mercoledì 19 dicembre 2018

Spider-Man: Un Nuovo Universo

Quando le arti si incontrano



Miles Morales è un ragazzo newyorkese che è stato costretto dal padre a entrare in una scuola esclusiva, dove però si sente come un pesce fuor d'acqua. Miles si rifugia nello zio, che asseconda la sua passione per la street art, e grazie a lui scopre i sotterranei della metropolitana di New York e ne fa il teatro dei suoi esperimenti artistici. Durante una di queste escursioni, tuttavia, viene punto da un ragno radioattivo, acquisendo poteri sinistramente simili a quelli dell'eroe cittadino, Spider Man. Tornato a cercare il ragno, Miles assiste allo scontro tra il vero Spider Man e vari nemici, intenti a creare un varco dimensionale che rivelerà la presenza di molteplici incarnazioni dell'iconico eroe.

Dopo l'enorme rivoluzione portata dalla computer grafica, l'innovazione nel campo dell'animazione statunitense era finora stata soprattutto incrementale, tesa a migliorare la qualità delle immagini e di alcuni elementi (capelli, pelle, eccetera) che si erano inizialmente dimostrati ostici da rendere in modo realistico. Ogni film della Pixar prima, e delle altre case (Disney in testa) poi costituiva un ulteriore tassello nella direzione di un'animazione che bilanciasse alla perfezione realismo ed esigenze cartoonesche ed espressive. Un'eccezione era stata costituita da Ratatouille, con cui Brad Bird portò nel cinema di animazione tecniche come il piano sequenza e il flashback che fino a quel momento erano state appannaggio del cinema dal vivo.
La combinazione di tecniche diverse era stata finora relegata a cortometraggi  come lo splendido Paperman, che per primo aveva combinato tecnica 2D e computer grafica.

Spider-Man: Un nuovo universo riprende la lezione di Paperman, ma la porta alle estreme conseguenze, addentrandosi in territori del tutto inesplorati per realizzare un film che è senza ombra di dubbio l'opera più rivoluzionaria nel campo dell'animazione dai tempi di Ratatouille, e forse persino oltre. Guardando il film si ha infatti la sensazione di entrare all'interno di un fumetto, per parafrasare uno degli autori del film, quel Phil Lord che insieme a Christopher Miller è anche uno dei creatori di Lego Movie. Il disegno a mano è sovrapposto alle immagini in computer grafica, conferendo ai personaggi un'espressività eccezionale e alle ambientazioni quella vitalità che si trova sulla pagina stampata e viene spesso persa sullo schermo. I protagonisti sono immersi in ambienti che prendono vita insieme a loro, in cui pensieri e onomatopee compaiono visivamente sullo schermo, interagendo con lo spazio e con i personaggi. Il risultato è un'esperienza visiva unica, quasi indescrivibile, che fa sentire gli spettatori come se qualcuno stesse scorrendo le pagine di un fumetto di fronte a loro.

La vitalità espressiva permessa dal rivoluzionario stile di animazione adottato fa sì che le scene d'azione siano eccezionali, con un dinamismo e una varietà che si vedono raramente sullo schermo. I tre registi (Bob Persichetti, Peter Ramsey, e Rodney Rothman) sfruttano appieno l'enorme cassetta di strumenti a loro disposizione, giocando con diverse palette di colore, prospettive ribaltate, e con i linguaggi espressivi di entrambe le arti, fumetto e animazione, omaggiando le tecniche e i maestri dell'una (Jack Kirby in testa) e dell'altra (la resa del personaggio di Spider Ham è chiaramente debitrice dei Looney Toons, per esempio) e integrandone anche le diverse tradizioni. Il film è infatti una combinazione poliedrica di animazione disneyana tradizionale, anime, slapstick animation, fumetto classico e fumetto hard boiled à la Sin City, il tutto amalgamato in un insieme coerente e ben riuscito, in cui tutti gli ingredienti si bilanciano perfettamente.  Il ritmo è eccezionale, senza mai un calo né una sbavatura, e alcune immagini sono stordenti nella loro perfezione cromatica e compositiva.



La trama non è da meno, ed è in grado di sfruttare quello che è forse uno degli elementi meno riusciti del mondo Marvel (l'esistenza di ennemila universi paralleli) per raccontare una storia di formazione solo all'apparenza classica ma in realtà dotata di una dimensione corale per nulla scontata, in cui ogni versione di Spider Man deve fare i conti con la perdita dei propri punti di riferimento e con l'accettazione di una nuova realtà, di una nuova identità. L'essere trasportati in una nuova dimensione diviene così metafora della ricerca di sè, dando vita a una storia ricca di momenti emozionanti accanto a scene di indubbia comicità. Lord (autore di soggetto e sceneggiatura) sceglie di esplorare il tema del supereroe anche a livello metatestuale, attraverso un continuo raffronto tra realtà e fumetto, in cui gli archetipi del genere come la storia di formazione vengono messi alla berlina ma anche smantellati e ricomposti a creare qualcosa di nuovo.

Ad aiutarlo in questo senso c'è la backstory pre-esistente di Miles Morales, che anche nel fumetto non è lo Spider Man originale, ma è costretto a imparare a esserlo dal susseguirsi degli eventi. L'intuizione di Lord è di far incontrare/scontrare il percorso ascendente di Miles con quello discendente di Peter Parker, lo Spider Man classico, e di ricavare da questo incontro una nuova linfa vitale sia per i personaggi, sia per il film stesso. Le interazioni tra le varie incarnazioni di Spider Man sono bilanciate alla perfezione, e Lord sfrutta appieno il potenziale offertogli dalla possibilità di esplorare diverse identità in termini di sesso, epoca, ambientazione, e tecnica di animazione.

Spider-Man: Un nuovo universo è senza dubbio il miglior film d'animazione dell'anno, al punto che potrebbe mettere fine al decennale dominio Disney-Pixar agli Oscar, nonché uno dei più originali esperimenti visti al cinema nell'ultimo decennio. Uno sforzo creativo titanico, quasi folle, che dimostra però come la ricerca dell'originalità possa pagare dividendi altissimi quando è accompagnata da passione, visione, e un desiderio di spingersi oltre i propri limiti.
Il risultato è un film assolutamente imperdibile, una vera gioia per gli occhi che farà appassionare sia i fan del fumetto, sia chi ama quell'arte meravigliosa che è l'animazione cinematografica.

*****

Pier

venerdì 7 dicembre 2018

Bohemian Rhapsody

Somebody to Love



Nei sobborghi londinesi, un giovane Freddie Mercury convince Brian May e Roger Taylor, rispettivamente chitarrista e batterista, a ingaggiarlo come cantante per la loro band. Insieme al bassista John Deacon daranno vita ai Queen, diventando una delle band più celebri della storia del rock. Non tutto va liscio, però: il percorso di Freddie alla ricerca della sua identità genera tensioni nella band, portandola sull'orlo dello scioglimento.

Chi sono i Queen? Parliamo senza dubbio di una delle band più popolari di ogni epoca. Ma chi sono davvero? Il dibattito, tra gli esperti e tra i fan, è ancora aperto: alcuni li considerano dei poliedrici innovatori, capaci di reinventarsi di continuo come poche altre band nella storia; altri li ritengono più che altro dei grandissimi intrattenitori, capaci di coinvolgere il pubblico grazie all'orecchiabilità delle loro canzoni e all'irresistibile presenza scenica del cantante, Freddie Mercury, una delle voci migliori (la migliore, per chi scrive) della storia del rock e del pop.

Come raccontare una band e un cantante così complessi e sfaccettati, che sono stati uno, nessuno e centomila? La storia del cinema ci insegna che ci sono fondamentalmente due strade: da un lato si può scegliere di abbracciare questa complessità, realizzando un biopic che racconti le varie facce dei protagonisti senza pretendere di offrirne un ritratto chiaro, quanto un quadro cubista, in cui il soggetto viene presentato allo stesso tempo da varie angolazioni. Questa è la strada intrapresa, per esempio, da Todd Haynes con Io non sono qui (a parere di chi scrive uno dei film migliori degli ultimi 15 anni), in cui Bob Dylan viene raccontato attraverso vari personaggi che non portano nemmeno il suo nome; è anche la strada presa da Aaron Sorkin per raccontare Steve Jobs.


Parallelismi
La seconda alternativa è quella più classica, e forse più facile: scegliere un aspetto dei protagonisti e concentrarsi su quello, rinunciando alla diversità a favore della profondità. Questa è la strada scelta da Bohemian Rhapsody, così come da molti biopic precedenti (Ray, per esempio). Il film si concentra infatti sul percorso di ricerca della propria identità, sia della band che di Freddie, e di come questa abbia influenzato e sia stata influenzata dalle relazioni: tra i membri della band, tra Freddie e le persone a lui care, tra la band e il pubblico.
Bohemian Rhapsody è un film focalizzato sui personaggi, in cui le relazioni sono l’elemento centrale della trama, il primus movens di tutto ciò che vediamo sullo schermo. Questo intento diviene ancora più chiaro se si considerano le "licenze poetiche" che il film si prende rispetto agli eventi originali, finalizzate proprio a portare al centro della vicenda il rapporto tra i membri della band e, soprattutto, quello tra la band e il pubblico, uniti da un legame indissolubile: quello della musica. E la musica dei Queen è la vera protagonista del film, il suo cuore pulsante, l’energia invisibile che lo pervade ed eleva tutte le scene dall'anonimato, toccando le corde emotive dello spettatore come pochi altri film sono riusciti a fare negli ultimi anni.

Bohemian Rhapsody sceglie la strada facile, ma la percorre con una coerenza e una efficacia incredibili, soprattutto considerando l’enorme pressione sotto cui il film è stato realizzato, tra registi assenteisti, intoppi continui e dissensi artistici e produttivi: ingredienti, questi, che solitamente preludono a un disastro (vero, DC?) e che invece qui passano in secondo piano, formando un piatto familiare ma comunque estremamente gustoso.
Certo, rimane il rammarico di aver scelto di raccontare in maniera così semplice e convenzionale una band e un cantante che hanno fatto della non convenzionalità il loro stile di vita, prima ancora che il loro marchio di fabbrica. Un approccio alla Io non sono qui avrebbe probabilmente portato a un film più interessante, più artistico, più coraggioso: in sintesi, un film più “Queen”.
Tuttavia, sarebbe miope e anche un po’ snob negare che il film funziona, e raggiunge gli obiettivi che si prefigge. La connessione tra la band (Freddie in particolare) e il pubblico è palpabile, vibrante, viva, e raggiunge la sua apoteosi nei meravigliosi minuti dedicati all’esibizione del LiveAid: una scena oggettivamente memorabile, immortalata con precisione filologica ma anche con immensa perizia registica, con movimenti di macchina continui e fluidi che trasportano lo spettatore in mezzo al pubblico di Wembley, desiderando di unirsi a loro nel battere le mani a Radio GaGa o nell’inseguire gli incredibili gorgheggi di Freddie.


L’operazione riesce anche grazie alle incredibili prove dei protagonisti, non solo somigliantissimi agli originali (complimenti al casting), ma anche in grado di restituirne le personalità, idiosincrasie comprese. A brillare è ovviamente Rami Malek, qui alla prova della consacrazione. Il suo Freddie Mercury è vivo e vibrante, un mix ineguagliabile di fragilità, carisma, sensibilità, testardaggine, atto creativo e istinto di autodistruzione. Malek brilla in ogni situazione, da quelle più drammatiche (il momento in cui confessa alla band di essere malato) a quelle più flamboyant, come la sua prima performance con loro, o la registrazione di Bohemian Rhapsody. E penso che tutti potremo perdonarlo per il fatto di non aver cantato da solo (qui la spiegazione del singolare processo utilizzato), visto il mostro sacro che si trovava a dover emulare.

Bohemian Rhapsody non è un film che resterà nella storia del cinema, nonostante avesse il potenziale per farlo visto il tema narrato; tuttavia, è innegabile che il film arrivi dritto al cuore, con vari momenti in cui è davvero difficile non emozionarsi e addirittura commuoversi. Più che un film biografico è un tributo, fatto con immenso amore e affetto per un cantante che ci ha lasciato troppo presto e per una band che, con lui, ha lasciato un segno indelebile nella storia del rock e nel cuore del pubblico.

***

Pier