ad aiutarlo troverà un improbabile gruppo di ex cani domestici, ormai rassegnatisi al randagismo ma non per questo disposti ad abbandonare il ragazzino.

A livello di trama, Wes Anderson ci ha abituato a un cinema che racconta i problemi normali di persone straordinarie (o l'opposto): un cinema fatto di personaggi, ma anche delle trappole che la vita tende loro, con una particolare attenzione per come le convenzioni sociali spesso si trasformino in una gabbia più o meno dorata. Anche in Fantastic Mr Fox, la sua prima avventura nella terra dell'animazione in stop motion, Anderson aveva mantenuto queste sue caratteristiche, scegliendo una storia di Dahl che gli permettesse di raccontare i problemi di una famiglia e una comunità disfunzionali. A livello musicale, Anderson ci aveva abituato a colonne sonore ricercate, fatte di musiche pre-esistenti scelte con certosina attenzione per sottolineare

Con L'Isola dei cani, Anderson cambia radicalmente registro, senza però perdere il tocco che lo rende uno dei registi più amati e originali del panorama cinematografico contemporaneo. Fin dalle prime battute, L'isola dei cani si presenta infatti come una favola moderna, raccontata con musiche originali evocative, quasi tribali (ottimamente composte da Alexandre Desplat) che proiettano fin da subito il film in una dimensione irreale e atemporale. Anderson ambienta la storia in un Giappone stereotipato e fuori dal tempo, sfondo ideale per una favola, ma lo infarcisce di dettagli autentici, vivi e vibranti, che fanno sì che la favola non resti una piatta allegoria ma si faccia storia. L'isola dove vengono esiliati i cani è infatti un capolavoro di design, un paesaggio post apocalittico degno di Mad Max, così come il quartier generale del malvagio Kobayashi, ispirato dichiaratamente all'estetica e alla retorica nazista ma al tempo stesso fedele a quelle nipponiche.

Nonostante questi elementi "fantastici", il film rimane sempre profondamente reale, commuovendo e appassionando lo spettatore. L'elemento l'elemento didascalico rimane sullo sfondo, visibile ma mai sbattuto in faccia, e si faccia quindi strada lentamente nella mente dello spettatore, in modo sottile ma non per questo meno efficace.
Il racconto del rapporto tra un ragazzo e il suo cane diventa un pretesto per parlare del rapporto tra uomo e cane in generale, che a sua volta diventa un pretesto per raccontare cosa succede quando si rompe il patto sociale e si comincia a classificare gli esseri viventi sulla base della razza anziché della loro capacità di sentimento e raziocinio. Una favola complessa, dunque, con molteplici livelli di lettura, che parla del passato ma guardando al presente sia canino (i campi di concentramento per cani giapponesi) che umano.

In questi scenari quasi teatrali (e spesso ripresi come tali da Anderson, che mai come questa volta fa uso di lunghe carrellate per raccontare l'odissea dei protagonisti) si muovono dei personaggi tipicamente andersoniani, per quanto in forma animale: gli splendidi cani protagonisti sono nevrotici, con un passato complesso fatto di rifiuto e abbandono, e al tempo stesso sono generosi, quasi folli nella loro bontà, ed estremamente divertenti nelle loro nevrosi e fissazioni. La loro costruzione certosina, sia a livello di personalità che di aspetto, ci rivela la vera cifra tematica del cinema di Wes Anderson: non la simmetria, suo cavallo di battaglia visivo, ma l'amore per i suoi personaggi, qui addirittura esplicitato nel titolo del film (Isle of dogs, il titolo originale, si legge in modo identico alla frase "I love dogs"). L'arte cinematografica di Wes Anderson risiede nella sua capacità unica di costruire personaggi indimenticabili e vicini al cuore dello spettatore, una capacità che gli viene riconosciuta fin dagli esordi (nientemeno che da Martin Scorsese) e che il regista texano ha via via affinato film dopo film, raccontando storie all'apparenza semplici, ma sempre in grado di parlare al cuore dello spettatore.

Chi giudica il film di Wes Anderson fermandosi alla bellezza delle immagini - anche qui stordenti nella loro perfezione - non coglie appieno la grandezza del suo cinema, che è prima di tutto un cinema fatto di emozioni, che nasce nel teatro (da cui deriva il suo gusto per la messa in scena) ma lo permea di quel realismo di cui solo la macchina da presa è capace. Persino in una favola con dei cani come protagonisti, Anderson riesce a emozionare, realizzando uno dei suoi film più dolci eppur più profondi, e trasportandoci in un mondo in cui i combattimenti si risolvono in una nuvola di zanne e pelo e facendocelo accettare come vivo e vero: un mondo che parla di noi, come spettatori e come uomini.
Lasciate che Wes Anderson vi prenda per mano (possibilmente in lingua originale, visto il cast vocale): non ve ne pentirete.

**** 1/2

Pier

domenica 10 luglio 2016

L'occhio del regista #1 - Wes Anderson

Inauguriamo oggi una nuova rubrica dedicata alle caratteristiche stilistiche dei registi.
La rubrica non si propone di essere un'analisi esaustiva dello stile di ciascuno, ma semplicemente di evidenziare alcune peculiarità (tre, per la precisione) del regista in oggetto.

Cominciamo con Wes Anderson, probabilmente il regista con la più forte impronta visiva tra quelli dell'ultima generazione statunitense.


Tutti questi elementi concorrono a formare un effetto straniante e armonico al senso stesso, funzionale a raccontare quella commedia umana che è uno dei temi centrali della poetica di Anderson. Anderson non racconta vicende, racconta l'umanità nel suo complesso, i suoi sentimenti, le sue relazioni, le sue nevrosi, piccole e grandi. L'uomo è solo un personaggio su un palcoscenico più grande di lui. I suoi personaggi sono tipi umani che si muovono all'interno di un quadro che non comprendono fino in fondo, su cui non hanno alcun controllo ma di cui sono parte integrante, sia a livello narrativo che visivo.

Questo non significa che i personaggi di Anderson siano finti o poco caratterizzati: semplicemente hanno una loro verità universale, "teatrale", indipendente dal luogo e dai fatti narrati. Non a caso, raramente il cinema andersoniano presenta un solo protagonista, ma preferisce affidarsi a un coro di personaggi che rappresentano l'umanità nel suo complesso.
L'unica eccezione è forse Rushmore, dove il protagonista presenta molti tratti di Anderson, a partire dalla sua concezione del rapporto tra teatro e cinema, che qui viene (ironicamente?) ribaltato.




1. Simmetria
Come evidenziato alla perfezione dal videomaker Kogonada, Wes Anderson ha una predilezione per la simmetria visiva, e fa un largo uso di inquadrature perfettamente centrate in verticale. Nonostante molti manuali di regia mettano in guardia contro la simmetria delle inquadrature, che rischia di dare al film un aspetto troppo teatrale, Anderson ha fatto della simmetria il suo marchio di fabbrica.

Di seguito alcuni esempi:

Grand Budapest Hotel

Moonrise Kingdom

E qui il video di Kogonada che ne racchiude molti altri.




2. Caratterizzazione cromatica delle scene
Un'altra caratteristica del cinema di Anderson è la caratterizzazione cromatica delle scene: ogni film è caratterizzato dall'uso di una precisa palette di colori, attorno alla quale vengono costruite le diverse scene.

L'uso di palette ben definite permette ad Anderson di dare un aspetto distintivo e unico non solo ai film, ma anche alle singole scene e ai personaggi, che divengono elementi decorativi tanto quanto la scenografia, enfatizzando ancora una volta la teatralità delle sue scene.
Qui, ad esempio, vediamo due esempi da due diversi film (I Tenenbaum e Fantastic Mr. Fox) in cui Anderson una palette sui toni del giallo e del marrone.



La stessa palette viene ripresa nella splendida scena d'apertura de Il treno per il Darjeeling, durante la folle corsa in Taxi di Bill Murray.


3. Centralità della musica
L'uso della musica è centrale per Wes Anderson come per pochi altri registi. Anderson scrive molte scene pensando alle musiche che le accompagneranno, e vede la musica come un personaggio a se stante, un elemento fondamentale per restituire l'atmosfera della scena, il carattere e l'umore dei personaggi. La musica è quasi un personaggio a se stante, che aumenta la portata emotiva e il messaggio di una scena, assumendo così un'importanza centrale tanto quella della simmetria e del colore (qui trovate un'interessante intervista al supervisore delle musiche di tutti i film di Anderson). Come a teatro, la musica diviene non puro accompagnamento musicale, ma mezzo espressivo per eccellenza, che rafforza l'immagine e ne viene rafforzato: non serve solo a creare un'atmosfera, ma è parte integrante della narrazione, un po' come accadeva per la musica di Ennio Morricone nei film di Sergio Leone.

Un esempio è la già citata scena di apertura de Il Treno per il Darjeeling, con This time tomorrow dei Kinks). Altri due esempi qui sotto, il primo da Moonrise Kingdom, il secondo da Le avventure acquatiche di Steve Zissou, dove le canzoni di David Bowie vengono tradotte in portoghese. In ambedue i casi, la musica è diegetica anziché extradiegeticaviene, cioè, eseguita in scena anziché essere di accompagnamento, diventando così parte integrante della trama.




Simmetria, colore, musica: queste le parole chiave per il cinema di Wes Anderson, fondamentali al fine di creare la cornice per le sue storie, il palcoscenico per il suoi personaggi pieni di nevrosi, fragili eppure poetici, assurdi eppure reali, perfetta rappresentazione del folle e continuo scorrere della vita.

Pier

lunedì 11 aprile 2016

Hitchcock/Truffaut

Imperdibile per chi ama il cinema



Nel 1962, François Truffaut, giovane regista sulla cresta dell'onda del successo artistico e professionale, decise di intervistare quello che, pur sottovalutato dalla critica, era a suo parere il miglior regista vivente: Alfred Hitchcock. Hitchcock accettò di sottoporsi a un'intervista della durata di otto giorni, durante il quale Truffaut lo interrogò su tutti i suoi film. Il risultato fu un libro che divenne il principale testo di riferimento per un'intera generazione di registi, che oggi in questo film raccontano, accompagnati dalle registrazioni originali dell'intervista, le scene dei film di Hitch che più hanno segnato il loro immaginario.

Può esserci qualcosa di meglio di una conversazione sul cinema e sulla professione di regista tra François Truffaut e Alfred Hitchcock? La risposta è sì, ed è il documentario di Kent Jones. Alle voci dei due grandi registi, infatti, Jones affianca quelle di Martin Scorsese, Richard Linklater, Wes Anderson e David Fincher, che commentano le scene dei film di Hitchcock, e allo stesso tempo spiegano l'importanza dell'intervista e del cinema hitchcockiano in generale all'interno dell'opera di Truffaut. Abbiamo così Scorsese che commenta le scene di apertura di Psycho e alcune scene di Vertigo insieme a James Gray e Linklater, affiancati dalla voce dello stesso Hitch.

Il film riesce nell'impresa di arricchire il libro cui si ispira, con l'unica pecca, imposta però dai limiti temporali del formato cinematografico, di non poter analizzare tutta l'opera hitchcockiana, ma solo alcuni dei suoi lavori più famosi.

Un film da non perdere per chi ama Hitchcock, per chi ama Truffaut, per chi ama il cinema.

*****

Pier

domenica 22 febbraio 2015

Oscar 2015 - I pronostici



Sul filo di lana, a poche ore dall'inizio della cerimonia, ecco i pronostici di Filmora per gli Academy Awards di stanotte. Visto il poco tempo, ci focalizzeremo solo sui premi principali.
Quest'anno pronostico difficile, vista l'altissima qualità di alcuni dei concorrenti.

Come sempre, oltre al pronostico, anche la mia scelta personale.



Miglior montaggio
Il vincitore non può che essere Tom Cross per Whiplash, un capolavoro di intensità e ritmo, con una continua alternanza di temi e controtemi, improvvisazioni e ripetizioni, come fosse una jam session jazz.
Pronostico: Whiplash
Scelta personale: Whiplash

Miglior fotografia
Una delle sezioni in cui la scelta è più dura: Ida, Birdman, Grand Budapest Hotel, tutti meriterebbero la statuetta. Robert Yeoman (Birdman) sembra favorito, ma la mia scelta personale va a Emmanuel Lubezki, autore delle splendide immagini di quel gioellino che è Grand Budapest Hotel.
Pronostico: Birdman
Scelta personale: Grand Budapest Hotel

Miglior film d'animazione
Sezione dove sono arrivate due nomination a sorpresa, per Song of the sea e The tale of princess Kaguya, e l'esclusione inaspettata di Lego Movie. I favoriti sembrano essere Big Hero 6 e How to train your dragon 2. Penso che alla fine la spunterà il primo, che riscuote anche il mio favore personale.
Pronostico: Big Hero 6 
Scelta personale: Big Hero 6

Miglior attore non protagonista
J.K. Simmons, who else? Mark Ruffalo è strepitoso in Foxcatcher, Norton incanta in Birdman, ma qui non può che vincere il dispotico insegnante di Whiplash.
Pronostico: J.K. Simmons 
Scelta personale: J.K. Simmons

Miglior attrice non protagonista
Patricia Arquette (Boyhood) è strafavorita, ma io non posso esimermi dal dare la mia preferenza all'eterna Meryl Streep (Into the Woods), che conquisterebbe così il suo quarto Oscar e pareggerebbe il conto con Katherine Hepburn.
Pronostico: Patricia Arquette 
Scelta personale: Meryl Streep

Miglior sceneggiatura originale
Il favorito sembra essere Birdman, che però proprio nella storia ha forse il punto meno forte. La mia scelta personale ricade quindi su Foxcatcher, un film che suscita emozioni continue proprio grazie alla perfezione della scrittura.
Pronostico: Birdman
Scelta personale: Foxcatcher

Miglior sceneggiatura non originale
Rimpiango di non aver visto Inherent Vice di Paul Thomas Anderson, che quindi non posso includere nei pronostici. Tra quelli che ho visto premierei Damien Chazelle per Whiplash, per l'abilità con cui ha trasformato una storia già vista mille volte in un film emozionante e avvincente. Rischia di vincere, anche per la sua natura di film indie.
Pronostico: Whiplash
Scelta personale: Whiplash

Miglior attore protagonista
Strafavorito Eddie Redmayne (La teoria del tutto), che ha vinto ogni premio possibile e, soprattutto, lo Screen Actors Guild Award: fino ad oggi, solo cinque volte è successo che il vincitore di questo premio non si aggiudicasse poi l'Oscar. Il mio preferito, dopo un lungo travaglio interiore, è invece Michael Keaton per Birdman, con Benedict Cumberbatch appena dietro per la sua interpretazione di Alan Turing in The imitation game.
Pronostico: Eddie Redmayne
Scelta personale: Michael Keaton

Miglior attrice protagonista
Strafavorita Julianne Moore che, nonostante non abbia visto Still Alice, si aggiudica anche la mia preferenza personale. Così, sulla fiducia.
Pronostico: Julianne Moore

Scelta personale: Julianne Moore


Miglior regia
Altra sezione dove la competizione è altissima: si potrebbe premiare l'unicità della scelta di Linklater in Boyhood, la visionarietà di Inarritu per Birdman, la perfezione di immagini, personaggi e dialoghi di Wes Anderson per Grand Budapest Hotel. Penso che il favorito sia Linklater, mentre Anderson si aggiudica la mia scelta personale, anche per risarcirlo dei tanti anni in cui è stato ingiustamente ingnorato.
Pronostico: Richard Linklater
Scelta personale: Wes Anderson

Miglior film
Altra scelta estremamente difficile. Per me il film migliore dell'anno è Birdman, e penso che, alla fine, anche l'Academy andrà in questa direzione, premiando la capacità di Inarritu di unire spettacolo e autorialità.
Pronostico: Birdman
Scelta personale: Birdman

"No suit? Loser."
E' tutto, ci risentiamo dopo la cerimonia per i bilanci. Di una cosa possiamo essere sicuri: it's gonna be legen... (wait for it).



Pier

domenica 13 aprile 2014

Grand Budapest Hotel

Quando la favola sconfigge la decadenza



Monsieur Gustave è il concierge del Grand Budapest Hotel, un hotel di lusso in mezzo all'Europa. E' il migliore nel suo lavoro, che esegue con grande perizia e attenzione, e gode per questo della stima e della fiducia dei suoi facoltosi ospiti, soprattutto di quelli anziani e di sesso femminile. Quando una di esse, Madame D., passa a miglior vita in circostanze misteriose, egli eredita un prezioso dipinto, scatenando le ire della famiglia della facoltosa nobildonna. Successivamente accusato di omicidio, Monsieur Gustave si imbarcherà in una rocambolesca fuga per dimostrare la sua innocenza accompagnato dal suo fedele lobby boy Zero, mentre l'ombra del conflitto mondiale si allunga sull'Europa.

Sono pochi i registi che riescono ad avere uno stile immediatamente riconoscibile senza risultare ripetitivi e sempre uguali a se stessi. L'esercizio richiede abilità, inventiva, ma soprattutto la capacità di cambiare sempre generi e stilemi narrativi, applicando la propria estetica di volta in volta a tematiche e ambientazioni differenti. Wes Anderson è uno di questi registi, un maestro di stile ed estetica, senza eguali nella sua capacità di narrare visivamente una storia, utilizzando le immagini come strumento narrativo ed espressivo. Le immagini dei suoi film non svolgono mai una funzione meramente estetica, ma raccontano storie, personaggi e situazioni, con una forza e una capacità evocativa impareggiate nel cinema contemporaneo. Grand Budapest Hotel porta l'impronta di Wes Anderson in ogni elemento della scenografia, dei costumi, in ogni inquadratura o scelta musicale, applicandola però a un genere nuovo per il regista statunitense, una favola dalle forti connotazioni comiche e, a volte, grottesche.

L'arte del narrare è al centro del racconto, con ogni storia che viene raccontata dal protagonista di un'altra, in un gioco di scatole cinesi che esalta il contenuto emotivo e affettivo della storia, in un omaggio esplicito ed implicito ai libri di Stefan Zweig e al cinema di Lubitsch e Billy Wilder. Wes Anderson mette in scena una favola che dipinge l'eleganza e la classe degli hotel di una volta, dove tutto è perfetto e nulla è fuori posto, metafora di un'Europa splendente ma destinata per via della guerra a diventare una fatiscente rovina, memoria di un tempo glorioso che non sembra destinato a tornare. La storia di Monsieur Gustave e del suo delizioso lobby boy è quella di un lento disfacimento, in cui il razzismo e confini arbitrari diventano legacci cui sembra impossibile sfuggire. La libertà, tuttavia, è a portata di mano per chi ha spirito d'iniziativa e fantasia: i nostri eroi sperimenteranno rocambolesche fughe di prigione, amori romantici e contrastati, e continui tentativi di omicidio, alleati nella loro missione da alleanze di concierge quasi onnipotenti, amanti intraprendenti e una notevole faccia tosta, il tutto spruzzato di quel tanto di profumo necessario a fare buona figura in società.

Il film ha un gran ritmo e regala momenti di esilarante comicità verbale e visiva, sorretta da scenografia e fotografie superbe. A queste si accompagna un cast stellare, in cui spiccano lo strepitoso Ralph Fiennes, personificazione dello stile e del nobile contegno, il villain vampiresco di Adrien Brody, e l'esordiente Tony Revolori, la cui comicità a metà tra Buster Keaton e Charlie Chaplin lo rende un personaggio comico e drammatico al tempo stesso, che finisce per rappresentare tutti i popoli perseguitati della storia d'Europa.

Grand Budapest Hotel è un film delizioso, in cui il talento visivo di Wes Anderson racconta una storia che, in apparenza banale, rivela via via la sua profondità e i suoi diversi significati, offrendo tanti spunti interpretativi quanti sono i suoi piani narrativi, in un rocambolesco gioco di incastri e di rimandi che estasia gli occhi e alleggerisce il cuore.

****1/2

Pier

mercoledì 5 dicembre 2012

Moonrise Kingdom

Amore e colore


New England, 1965. Suzy e Sam sono due adolescenti problematici che vivono su un'isola sperduta: lei, sensibile e amante della letteratura, è in perenne conflitto con i genitori; lui, intellettuale e intelligente, è orfano e sta per essere allontanato dalla famiglia cui era stato affidato. I due si conoscono a una recita, si innamorano e decidono di fuggire insieme. La loro fuga d'amore porterà conseguenze inaspettate nelle loro vite e in quelle di chi li circonda.

In Moonrise Kingdom Wes Anderson riprende i suoi classici temi, regalandoci un'altra galleria di meravigliosi nevrotici, adorabili sconclusionati, e splendidi disadattati. Questa volta però i protagonisti assoluti sono due ragazzini, disarmanti nella loro capacità di sovvertire quelle regole che ingabbiano gli altri personaggi e nell'innocenza con cui vivono appieno il loro amore, acerbo ma intenso. La loro risolutezza si contrappone all'eterna indecisione degli adulti, intrappolati in relazioni clandestine, matrimoni infelici, ruoli di capo scout troppo ingombranti, e nevrosi di ogni genere e tipo. Suzy e Sam diventano lo strumento usato da Anderson per portare scompiglio nell'ingessata isola del New England, grazie non solo alla loro fuga, ma anche al loro acume e alla propria determinazione nel cambiare il proprio destino. Il regista tratta i due protagonisti con un amore e affetto che traspaiono evidenti da ogni inquadratura, coinvolgendo lo spettatore nell'avventura di questi due giovani Don Chisciotte che cercano di fuggire da un mondo che li esclude e li spaventa.

Il film è fotografato con la consueta cura e perfezione, con tonalità luminose e colori pastello che esaltano il sapore di favola della trama e si sposano perfettamente con la visione del mondo dei due protagonisti e con la trama. Le inquadrature mostrano una varietà eccezionale, spaziando dal primissimo piano al campo lunghissimo anche nella stessa scena, in un uso della grammatica cinematografica che ha pochi eguali nel cinema contemporaneo.

Anderson dà il meglio di sè anche nella sceneggiatura, scritta a quattro mani con Roman Coppola, in cui sposa perfettamente ogni scena con la sua musica, il suo colore e le sue inquadrature, regalandoci un ritratto vivo e realistico della comunità che vive sull'isola. I personaggi sono perfettamente delineati, e interpretati da attori in stato di grazia, su cui spiccano la solita geniale indolenza di Bill Murray e lo straordinario "poliziotto qualunque" di Bruce Willis, seguiti a breve distanza dallo stralunato capo scout di Edward Norton e dalla fredda e indifferente assistente sociale interpretata da Tilda Swinton. Su tutti, tuttavia, brillano i due giovani protagonisti, la cui anarchica energia emerge anche nelle scene più statiche grazie alla forza della sceneggiatura e delle loro espressioni.

Tra scout impreparati, recite ornitologiche e panorami mozzafiato si arriva così al gran finale, in cui tutti, protagonisti inclusi, dovranno fare i conti con la realtà, che potrebbe però dimostrarsi diversa da come avevano immaginato.
Moonrise Kingdom è un piccolo capolavoro, che dimostra ancora una volta la maestria registica e di scrittura di Anderson, a parere di chi scrive uno dei più grandi registi contemporanei per la sua capacità di usare la macchina da presa e di saper raccontare le assurdità della vita con il sorriso e un inconfondibile tocco di poesia.

*****

Pier

lunedì 19 aprile 2010

Fantastic Mr. Fox

Volpi e nevrosi



Mr. Fox, un favoloso rubagalline, decide di ritirarsi dall'attività quando scopre che la moglie è incinta. Diventa così un rispettato giornalista ma, dopo tanti anni, si scopre insoddisfatto. Il bisogno di cacciare torna così prepotentemente alla carica, e Mr. Fox, accompagnato da un opossum svampito e da un nipote brillante quasi quanto lui, ricomincia a saccheggiare le fattorie dei vicini.
I proprietari però non restano a guardare, e scatenano contro Mr. Fox una rappresaglia che mette a rischio la sopravvivenza dell'intera comunità di animali selvatici.

Wes Anderson per il suo esordio nel mondo dell'animazione sceglie il soggetto che conosce meglio: la famiglia, più o meno allargata. I veri protagonisti del film non sono infatti gli animali, ma i loro tormenti e le loro nevrosi: Mr. Fox soffre di una crisi di mezza età; la moglie non riesce più a capire il marito; il figlio è più piccolo della media ed è goffo ed impacciato con le ragazze; il cugino, apparentemente sicuro di sè, mantiene la tranquillità solo grazie alle pratiche di meditazione zen del padre.
Le similitudini con i Tenenbaum sono forti, ma Anderson riesce a confezionare un film con un duplice piano di lettura: da una parte la storia di Dahl, che appassiona i bambini e diverte anche i grandi; dall'altro uno spaccato della famiglia e della comunità moderna e una critica nemmeno troppo velata al capitalismo e ai danni ambientali che esso produce.
L'elogio dello "stato di natura" farebbe felice Rousseau, e ha il suo culmine nella scena con il lupo, del tutto incapace di accettare le comodità della vita "domestica" in cambio della rinuncia alla libertà.

La tecnica di animazione scelta da Anderson è destinata a dividere: personalmente non posso non apprezzare gli splendidi pupazzi usati per gli animali, dotati di un'espressività che riesce a far dimenticare la rigidità di alcuni movimenti.
La regia regala momenti di pura genialità, soprattutto nelle sequenze di combattimento e di inseguimento. Tutti i personaggi sono azzeccati, ma una menzione particolare la merita l'opossum, vero e proprio intruso nella comunità di animali selvatici, privo com'è di qualunque abilità particolare, tanto da non possedere neppure un nome latino.
La storia scorre piacevolmente, anche se viene un po' rallentata dalla scelta di Anderson di articolarla in capitoli come i suoi precedenti lavori, scelta che a volte risulta artificiosa e ripetitiva.

Fantastic Mr. Fox è un film capace di combinare diversi stili e registri, passando con disinvoltura da una comicità sofisticata, quasi da commedia anni '30, a gag degne delle migliori comiche di Charlie Chaplin. Nonostante un'aria un po' "snob" è un film in grado di accontentare tutta la famiglia, con i piccoli che si appassioneranno al tenero opossum e gli adulti che si identificheranno nel desiderio di ribellione del genitore-padre Mr. Fox.

****

Pier