sabato 31 dicembre 2022

Avatar - La Via dell'Acqua

Now with more fish


Dopo la vittoria sugli invasori umani, i Na'vi hanno vissuto in pace. Jake Sully e Neytiri hanno messo su famiglia, tra figli loro e adottati. Tuttavia, gli umani non si sono dati per vinti, e tornano sul pianeta decisi a riprenderselo e a vendicarsi di Sully e di tutti i suoi cari.

Nel rileggere la recensione scritta dodici anni fa per il primo Avatar mi sono reso conto di una cosa, che riassume alla perfezione la reazione di fronte a questo seguito: avrei potuto copincollarla per scrivere l'articolo che state leggendo. Gli stessi difetti, gli stessi pregi, lo stesso coinvolgimento sensoriale (alto), lo stesso coinvolgimento emotivo (basso). Se non mi limito a fare, letteralmente, copincolla è perché questo secondo capitolo impone delle riflessioni, proprio alla luce della sua similitudine al primo.

Sono passati tredici anni dal primo Avatar, e il suo impatto sulla storia del cinema e sulla cultura condivisa è stato virtualmente nullo. Un'anomalia evidente, soprattutto considerando gli enormi incassi registrati. La ragione era semplice: il valore di Avatar stava nelle innovazioni tecnologiche, nell'aver reso sensato e integrato nel linguaggio espressivo uno strumento - il 3D - che fino a quel momento era sembrato un semplice divertissement o addirittura una scusa usata dalle case di produzione per spillare più soldi agli spettatori. Quello che mancava, invece, era la trama: già vista, poco coinvolgente, e copiata pari pari da Pocahontas e con un messaggio ambientalista efficace ma che puzzava di furberia.

Sorprende quindi che un narratore raffinato come Cameron, capace di realizzare storie in cui lo spettacolo visivo si sposava a un grande coinvolgimento emotivo (pensiamo a Terminator 2 e Titanic, giusto per citare due esempi), non abbia apportato alcun correttivo nell'approcciare questo sequel. Non basta, infatti, aggiungere una famiglia e il punto di vista di qualche adolescente per catturare maggiormente le emozioni degli spettatori: se la storia resta già vista, sempre con eco di Pocahontas cui si aggiungono Balla coi lupi L'ultimo samurai, e addirittura ricicla dei temi del primo film (l'addestramento, la scoperta di una nuova natura e di un nuovo rapporto con essa), è difficile se non impossibile che lo spettatore provi il benché minimo interesse per ciò che accade sullo schermo. L'unica novità è l'ambientazione, con il mondo acquatico a sostituire quello arboricolo, e pesci e cetacei a sostituire draghi volanti e alberi.

 
La sceneggiatura non è solo poco originale, ma anche sfilacciata, con una durata davvero eccessiva (oltre tre ore) non giustificata da ciò che accade sullo schermo. Anche l'espediente della voce narrante risulta forzato e retorico, e rallenta anziché velocizzare l'azione. Manca, inoltre, il cuore emotivo: se lo spettatore si ritrova a essere più coinvolto dalla sorte di un cetaceo che da quella di uno qualunque dei protagonisti forse qualcosa non ha funzionato. Il messaggio ambientalista, inoltre, è non solo abusato, ma pure vecchio e retrivo nella sua semplicità. Dire "natura bene, tecnologia male" può far dormire sonni tranquilli, ma non aggiunge nulla al dibattito in corso né offre una soluzione al problema: è solo luddismo di ritorno e ignora il potenziale che proprio la tecnologia giocherà nel cercare di risolvere la questione del cambiamento climatico.

Alla lunga, anche la tecnologia più sofisticata non basta a sopperire a carenze narrative di questa portata - soprattutto se, come in questo caso, Cameron sembra essersi fatto prendere decisamente la mano. Le immagini sono sempre bellissime, la tecnologia di motion capture subacquea è un capolavoro di tecnologia, ma lo stupore e la meraviglia sono inferiori che nel primo capitolo, per due motivi. Il primo è che sono passati dodici anni: se la tecnologia usata in Avatar era rivoluzionaria, quella de La via dell'acqua è solo marginalmente innovativa. Videogame, cinema e persino televisione hanno fatto passi da gigante in questi dodici anni, e non basta un'ambientazione sottomarina aliena per lasciare il pubblico a bocca aperta. 

Il secondo è che nel primo film parte della bellezza visiva risiedeva nell'interazione tra uomini e Na'vi, qui invece ridotta ai minimi termini: per tre quarti di film gli umani sono del tutto assenti, e si assiste quindi all'interazione tra personaggi digitali che interagiscono in un ambiente digitale. Si fatica, dunque, a cogliere la differenza tra questo film e un lavoro di animazione come quelli della Pixar (con la differenza che i secondi hanno ben chiaro il proprio cuore emotivo), portando quindi lo spettatore a chiedersi se valga la pena assistere a un lungo, abbacinante videogame.
Chi scrive riscontra anche un altro problema, ovvero l'artificiosità delle espressioni facciali dei Na'vi: ciò che funzionava nel 2009 oggi, semplicemente, non funziona più. Risulta incredibile che Gollum, prima creatura creata dalla WETA (la casa di effetti visivi che è dietro anche a questo film) in motion capture, risulti ancora più espressivo, vitale e realistico nonostante sia stato creato ormai 21 anni fa.

Solo difetti, dunque? No, perché Cameron sa girare le scene d'azione come pochi altri: la macchina da presa si muove fluida tra i personaggi, l'azione è sempre a fuoco, le esplosioni sono ben congegnate e soddisfano il bambino che è in tutti noi. Il film, dunque, risulta comunque godibile, per quanto a livello superficiale - uno spettacolo visivo (da vedere rigorosamente in 3D) che si dimentica il minuto dopo l'uscita dalla sala, ma che intrattiene per gran parte della sua durata.

Avatar - La via dell'acqua è, in sintesi, la versione "più grande" del suo predecessore, di cui amplifica tutti i difetti ma solo alcuni dei pregi. Forse a causa dell'abitudine, forse a causa dello scarso spessore narrativo ed emotivo, manca completamente quello stupore che opere come La compagnia dell'anello erano state in grado di creare, lasciando a bocca aperta lo spettatore e trasportandolo in un mondo che non pensava fosse possibile, al punto che all'uscita dalla sala si soffriva il ritorno alla realtà. La via dell'acqua intrattiene, ma nulla di più: e questo, per un film di tale portata e di tale budget, è un peccato mortale.

** 1/2

Pier 

giovedì 29 dicembre 2022

Glass Onion

Nomen omen


Benoit Blanc, celebre detective, riceve uno strano rompicapo, che si rivela essere un invito per un'esclusiva vacanza sull'isola greca di proprietà del multimiliardario tech Miles Bron. Insieme a lui ci sono gli storici amici di Bron, e la sua ex socia, cui Bron ha sottratto il controllo della società. La vacanza prevede una "cena con delitto", che gli ospiti dovrebbero risolvere. Ma Blanc si rende presto conto che il finto delitto rischia di non essere tale.

Non era semplice replicare il successo di Knives Out!: c'è una ragione per cui ancora oggi leggiamo Agatha Christie, ed è che costruire gialli avvincenti ed efficaci cambiando ogni volta i protagonisti (detective escluso) non è un'impresa da nulla. Il lettore non può essere attirato dall'affetto per i personaggi, e tutto quindi si regge sulla capacità di costruire un giallo efficace, in grado sia di intrattenere che di stupire: non troppo facile da risolvere, altrimenti dove sarebbe la suspence, ma nemmeno troppo difficile, altrimenti il lettore si sentirebbe ingannato. Questa difficoltà è ancora maggiore al cinema, sia per la maggiore tendenza alla serializzazione di situazioni e personaggi (soprattutto di questi tempi), sia per la necessità di spettacolarizzazione che spesso cozza con la metodica, logica lentezza del whodunit: non è un caso che le opere di Agatha Christie più spesso adattate per il cinema siano anche quelle più flamboyant per storia e soluzione.

A queste difficoltà "comuni" Rian Johnson aggiungeva anche quella della formula: Knives Out! funzionava anche grazie al suo approccio destrutturante al genere. I tropoi del whodunit venivano smontati, esposti al pubblico, e rimontati, in un gioco di scatole cinesi in cui sapevamo fin da subito il colpevole, ma anche stimolati a riflettere su come la percezione soggettiva non sia la realtà, e come ciò che è vero possa essere desunto solo mettendo insieme prospettive diverse - diverse percezioni soggettive. Era un gioco più simile a Rashomon che ad Agatha Christie - un gioco divertente, ma che mostra in fretta la corda se non eseguito in maniera impeccabile.

Johnson si dimostra un maestro della messa in scena, e riesce a ricreare la magia di quel gioco di specchi anche nel secondo film. Lo fa cambiando qualche ingrediente: il protagonista, ad esempio, qui è inequivocabilmente Benoit Blanc, che nel primo film giocava un ruolo sì centrale, ma secondario rispetto a quello del personaggio interpretato da Ana de Armas. Anche la location cambia - dalla classica magione con mille segretti a un'isola (un richiamo evidente a Dieci piccoli indiani, e non sarà l'unico) - ma soprattutto cambia la premessa: da un delitto "scoperto" a uno "preparato", un invito a cena con delitto in cui le tensioni sono palpabili e si aspetta solo il loro deflagrare. Johnson mescola sapientemente questi nuovi trucchi con alcuni già presenti nel film precedente: senza fare spoiler, anche qui la molteplicità di prospettive gioca un ruolo più che centrale nella soluzione dell'enigma. 

Johnson tesse la sua tela con pazienza, attirando lentamente lo spettatore nella sua rete di segreti e piccole e grandi meschinità, seminando falsi indizi, addirittura false trame, ma senza mai perdere di vista il suo obiettivo. Il suo film è una perfetta rappresentazione del suo titolo: una cipolla di vetro. All'apparenza, il mistero è invisibile, nascosto sotto i molteplici strati della cipolla, che vanno pelati uno a uno per arrivare alla soluzione. Quando, però, la soluzione arriva, ci si rende conto che la cipolla è sempre stata di vetro, e quindi trasparente. La risposta era lì, in bella vista davanti ai nostri occhi: sarebbe bastato guardare con più attenzione.
La sceneggiatura non si fa mancare nemmeno dei gustosi riferimenti all'attualità (esilarante il modo in cui gestisce la questione Covid) e stoccate al mondo degli ultravip dello spettacolo, dei social, e del tech - impossibile, in particolare, non riconoscere un mix di Zuckerberg ed Elon Musk nel personaggio di Edward Norton. La critica sociale, tema caro a Johnson (al punto che è riuscito a infilarla pure in Star Wars) è meno centrale che in Knives Out!, ma serpeggia nel film come un fiume carsico, riaffiorando in più occasioni.

Il cast collettivo è, ancora una volta, eccezionale: i nomi sono meno altisonanti di quelli del primo capitolo, ma tutti sono perfetti per il proprio ruolo, da un Dave Bautista sempre più a suo agio con le note comico a una Kate Hudson perfetta nel ruolo della svampita egoista, passando per la co-protagonista Janelle Monàe, perfetta antitesi di quella di Ana de Armas nel primo film. A brillare, però, è soprattutto il Benoit Blanc di Daniel Craig, uno dei personaggi originali più riusciti degli ultimi anni di cinematografia: brillante e goffo, carismatico e buffo, Blanc è un personaggio sfaccettato come le storie in cui si trova immerso, e Craig lo interpreta con travolgente energia e un pizzico di sana autoironia, in un ruolo che fa brillare le sue qualità attoriali molto più che quello di 007.

Glass Onion non è esente da difetti, da alcune coincidenze un po' eccessive a un colpevole forse un po' telefonato, anche se la sceneggiatura riesce a lasciare il dubbio praticamente fino all'ultimo; e la critica sociale, pur riuscita in molti punti, è meno efficace che in Knives Out!. Nel complesso, Johnson realizza un film forse leggermente meno brillante del predecessore (d'altronde alcuni elementi della formula sono giocoforza gli stessi) ma che intrattiene e diverte alla grande grazie a uno splendido protagonista e a una sceneggiatura a orologeria in termini di dialoghi e caratterizzazione. In un'epoca in cui le idee originali scarseggiano, Johnson si dimostra ancora una volta uno sceneggiatore e regista di straordinaria inventiva, in grado di realizzare prodotti in grado di piacere sia al pubblico che alla critica.

****

Pier

martedì 27 dicembre 2022

Il Grande Giorno

Chiedimi se sono infelice


Giovanni e Giacomo sono soci in un mobilificio di successo, co-fondato anni prima. Caterina ed Elio, i rispettivi figli, stanno per sposarsi, e Giovanni ha voluto fare le cose in grande, nonostante le veementi proteste del parsimonioso Giacomo. Valentina e Lietta, le due moglie, li sopportano con pazienza. A turbare il delicato equilibrio arrivano Margherita, prima moglie di Giovanni e madre di Caterina, e Aldo, il suo nuovo compagno, che con la sua esuberanza metterà a dura prova la pazienza dei genitori degli sposi, facendo riemergere tensioni finora sopite.

Dopo l'ottimo (e un po' inaspettato) ritorno di forma di Odio l'estate, Aldo, Giovanni e Giacomo, nuovamente coadiuvati alla regia da Massimo Venier, firmano quello che è forse il loro film più malinconico, dove l'amarezza prevale sulla dolcezza, e una lieve tristezza vela tutte le battute. Chiariamoci, le risate non mancano, ma vanno affievolendosi con il passare dei minuti, in quello che è a tutti gli effetti un film bipartito, con una cesura netta ed evidente quasi quanto quella di La La Land: una prima metà decisamente divertente, in cui i toni comici la fanno da padrone grazie soprattutto alle idiosincrasie del trio (i malanni di Giacomo, la pignoleria e le manie di grandezza di Giovanni, le travolgenti esuberanza e goffaggine di Aldo); una seconda metà introspettiva, riuscitissima per come scava nel passato dei protagonisti e nel loro presente, disseppellendo antichi rancori, svelandone di nuovi e ribaltando molte cose che pensavamo di sapere sui personaggi, e costringendoli a guardarsi allo specchio. 

Anche qui non mancano le risate (affidate soprattutto al personaggio di Don Ciccio, interpretato dall'ottimo caratterista Francesco Brandi), ma sono via via più ovattate, velate di una tristezza e una malinconia che preludono a una catartica e necessaria resa dei conti. In questo senso, Il giorno più bello è un ideale contraltare a Chiedimi se sono felice: ambedue uniscono commedia e malinconia, ma laddove il primo partiva dalla fine "triste" per poi riscoprire i felici inizi, questo parte con una nota "alta", per poi disvelare tutto ciò che si nasconde sotto il lusso e i lustrini. Se il primo è una storia di redenzione, di un nuovo inizio, questo è la storia di una fine: ma, come nota Don Ciccio, ogni fine, per quanto triste sia, può rappresentare un nuovo inizio. 

Nonostante alcune sottotrame non esattamente necessarie, il film mantiene un ottimo ritmo nonostante le sue molteplici anime, riuscendo ad amalgamarle in modo forse imperfetto, ma indubbiamente efficace. Venier, da regista consumato, sa che ciò che conta non è solo il ritmo narrativo e degli eventi, ma anche quello emotivo: per usare una metafora, il film più che una composizione di musica classica è un concerto jazz, in cui vari temi si alternano, si intersecano, si sovrappongono a creare un insieme disarmonico ma emotivamente armonioso, con un'anima unica e ben definita. A questo risultato contribuiscono degli strumentisti esperti e capaci: non solo il trio che, come in Odio l'estate, riprende dinamiche ormai consolidate ma ne esplora anche di nuove, ma anche il cast femminile. Antonella Attili, Elena Lietti, Lucia Mascino sono interpreti raffinate, che tratteggiano personaggi a tutto tondo non solo con le battute, ma anche (e soprattutto) con sguardi e silenzi: a brillare, a parere di chi scrive, è soprattutto la seconda, delicata ma decisa nel suo interpretare una "seconda scelta" che da anni vorrebbe essere qualcosa di più.

Il giorno più bello è un film delicato, garbato, accogliente: non colpisce con fuochi d'artificio (anche se ci sono), ma scivola lentamente sotto pelle, accompagnando lo spettatore nel mondo dei protagonisti e rendendolo partecipe dei loro sentimenti, delle loro evoluzioni. Non è tutto rose e fiori, ma rimane un film di cui si sentiva la mancanza, e che Aldo, Giovanni e Giacomo sembrano aver (re)imparato a offrire con insuperata maestria. 

*** 1/2

Pier

sabato 24 dicembre 2022

Saint Omer

Maternità e colpa


La storia di due donne si incrocia attraverso il mito di Medea: una regista, incinta, che vuole farne un film, e una donna accusata di aver ucciso il proprio figlio proprio come la maga della Colchide. Il processo farà incrociare queste tre storie - la regista, l'accusata, e la più celebre infanticida della storia - e farà emergere segreti spesso taciuti: segreti su di noi e la società odierna.

Un esordio folgorante nel cinema di finzione per Alice Diop, finora documentarista, che racconta una storia viscerale con uno sguardo asettico, analitico, giurisprudenziale, lasciando che le emozioni sgorghino dal volto dei protagonisti e dalle pieghe di una vicenda sfaccettata (realmente accaduta), che cambia profondamente a seconda delle prospettive. Lo sguardo non si solleva mai da chi parla, con lunghe inquadrature statiche a sottolineare ogni parola, ogni movimento del viso, ogni esitazione. I personaggi e ciò che dicono (e non dicono) sono al centro del film, ed è dalle loro diverse voci che (non) emerge la verità.Il processo, vero cuore del film, è infatti un caleidoscopio di interrogatori, testimonianze, requisitorie che ribaltano continuamente il punto di vista, ottenendo un effetto di relativizzazione della realtà degno di Rashomon. 

La colpevole è chiara fin dall'inizio, rea confessa, ma il processo porta in luce altro, un intricato intreccio di cultura, famiglia e società che, forse, condivide la colpa, se non ne è addirittura il solo responsabile. Il "vero" colpevole, come nella storia di Medea, forse è invisibile - o, forse, è quello che la vera colpevole, la "barbara", la straniera vorrebbe farci credere. Colpevole o carnefice? La domanda che aleggia su Medea (non a caso compaiono alcune sequenze del film che Pasolini dedicò all'eroina tragica, dove questo tema è assolutamente centrale) aleggia anche sulla protagonista e sul suo viso imperturbabile, sulla sua voce quasi monocorde che riesce comunque a veicolare emozioni profonde, stordenti nella loro forza e purezza.

Diop realizza un film autoriale ma al tempo stesso ipnotico, primordiale nel suo affrontare il femminile e i lati più oscuri e inconfessati della maternità, scoperchiando tematiche che la nostra società tende a seppellire - dalla solitudine di molte donne nell'affrontare questa delicatissima fase alla depressione post partum, passando per ciò che significa essere donna "barbara" in un'epoca che vorremmo più illuminata dell'antica Grecia, ma che spesso ne riproduce le strutture, inossidabili al passare del tempo. Attraverso il suo io narrativo, la regista co-protagonista della storia, Diop dà voce ai suoi dubbi, che le vengono sbattuti in faccia, costringendola ad affrontarli e a risolverli al cospetto di un fatto di cronaca all'apparenza brutale, ma che rivela il suo vero, mostruoso volto solo durante il processo: un volto fatto di solitudine, emarginazione, superstizione, in cui verità e menzogna sono quasi indistinguibili.

Saint Omer è un film in cui le emozioni scorrono potenti senza bisogno di artifici retorici e pelosi pietismi, che costringe lo spettatore a fare i conti con il volto del male senza poter distogliere lo sguardo, per poi fargli realizzare che il male è anche in noi.

**** 1/2

Pier

sabato 10 dicembre 2022

Chiara - Lo sconsiglio: puntata 19

Smarmella il canto gregoriano

Immaginate per un attimo che tutti i peggiori stereotipi sulla fiction italiana, quelli parodizzati da Boris, per intenderci, confluiscano in un unico film: la fotografia scadente, la recitazione affettata e inascoltabile, una vicenda agiografica di scarso interesse. 

Aggiungeteci un tocco di pretesa autorialità, con canti gregoriani piazzati a tradimento nella convinzione che elevino il livello artistico del film, e avrete Chiara, un film inspiegabile in generale e ancora di più considerando che viene dalla fin qui brava Susanna Nicchiarelli.

Una fiction di Rai1 con un budget un po' più elevato, che avrebbe intenti seriosi ma sceglie di far parlare i suoi personaggi come ne L'armata Brancaleone. Un Medioevo del tutto irreale, dove tutti sono puliti, pettinati, con i denti bianchissimi, non c'è fango, non c'è freddo, non c'è fame. Non è nemmeno un film brutto: peggio, è un film inutile. 

Livello di sconsiglio: Altissimo (*****)

The Menu

Mangiare il capitalismo


Tyler, ricco amante del buon cibo, invita Margot ad accompagnarlo a Hawthorn, un ristorante stellato su un'isola privata che muore dalla voglia di provare. Lo chef, Slowik, lo gestisce con piglio autoritario, mettendo in tavola un menu misterioso che varia a ogni pasto e vive tanto del cibo quanto delle storie che racconta. Margot è meno entusiasta di Tyler, ma inizialmente si adegua alle stranezze. Tuttavia, portata dopo portata, il clima diviene sempre più surreale, e Margot si rende conto che quel luogo non è forse così paradisiaco. 

Sembra strano usare l'aggettivo "marxista" per definire un film nel 2022: eppure è difficile pensare a una definizione più appropriata per The Menu, film che sfugge a una facile classificazione di genere ma che ha la sua cifra distintiva in un violento spirito anticapitalista. Il film è infatti una satira violenta della mercificazione di ogni cosa imposta dall'ideale neoliberista ormai dominante. L'alta cucina, uno dei settori simbolo dell'iniquità economica della nostra società, diviene quindi la metafora di un intero sistema: e il regista Mark Mylod, alla prima prova di livello dopo una carriera piuttosto anonima sul grande schermo (ma di maggior successo in TV, dove ha diretto, tra gli altri, svariati episodi di Succession), si diverte a vivisezionarlo, facendolo letteralmente a pezzi. 

La sua furia non risparmia nessuno: gli ultraricchi, certo, quell'1% della popolazione che ignora o, più spesso, decide di ignorare il proprio privilegio e dà per scontato che gli altri siano al proprio servizio; ma anche coloro che, da membri delle classi lavoratrici (il proletariato, per continuare l'uso di termini marxisti), scelgono di prostituire il loro lavoro al servizio dei peggiori appetiti - è proprio il caso di dirlo - del capitale. Mylod ha un messaggio chiaro in testa, e non si fa scrupolo di utilizzare la grammatica di diversi generi per farlo arrivare a destinazione. Qui sta l'originalità di The Menu, il suo tratto più distintivo: nella capacità di muoversi senza soluzione di continuità tra satira sociale, thriller, dramma, e persino horror, alternando risate e riflessioni con momenti di panico e tensione. 

Questi ingredienti sono mescolati in modo apparentemente casuale e non sempre si amalgamano alla perfezione, risultando in un ritmo diseguale nelle varie parti del film. Quando lo fanno, però, il risultato è un'esplosione di sapori, un oggetto cinematografico non identificato che scombussola, sballotta e intrattiene senza rinunciare ad avere un messaggio. Alcune soluzioni sono artificiose, è vero, e a volte il copione sembra urlarci ciò che ha da dire anziché trasmetterlo con sottigliezza. Sono però dettagli veniali in un meccanismo ad altissimo rischio di implosione e che invece funziona come un orologio svizzero, trascinando lo spettatore in una cena degli orrori dove i piatti sono gironi danteschi, con tanto di pena del contrappasso per gli avventori, che da carnefici si trovano a essere, per una volta, vittime.

Ralph Fiennes è strepitoso nei panni dello chef che, divorato dai sensi di colpa, si fa capo della rivoluzione, e Chau Hong e Nicholas Hoult offrono ottime prove come l'assistente "fedele alla linea" e il cliente apparentemente più "presentabile" - apparentemente, appunto. Il vero motore e cuore del film è però Anya Taylor-Joy, il cui sarcasmo e scetticismo per le inutili sofisticherie del ristorante si trasformano gradualmente in una furia contagiosa, capace di farsi strada nel cuore della storia e dello spettatore, facendolo esultare nella piccola, grande catarsi del finale.

The Menu è un film che, in altri tempi, si sarebbe definito programmatico, e che oggi ci limiteremo a definire puntuale, un ritratto degli aspetti orribili della società contemporanea che ci costringe a renderci conto che ciò che vediamo non è un riflesso distorto, ma l'amara realtà. Vero, fa un po' troppa confusione nella preparazione, e la cucina non è proprio pulitissima: ma il risultato è comunque un piatto sofisticato, complesso ma gustosissimo, che soddisfa palato e stomaco.

****

Pier

sabato 26 novembre 2022

Bones and All

Love will tear us apart


USA, anni Ottanta. Maren, in piena adolescenza, scopre di avere istinti cannibalistici, e di averli ereditati da sua madre. Abbandonata improvvisamente dal padre, stanco di spendere la sua vita a nascondere i danni della ragazza, Maren si ritrova sola, in fuga per l'America. Battendo strade secondarie scopre però che ci sono altri come lei, incapaci di resistere al richiamo della carne umana. 

Cosa significa essere "diversi"? Negli USA, ma in generale nel mondo, la diversità porta spesso con sé uno stigma sociale, la sensazione di essere ai margini della società anziché parte di essa. Come nella tradizione del grande cinema horror, il cannibalismo dei protagonisti diviene una metafora di ogni tipo di diversità. I riferimenti alla tossicodipendenza e all'epidemia di AIDS degli anni Ottanta  sono evidenti, anche per via dell'ambientazione temporale sotto la presidenza Reagan, ma la metafora è abbastanza elastica da prestarsi a ogni tipo di lettura, esattamente come altri grandi tropoi dell'horror come il vampirismo. L'emarginazione è sì sociale, ma anche generazionale ed esistenziale: impossibile non vedere nel risveglio degli istinti di Maren anche un riferimento al risveglio sessuale, grande tabù in una società come gli USA dove le radici cristiano-puritane sono ancora fortissime e spesso generano orrori sociali. 

Qualunque sia la causa, l'emarginazione si traduce in invisibilità, nel vivere negli interstizi della società. Si può essere diversi solo lontani dagli sguardi altrui, adeguatamente rimossi dalla coscienza collettiva. La storia di Maren e Lee si svolge in un'America rurale, periferica, lontana dalle strade più battute, che ricorda quella di Nomadland o di Easy Rider, altri film che avevano nell'emarginazione del "diverso" uno dei temi portanti.

Guadagnino racconta la sua storia in punta di piedi, rinunciando ai virtuosismi dei suoi primi film e tenendosi quasi in disparte, con una regia che punta a esaltare il lavoro degli attori senza rinunciare alla bellezza delle immagini. Sono i due protagonisti, dunque, a raccontare sentimenti, incertezze, scheletri nell'armadio (letterali e non). La macchina da presa indaga i loro volti, i loro viaggi on the road nel cuore dell'America, con il paesaggio che diventa un terzo protagonista, panorami meravigliosi che nascondono un cuore nero che fa di tutto per trasformare Maren e Lee in ciò che il mondo pensa che siano: dei mostri. Ma se il mondo si chiede cosa sono, Maren e Lee sono determinati a capire chi sono, in un riappropriamento della propria identità che si manifesta con prorompente energia, in una progressiva ma catartica liberazione dalla gabbia oscura e invisibile in cui li hanno rinchiusi genitori e società per scrivere il proprio futuro.

Taylor Russell è una bellissima scoperta, e si porta il film sulle spalle. Timothée Chalamet si conferma attore di rara sensibilità e profondità emotiva, confermando quelle doti già dimostrate nel film di Guadagnino che ha lanciato la sua carriera, Chiamami col tuo nome, e in particolare nella splendida scena conclusiva. Accanto a loro, brilla il personaggio di Mark Rylance, perfetto nel bilanciare la capacità di essere inquietante con la fragilità derivante da una vita in solitaria.

È facile farsi ingannare da Bones and All, fermarsi alla superficie dell'horror e del granguignolesco e trattarlo come un "banale" film di genere. Bones and All, tuttavia, fa quello che solo i grandi film di genere sanno fare: utilizzare gli stilemi della sua categoria per raccontare una storia stratificata e complessa, riuscendo e tenere insieme profondità tematica e capacità di intrattenere. Il risultato è un film all'apparenza semplice ma di grande complessità emotiva, che mette a nudo le sue ossa, la sua carne, e il suo cuore.

**** 1/2

Pier

venerdì 18 novembre 2022

War - La Guerra Desiderata

Preveggenza e confusione


Thomas è un allevatore e commerciante di vongole, lavoro che ha ereditato dal fratello maggiore, ora in coma; Lea è la figlia del viceministro della difesa, pacifista convinta e decisa a farsi strada senza aiutini. Quando un omicidio accidentale finisce per scatenare una guerra tra Spagna e Italia, i loro destini si troveranno intrecciati, mentre ambedue cercano di sopravvivere in un paese che abbraccia il conflitto con fin troppa leggerezza, quasi con gioia.

Non si può negare che Gianni Zanasi abbia dimostrato una certa preveggenza: la scrittura di War - La guerra desiderata è infatti terminata tre anni prima dell'invasione russa dell'Ucraina, e tuttavia sembra anticiparne moltissime caratteristiche, dai futili motivi alla disinformazione, passando per un'escalation difficile da controllare  appieno. 

Basta, tuttavia, per fare un buon film? La risposta, purtroppo, è no. La grande stima che chi scrive nutre per Gianni Zanasi (il suo Non pensarci è uno dei film italiani più interessanti degli ultimi vent'anni) ha reso solo più amaro lo stupore nel trovarsi di fronte a un film incoerente e sfilacciato. In War i momenti cinematograficamente riusciti non mancano - dalla preparazione della sgangherata milizia di volontari al confronto finale tra padre e figlia, dove Zanasi si permette addirittura di citare una scena iconica del cinema di guerra e lo fa in modo più che efficace, strappando un ammirato sorriso allo spettatore. Quello che manca è però la storia, un filo conduttore che tenga insieme queste scene, che risultano quindi fini a se stesse, del tutto scollegate l'una dall'altra, e quindi incapaci di veicolare un qualsivoglia messaggio o emozione. War è un insieme di ingredienti cui manca la ricetta, dei colori lasciati sulla tavolozza anziché essere combinati in un dipinto.

Il film procede a balzi, sia logici che temporali - balzi che, oltre a rendere più farraginosa la narrazione, rendono di fatto impossibile affezionarsi ai personaggi. Non vediamo mai i personaggi riflettere, rimuginare, cambiare: li vediamo solo agire, senza un vero perché. Sembrano trascinati non tanto dagli eventi, come pure la situazione potrebbe richiedere, quanto dalle esigenze della sceneggiatura: non agiscono spinti da ciò che accade o da ciò che desiderano fare, ma dalla necessità che compiano quell'azione perché la storia possa spostarsi alla scena successiva, come in un videogioco scadente degli anni Novanta.

Questa confusione sembra contagiare anche il cast tecnico e attoriale. La fotografia, a eccezione della scena citazionista menzionata sopra, è sufficiente e nulla più, le musiche e il montaggio assolutamente dimenticabili, e contribuiscono alla generale mancanza di ritmo. Edoardo Leo e Miriam Leone portano a casa la pagnotta, ma ci hanno abituato a prove ben migliori, e gli attori intorno a loro brillano per mediocrità, fatta eccezione per un monumentale Giuseppe Battiston, protagonista dell'unica scena davvero emozionante del film, e di un riuscito cameo di Massimo Popolizio. 

War - La guerra desiderata è un film che spreca una premessa potenzialmente geniale per raccontare una storia senza né capo né coda, limitandosi a inanellare qualche momento ben riuscito anziché realizzare un'efficace satira della natura umana, e del popolo italiano in particolare. Un passo falso inaspettato per Zanasi, e un'occasione sprecata per raccontare una storia attuale e universale.

**

Pier

venerdì 4 novembre 2022

La Stranezza

Un autore in cerca di personaggi


Girgenti, 1920. Nofrio e Bastiano, i becchini del paese, hanno la passione per il teatro. Quando in paese arriva Luigi Pirandello, in Sicilia per il compleanno dell'amico Giovanni Verga, i due incroceranno la sua strada, e si ritroveranno il grande autore come improbabile spettatore della loro tragicommedia "La trincea del rimorso, ovvero Cicciareddu e Pietruzzu". Quello che non sanno è che Pirandello è in crisi personale e creativa: ma, forse, sarà proprio il loro strambalato spettacolo a sbloccarlo.

Cosa significa creare? Dove si trova l'ispirazione? Domande che attanagliano studiosi e filosofi da secoli, e che Roberto Andò, nel suo nuovo film, rivolge metaforicamente a uno dei grandi artisti del Novecento: Luigi Pirandello. In crisi creativa, Pirandello torna alle sue radici e riscopre la sua vena grazie a due teatranti dilettanti. Nofrio e Bastiano sono l'opposto di ciò che è il teatro pirandelliano, ma le loro vicende brillano di vitalità e naturalezza, e il loro rapporto con il pubblico è attivo, reale, quello di una comunità che attraverso il teatro riflette su se stessa e che nel teatro vede riflessa la sua vita, le sue ossessioni, i suoi segreti, le sue meschinerie. In quella commistione tra teatro e vita Pirandello ritrova se stesso, in un percorso di autoanalisi non assolutorio, in cui si mette "sotto processo" dei suoi personaggi e si trova costretto, suo malgrado, a riflettere su chi è stato e chi vuole essere.

La stranezza è, in fondo, un film di fantasmi: personaggi, invenzioni e sogni si aggirano nel mondo reale. Sono a tal punto parte del reale da essere quasi impossibili da distinguere. Sei personaggi in cerca d'autore è un'ossessione per Pirandello, un incubo che infesta le sue notti e lo costringe a fantasticherie a occhi aperti cui non riesce a dare un senso. Il grande autore è perso, confuso, intrappolato in un labirinto fantasmatico di cui intravede ma non riesce a raggiungere l'uscita. 
La solidità del fantastico non significa che la realtà sia in secondo piano. Nel mondo di Girgenti, in cui Pirandello si ritrova catapultato, la realtà è concreta, solida, centrale, al punto di diventare il motore del racconto e del processo creativo pirandelliano. In un ribaltamento della poetica dell'Antonio Capuano di Sorrentino, la realtà risulta più ricca, vitale e feconda della fantasia: ricca di sentimenti, di relazioni, di storie. I protagonisti incarnano perfettamente questa compenetrazione tra reale e sognato: alla presenza silenziosa del grande autore, quasi un fantasma che si aggira per il palcoscenico, fa da contraltare l'esuberanza di Nofrio e Bastiano, becchini con aspirazioni artistiche e una vita travolgente nella sua ordinaria semplicità.

Andò cuce con abilità sacro e profano, cultura alta e cultura bassa, servendosi anche di elementi meta-narrativi, in linea con la poetica del suo illustre protagonista: Toni Servillo, maestro del grande teatro italiano, incontra Ficarra e Picone, maestri dell'avanspettacolo. I due riversano in Nofrio e Bastiano una comicità dolente degna dei grandi della nostra commedia, offrendo una prova strepitosa per sensibilità, empatia e stratificazione. 

La sceneggiatura convince, rimanendo sempre in bilico tra sogno e reale e offrendo alcuni colpi di scena che, anche se intuibili da uno spettatore più smaliziato, risultano comunque efficaci per l'impatto che hanno sui personaggi e sulla lettura dell'intera vicenda. Alcuni passaggi sono forse troppo affrettati (la seduta con i personaggi meriterebbe forse più spazio, così come il rapporto tra Pirandello e la moglie), e in generale rimane la sensazione che con un po' più di folle coraggio il film avrebbe forse suscitato reazioni più divisive, ma avrebbe avuto un impatto più forte e duraturo - esattamente come il testo teatrale di cui racconta la genesi. Rimane tuttavia un ottimo film, in grado di bilanciare riflessione e intrattenimento e di avvicinare il pubblico a un genio della letteratura e al suo teatro, così rivoluzionario eppure così attuale, fatto di un impasto di sangue, sudore, e sogno.

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Pier

domenica 9 ottobre 2022

Everything Everywhere All at Once

Uno, nessuno, centomila


Evelyn e il marito Waymond sono due cino-americani di mezza età che gestiscono una lavanderia gettoni. Sono indietro con le tasse, e l'IRS li ha convocati nei suoi uffici per contestare alcune detrazioni. Durante questa visita, il tran-tran della loro vita viene sconvolto: una versione alternativa di Waymond si presenta a Evelyn dicendo che il multiverso è in pericolo, e lei è l'unica che può salvarlo.

In un'epoca in cui i blockbuster sono frutto della (più meno) rigida applicazione di formule o dalla visione fortissima di un autore cui quasi per caso viene concesso di fare esattamente ciò che vuole, un film come Everything Everywhere All at Once non dovrebbe esistere: registi (Dan Kwan e Daniel Scheinert) alla loro opera seconda, cast interamente asiatico in cui l'unica celebrità, Michelle Yeoh, non è esattamente un magnete per il pubblico; un budget comunque elevato per supportare l'elevata quantità di effetti visivi e speciali. 

Tuttavia, come il proverbiale calabrone, Everything, Everywhere, All at Once se ne frega, esiste lo stesso, ed è un trionfo cinematografico. Kwan e Scheinert danno una lezione ai ben più celebrati (e ricchi di risorse) colleghi della Marvel mettendo in scena un multiverso creativo, dove i molteplici piani di realtà non sono un espediente narrativo, ma il cuore emotivo della trama: le possibilità nascono dal fallimento, dalle strade provate e poi abbandonate, dalle piccole ferite che ogni sacrificio lascia irrimediabilmente nel nostro essere. Tutti noi, in potenza, siamo più persone; tutti noi conteniamo dentro di noi la possibilità di svariati universi. La paura del fallimento è ciò che divide la protagonista dall'antagonista (ma è davvero tale?), con la seconda che di fronte alle infinite possibilità che il mondo le offre sceglie di non scegliere, terrorizzata dalla complessità e dalle aspettative riposte su di lei, mentre la prima intraprende un percorso di accettazione che la rende più forte, con la sua molteplicità che va ad arricchire la sua unicità, la sua identità centrale.

Kwan e Scheinert sfruttano il multiverso anche come modalità espressiva, muovendosi tra innumerevoli generi con grande grazia ed eleganza, e sfruttando questa caotica, geniale ibridazione per creare momenti comici, assurdi, drammatici, onirici, emozionanti. I due registi non si fanno mancare nemmeno alcune delle migliori scene action degli ultimi anni: il combattimento con il marsupio di Ke Huy Quan (attore che non riconoscerete ma ha segnato l'infanzia di molti) è un instant cult, ma tutti i combattimenti di Yeoh sono splendidi. 

Yeoh, appunto: per anni considerata (a torto) solo un'attrice "da film d'azione", qui sfodera una prestazione clamorosa per versatilità e intensità: una donna piena di cicatrici emotive, cui la vita non ha dato ciò che avrebbe voluto e meritato, circondata da persone che le ricordano, volenti o nolenti, i suoi fallimenti. Quan è semplicemente meraviglioso nella parte del mite Waymond e dei suoi bellicosi alter ego, Stephanie Hsu perfetta nella parte di una figlia per cui le tradizioni stanno diventando una gabbia, e Jamie Lee Curtis offre una delle prove più folli, assurde, e perfette degli ultimi anni.

Everything, Everywhere, All at Once è uno dei migliori film degli ultimi anni, un caleidoscopio di generi che trascina lo spettatore su un ottovolante emotivo che lascia a bocca aperta per un fanciullesco stupore per tutta la durata del film, ma non rinuncia a colpire dritto al cuore nelle sue scene più emotive. Un film che parla della vita e dell'autoaccettazione con eco pirandelliane, e lo fa attraverso combattimenti kung-fu, rocce parlanti, dita a salsiccia, e distopie dal sapore kubrickiano: un vero proprio inno al cinema, capace di ibridare intrattenimento e cinefilia. 

Non perdetelo, ve ne pentireste.

*****

Pier

giovedì 22 settembre 2022

Don't Worry Darling

C'è del marcio negli Anni Cinquanta


Anni Cinquanta. Alice e Jack vivono nella comunità di Victory, una città aziendale sperimentale che ospita gli uomini che lavorano al progetto top-secret omonimo e le loro famiglie. Mentre i mariti trascorrono ogni giorno all’interno del quartier generale del Victory Project, le loro mogli trascorrono il loro tempo godendosi la bellezza, il lusso e la dissolutezza della loro comunità. La vita è perfetta, con tutti i bisogni dei residenti soddisfatti dall’azienda. Ma è davvero così? 

Dopo l’ottimo esordio di Booksmart (tradotto in italiano con l'orrido La rivincita delle sfigate), Olivia Wilde torna alla regia con un film del tutto diverso, un’utopia anni Cinquanta dove qualcosa è fuori posto. Uno dei problemi del film è che questo “qualcosa” si intuisce quasi subito: fin dall’inizio, infatti, una sensazione di “sbagliato” pervade lo spettatore, che è quindi privato del brivido della scoperta che un’opera di questo genere dovrebbe offrire. 

Wilde si muove tra thriller e horror con un grande talento per la costruzione delle immagini: molte soluzioni (ahinoi spesso già rivelate nel trailer) sono di fortissimo impatto e mai fini a se stesse, e servono da perfetto accompagnamento alla crescente angoscia di Alice man mano che si addentra nella tana del bianconiglio. La metafora anti-patriarcato è ben riuscita e non pesante, e la Wilde cuce il film con un buon ritmo, avvalendosi di una buona sceneggiatura e di ottime prove degli attori, Florence Pugh su tutti. 

Pugh è infatti il cuore pulsante del film, solare all’inizio, sempre più rabbiosa con il proseguire dei minuti: è la sua energia quasi animalesca a spingere il film in avanti, facendoci sorvolare su alcuni buchi di trama e generando quella sospensione dell’incredulità che è fondamentale in pellicole come questa. Accanto a lei, Styles offre una buona prova, e la stessa Wilde è convincente nei panni della migliore amica di Alice. Tuttavia, il film ripete tanti, troppi temi già visti (da Matrix a La fabbrica delle mogli, passando per classici del thriller psicologico come Shutter Island) e risulta quindi poco originale. L’intuibilità del colpo di scena deriva anche da qui – da una mancanza di quello scarto creativo che poteva riuscire a stupire il pubblico più esperto, che invece intuisce quasi tutto fin da subito. 

Don’t worry darling è un’opera seconda ambiziosa, non del tutto riuscita ma comunque coraggiosa nel suo voler esplorare territori completamente diversi rispetto a Booksmart, ma al tempo stesso mantenere un’impronta tematica riconoscibile. Wilde dimostra di essere regista con visione e voglia di prendersi dei rischi: e questo, in un’industria sempre più appiattita sul già visto e su standard “sicuri”, è un merito non da poco.

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Pier


Nota: questa recensione è stata originariamente pubblicata su Nonsolocinema.

lunedì 19 settembre 2022

Il Signore delle Formiche

Quando il cinema profuma di cadavere


Il film racconta la storia del processo ad Aldo Braibanti, intellettuale omosessuale che negli anni Sessanta fu mandato a processo con l'accusa di plagio, un reato finora mai applicato e inserito nel codice penale durante il fascismo appositamente per punire i "diversi". La sua sorte e quella di Riccardo, il suo giovane innamorato, vengono quindi rimesse nelle mani dei giudici, all'interno di un'Italia bigotta e perbenista che vede nella loro condotta un attentato alla pubblica morale.

È raro che un film riesca a colpire tutti i sensi: solitamente colpisce gli occhi e l’udito, ma olfatto e gusto ne restano esclusi (salvo che in alcune eccentricità come l’Odorama). Il signore delle formiche fa eccezione, perché è un film di cui lo spettatore riesce a percepire l’odore: un odore di muffa, di stantio, di cadavere in decomposizione, dove il cadavere è il cinema. 

Il signore delle formiche è il prodotto deteriore di un cinema vecchio, superato, retorico, e intollerabile: un cinema che annega un soggetto interessante in un mare di parole mal scritte e recitate ancora peggio – un soggetto che dovrebbe essere in grado di parlare all’oggi ma finisce per parlare solo dell’altroieri, e pure male. La vicenda giudiziaria di Braibanti viene messa in secondo piano, affogata in un mare di retorica. Gli attori sono diretti in modo imbarazzante, con tempi prolungati e pause infinite da telenovela brasiliana, talmente eccessivi che a tratti ricordano Duccio Patané quando, in Boris, cerca di dare una prova di recitazione. Si salva solo Elio Germano che, pur con un personaggio che è un coacervo di stereotipi, riesce a offrire un’interpretazione da cui traspare un po’ di vita. I personaggi parlano in modo del tutto innaturale, pronunciando parole e discorsi che nessuna persona reale pronuncerebbe mai: la prima mezz’ora in particolare è ricca di pistolotti filosofeggianti ai limiti dell’imbarazzo, con una retorica insopportabile, affettata, emetica. 

Questo cinema regressivo sarebbe già un peccato mortale di per sé, ma lo diventa ancora di più perché mortifica un tema che aveva tutto il potenziale per essere interessante: il caso di Braibanti racconta l’Italia di allora e anche quella di oggi, un’Italia fatta di ipocrisie e piccole meschinità, dove la pubblica morale viene sbandierata a targhe alterne e solo quando il bersaglio è “l’altro”, il diverso da noi. C’era quindi il potenziale di fare un film simile a L’ufficiale e la spia o a Il processo ai Chicago 7, giusto per citare due esempi recenti. Amelio sacrifica però il rigore del legal drama sull’altare del melodramma da fiction, e il risultato è una tomba, una cripta in cui viene sepolto il buon cinema giudiziario, con l’aula del tribunale che non fa la sua comparsa fino alla seconda metà inoltrata del film. 

 La vicenda viene presentata in modo peloso, quasi pruriginoso attraverso scene e personaggi che sono stereotipi da operetta (operetta che peraltro fa la sua comparsa – così, di botto, senza senso, sempre per citare Boris – nel finale): tra madri iperreligiose e nevrotiche e fratelli tutto stupore e ferocia, passando per le scappatelle nei boschi di Braibanti, Amelio non dimentica nessun grande classico del peggior cinema italiano. Gli unici momenti di stupore derivano dalla totale mancanza di senso e scopo, tra scene che non servono alcun proposito e la comparsa di Emma Bonino, fugace apparizione stile Madonna di Fatima di cui solo al regista può essere chiaro il motivo. 

Il signore delle formiche è un esempio di quel cinema italiano che speravamo di non dover più vedere – in generale, e in particolare alla Mostra del Cinema: vecchio, stanco, pieno di sé, con dialoghi del tutto innaturali e interpretazioni ai limiti dell’allucinante. Stupisce che venga da Gianni Amelio, che ci aveva abituato a molto di meglio: ma, forse, questo cinema è ormai talmente interiorizzato da tutti gli addetti ai lavori da essere come una cancrena, uno di quei funghi-zombie che, lentamente, divorano le formiche dall’interno, piegandole al loro volere.

*

Pier

Nota: questa recensione è stata originariamente pubblicata su Nonsolocinema.

sabato 10 settembre 2022

Venezia 2022 - Il Totoleone

Anche quest'anno siamo giunti al termine della Mostra del Cinema: una Mostra finalmente tornata alla normalità, con sale piene, dibattiti in coda, feste, biciclette, e panama bianchi. Il programma è stato molto ricco e variegato, e ancora una volta non si possono che fare i complimenti ad Alberto Barbera.

È stata una Mostra pervasa di memorie e ricordi, tra il Bardo di Iñárritu e L'immensità di Crialese, passando anche per The Eternal Daugher e Un Couple; ma, soprattutto, è stata una Mostra sull'incomunicabilità che genera mostri (White Noise, The Banshees of Inisherin) e sull'emarginazione (Bones and All, Monica, Athena, The Whale). Come lo scorso anno, molti film hanno guardato al passato per parlare (con successi alterni) del presente: Argentina, 1985, Chiara, Il signore delle formiche, All the Beauty and the Bloodshed sono gli esempi più evidenti.

Qui trovate un riassuntone dei film visti. Di seguito, invece, trovate i pronostici, quasi sicuramente sbagliati, per il Leone d'Oro e gli altri premi, corredati come sempre dalle mie preferenze personali.


Premio Mastroianni per il miglior attore emergente
Moltissimi protagonisti "giovani" nei film in Mostra. A spiccare sono due ragazze: Taylor Russell, protagonista del film di Luca Guadagnino, Bones and All, e Sadie Sink, già celebre per Stranger Things, e co-protagonista di The Whale. Sulla prima ricade il mio pronostico, anche per il ruolo più ampio rispetto a quello di Sink, ma su Sink ricade la mia scelta personale. 
PronosticoTaylor Russell, Bones and All
Scelta personaleSadie Sink, The Whale

Coppa Volpi maschile
Qui sembra esserci un chiarissimo favorito, ovvero Brendan Fraser, semplicemente straordinario in The Whale. La sua storia personale, inoltre, è la classica comeback story che tende a essere premiata dai giurati. Sembra tutto apparecchiato per una Coppa Volpi, dunque. L'unico motivo per cui potrebbe perderla sarebbe se The Whale si aggiudicasse il Leone d'Oro (il regolamento impedisce che chi vince il Leone vinca altri premi), replicando quindi quanto successo a un altro interprete di un film di Aronofsky, Mickey Rourke per The Wrestler. Ma non penso accadrà. Su Fraser ricade anche la mia scelta personale. 
PronosticoBrendan Fraser, The Whale 
Scelta personaleBrendan Fraser, The Whale

Coppa Volpi femminile 
Anche qui sembra esserci una chiarissima favorita, Cate Blanchett per TAR, destinata quindi a bissare la sua vittoria per Io Non Sono Qui. Il film non è eccezionale, ma la sua interpretazione è un raggio di luce che ne pervade l'intera durata. La mia scelta personale ricade però sulla splendida Penelope Cruz (anch'essa vincitrice proprio lo scorso anno) per L'immensità, dove interpreta una madre solare, creativa e fragile, capace di trasformarsi in Mina e in Raffaella Carrà.
Pronostico: Cate Blanchett, TAR
Scelta personale: Penelope Cruz, L'immensità

Leone d'Argento (Miglior Regia) 
Questo è un premio che tende ad andare a film in cui l'impronta del regista è più evidente. Andrew Dominik per Blonde e Jafar Panahi per No Bears sembrano logiche scelte, ma anche Alice Diop per Saint Omer e Jahil Valilvand per Beyond the Wall hanno le carte in regolaIl mio pronostico ricade su Jafar Panahi, mentre su Valilvand ricade la mia scelta personale.
Pronostico: Jafar Panahi, No Bears
Scelta personale: Jahil Valilvand, Beyond the Wall

Gran Premio della Giuria 
Il favorito per il secondo premio più importante sembra proprio Saint Omer, un film autoriale ma al tempo stesso ipnotico, primordiale nel suo affrontare il femminile e il lato oscuro della maternità con piglio documentaristico. Anche All the Beauty and the Bloodshed potrebbe giocarsela, ma alla fine penso la spunterà Saint Omer, che si aggiudica anche la mia preferenza personale.
PronosticoSaint Omer
Scelta personaleSaint Omer

Leone d'Oro 
Sfida davvero accesa e incerta, ma c'è un film chiaramente superiore agli altri in questa Mostra, ed è The Banshees of Inisherin. Un film scritto, diretto, interpretato, fotografato, musicato alla perfezione, che dovrebbe, se ci fosse giustizia, aggiudicarsi ogni premio. Tuttavia, la giustizia non è di questo mondo: ad aggiudicarsi il premio sarà l'ottimo (seppur inferiore) road movie cannibalesco di Guadagnino, Bones and All
Pronostico: Bones and All
Scelta personale: The Banshees of Inisherin

È tutto anche per quest'anno. Correte in SNAI a scommettere sull'opposto dei miei pronostici, e noi risentiamo per l'edizione 2023.

Pier

venerdì 9 settembre 2022

Telegrammi da Venezia 2022 - Il riassunto pre-pronostico

Siamo arrivati alla fine della 79 Mostra d'Arte Cinematografica di Venezia. Domani arriverà il Totoleone, seguito dalla premiazione vera e propria. 

Chi ha seguito fedelmente i telegrammi sarà preparatissimo: per tutti gli altri, siete ancora in tempo a rimediare: eccovi i link a tutti i telegrammi e un agile riassuntone dei film migliori e peggiori secondo il mio fallibilissimo giudizio.

Tutti i Telegrammi
  1. The Banshees of Inisherin, voto 10 (Telegramma #5)
  2. The Whale, voto 9 (Telegramma #3)
  3. Saint Omer, voto 8.5 (Telegramma #6)
  4. Bones and All, voto 8.5 (Telegramma #2)
  5. Beyond the Wall, voto 8 (Telegramma #7)
I Film Peggiori del Concorso
  1. Chiara, voto 2 (Telegramma #7)
  2. Il Signore delle Formiche, voto 2 (Telegramma #6)
  3. Monica, voto 3.5 (Telegramma #3)
  4. Un couple, voto 4 (Telegramma #2)
  5. Les enfants des autres, voto 5 (Telegramma #4)
A domani per i pronostici!

Pier

Telegrammi da Venezia 2022 - #7

Settimo telegramma da Venezia, con icone hollywoodiane, thriller psicologici, sincerità estreme, registi oppressi dal regime, documentari d'autore, e orridi polpettoni italiani.


Blonde (Concorso), voto 6. Andrew Dominik sceglie di girare una storia romanzata sulla vita di Marilyn Monroe, adattando il romanzo di Joyce Carol Oates anziché basarsi su una delle tante biografie disponibili. Il risultato è un film trasfigurato e trasfigurante, dove Marilyin diventa un'armatura e una trappola per Norma Jean, in un rapporto simbiotico e parassitario al tempo stesso. Blonde è girato con grande maestria, e sorretto dalle splendide musiche di Nick Cave e da un'interpretazione trascendente di Ana de Armas, impressionante per somiglianza. Il film però si perde in inutili lungaggini, e restituisce un'immagine di Marilyn troppo in balia degli eventi, come fosse una foglia trascinata dal vento. La tensione e l'efficacia drammatica vengono sacrificate sull'altare dell'estetica e del desiderio di scandalizzare (le scene di nudo e sesso sono abbastanza esplicite, e sono valse al film il primo divieto per minori della storia di Netflix). Il risultato è quindi un film bello da vedere ma faticoso da seguire, che non offre nulla di nuovo sulla figura di Marilyn.

Beyond the Wall (Concorso), voto 8. Un uomo cieco con un passato tormentato; una donna in fuga che si rifugia nel suo appartamento: una scoperta che avviene per gradi, con crescente fiducia e una realtà che sembra sgretolarsi a ogni passo. Vahid Jalilvand realizza un thriller teso, girato alla perfezione, forse leggermente troppo lungo, ma in grado di tenere lo spettatore con lo sguardo fisso sullo schermo fino allo splendido, creativo finale.

Les Miens (Concorso), voto 7. Cosa succederebbe se qualcuno intorno a noi diventasse incapace di mentire? Questa la premessa del riuscito film di Roschdy Zem, in cui una famiglia viene sconvolta dall'improvvisa sincerità estrema di uno dei fratelli in seguito a una commozione cerebrale. Si ride, ci si commuove, si riflette sulla fragilità dei legami e sulla necessità di mantenerli, coltivarli, ascoltarli.

Nuclear (Fuori Concorso), voto 7.5. Ottimo documentario di Oliver Stone che smonta molti dei miti sulla pericolosità del nucleare, argomentando con dovizia di dati e testimonianze la necessità di metterlo al centro della nostra lotta contro il cambiamento climatico.

No Bears (Concorso), voto 6. Jafar Panahi, sempre costretto agli arresti domiciliari dal regime iraniano, gira un altro film che lo vede protagonista nel ruolo di un regista. La capacità di emozionare del film è quindi un po' limitata da una sensazione di già visto, non tanto dal punto di vista della storia quanto da quello del meccanismo narrativo. Peccato, perché la storia raccontata avrebbe potuto arrivare molto più al cuore: speriamo che Panahi possa finalmente tornare a girare.

Chiara (Concorso), voto 2. Una fiction di Rai1 con un budget un po' più elevato, che avrebbe intenti seriosi ma sceglie di far parlare i suoi personaggi come ne L'armata Brancaleone. Un Medioevo del tutto irreale, dove tutti sono puliti, pettinati, con i denti bianchissimi, non c'è fango, non c'è freddo, non c'è fame. Non è nemmeno un film brutto: peggio, è un film inutile.

Pier

giovedì 8 settembre 2022

Telegrammi da Venezia 2022 - #6

Sesto telegramma da Venezia, con documentari su grandi maestri, splendidi esordi giudiziari, figli problematici, e riscoperte musicali.


Sergio Leone - L'italiano che inventò l'America (Venezia Classici), voto 8. Splendido documentario sulla carriera di Sergio Leone, che alterna testimonianze dei suoi storici collaboratori (dal rumorista a Morricone, dall'addetto al sonoro a Dario Argento) e di registi statunitensi influenzati dal suo lavoro, come Scorsese, Spielberg, e Tarantino. Ricostruzioni e commenti sono puntuali, un saggio di storia e analisi del cinema che farà felici gli appassionati ma costituisce anche un ottimo punto di partenza per un neofita.

The Son (Concorso), voto 6. Dopo The Father, Zeller torna alla regia con l'adattamento di un'altra sua pièce teatrale, questa volta incentrata sulla gestione di un figlio problematico e tormentato. Il ritratto delle difficoltà e dell'incapacità sociale di capire e gestire la depressione è efficace, ma manca di originalità espressiva e tematica. 

Dreamin' Wild (Fuori Concorso), voto 6. Il film racconta l'incredibile storia vera dei fratelli Emerson: da adolescenti, a fine anni Settanta, registrano un album casalingo, che dà il titolo al film. L'album non riceve alcuna attenzione, ma viene riscoperto quasi per caso alla fine degli anni Duemila, quando raggiunge un grande successo critico e persino commerciale. Ma è forse troppo tardi per resuscitare un sogno che i due fratelli, e in particolare Donnie, autore di tutte le canzoni, credevano morto e sepolto, e cui hanno già sacrificato tanto. Film molto classico nella struttura, ma ben scritto e recitato, con Noah Jupp che ruba la scena nel ruolo del giovane Donnie.

Saint Omer (Concorso), voto 8.5. Un esordio folgorante nel cinema di finzione per Alice Diop, finora documentarista, che racconta la storia di due donne che si incrocia attraverso il mito di Medea: una regista che vuole farne un film, e una donna accusata di aver ucciso il proprio figlio. Diop riprende il processo a quest'ultima, vero cuore del film, con un piglio documentarista, ed è una scelta vincente: le emozioni scorrono potenti senza bisogno di artifici retorici e pelosi pietismi (Gianni Amelio avrebbe potuto imparare qualcosa), la maternità viene analizzata nei suoi lati più oscuri e inconfessati, scoperchiando una tematica che la nostra società tende a seppellire. 

Pier

martedì 6 settembre 2022

Telegrammi da Venezia 2022 - #5

Quinto telegramma da Venezia, con utopie/distopie anni cinquanta, storie di fantasmi sui generis, cadaveri cinematografici italiani, western classici, e il film migliore visto finora alla Mostra.


Don't Worry Darling (Fuori Concorso), voto 6. Dopo l'ottimo esordio di Booksmart, Olivia Wilde torna alla regia con un film del tutto diverso, un'utopia anni Cinquanta dove qualcosa è fuori posto. Il film si muove tra thriller e horror con un buon ritmo, ma ripete temi già visti e non spicca per originalità. Ottima la prova di Florence Pugh, cuore pulsante del film. Qui la recensione estesa scritta per Nonsolocinema.

The Banshees of Inisherin (Concorso), voto 10. Che dire? Martin McDonagh non sbaglia un film. Dopo In Bruges, 7 Psicopatici, e Tre Manifesti, il regista-scrittore sfodera un altro film impeccabile, forse il suo migliore: una sceneggiatura perfetta, interpretazioni sublimi, musiche e fotografia evocative, e una regia che amalgama il tutto con sapienza. Un film che, attraverso il microcosmo di un'isola, racconta il macrocosmo dell'umanità, con il conflitto per futili motivi tra due (ex) amici che si fa simbolo del conflitto irlandese, ma in generale di tutti i conflitti tra uomini, gruppi, e nazioni. 

The Eternal Daughter (Concorso), voto 5.5. Una ghost story sui generis, con l'ennesima ottima interpretazione di Tilda Swinton (in un doppio ruolo) e splendidi fotografie e sonoro, gotici e d'atmosfera. La sceneggiatura è però debole, con un colpo di scena (peraltro non fondamentale ai fini del messaggio) che tale non è, e una tematica già vista. Peccato, perché le atmosfere sono davvero suggestive.

Il Signore delle Formiche (Concorso), voto 2. Un film che puzza di cadavere per quanto è vecchio, mal scritto e mal recitato, al punto di sembrare la parodia di uno di quei prodotti da cineforum che sarebbero piaciuti a Guidobaldo Maria Riccardelli. Qui la recensione estesa scritta per Nonsolocinema.

Dead for a Dollar (Fuori Concorso), voto 6. Un western classico con qualche spunto bizzarro e innovativo, soprattutto nel montaggio. Cast di livello che include, oltre a Waltz e Dafoe, anche Rachel "Mrs. Maisel" Brosnahan. 

Pier

domenica 4 settembre 2022

Telegrammi da Venezia 2022 - #4

Quarto telegramma da Venezia, con ricordi d'infanzia, lotte artistiche e morali, maternità alternative, creative elaborazioni del lutto, e guerre di mafia sul Gargano.


Princess (Orizzonti), voto 4. Un film dal tema interessante (la prostituzione clandestina nella periferia di Roma), che convince nella costruzione dei personaggi, ma risulta inconcludente nel messaggio e nella messa in scena.

All the Beauty and the Bloodshed (Concorso), voto 7.5. Il film racconta la battaglia di Nan Goldin, celebre fotografia statunitense, con la famiglia Sackler e la loro Purdue Pharma. Purdue era la produttrice dell'OxyContin, farmaco che crea una forte dipendenza e che si calcola abbia causato più di 400mila morti negli USA. Può l'arte salvare il mondo dalla crisi degli oppiacei? La risposta, apparentemente, è sì. Il film intervalla la storia della battaglia contro i Sackler con la biografia della Goldin: inizialmente questa scelta risulta spaesante, ma con il proseguire dei minuti il collegamento diventa sempre più evidente, al punto che la passione che Goldin mette nella battaglia sarebbe incomprensibile senza conoscere il suo vissuto. Si poteva, forse, sforbiciare qualcosa, ma nel complesso resta un film molto riuscito nella sua capacità di colpire ripetutamente allo stomaco.

Love Life (Concorso), voto 7. Il racconto di una vita di coppia tra lutti, fantasmi dal passato che si ripresentano, risate e lacrime, raccontata con un tocco leggero e dolce, che riprende le lezioni di Ozu e di altri grandi film del cinema giapponese come L'estate di Kikujiro. 

L'Immensità (Concorso), voto 7.5. Emanuele Crialese torna dietro la macchina da presa undici anni dopo Terraferma, e lo fa con un film profondamente personale, che racconta una versione romanzata della sua infanzia e dell'inizio del suo percorso di transizione da donna a uomo. Il film ha due scene di apertura che sono da manuale dello show don't tell, con la danza scatenata di Penelope Cruz e figli su Rumore di Raffaella Carrà a farla da padrone. Il film si ripete un po' in alcuni momenti, ma nel complesso risulta emotivamente e visivamente solido e ispirato.

Les Enfants des Autres (Concorso), voto 5. Un film di cui si fatica a comprendere la presenza in concorso, che racconta con una regia quasi invisibile la storia di una donna che si ritrova ad affezionarsi alla figlia di primo letto del compagno. Ci si interroga su cosa sia la maternità, sulla sua necessità o non necessità, e in generale sullo scopo di una vita lunga e breve al tempo stesso: i messaggi sono a volte un po' vecchi, ma tutto sommato il film non annoia.

Ti Mangio il Cuore (Orizzonti), voto 6.5. Pippo Mezzapesa racconta una storia di mafia e amore sul Gargano in un bianco e nero fatto più di ombre che di luci, che racconta una Puglia rurale che sembra uscita dal selvaggio west. Sangue chiama sangue, e la spirale sembra destinata a non arrestarsi mai. Buono l'esordio da attrice di Elodie, che firma anche la canzone di chiusura. 

Pier e Simone

sabato 3 settembre 2022

Telegrammi da Venezia 2022 - #3

Terzo telegramma da Venezia, con il (grande) ritorno di Aronofsky e tanti film delle sezioni collaterali, più o meno riusciti.


The Happiest Man in the World (Orizzonti), voto 8. Uno sguardo interessante e originale sulle dinamiche ancora irrisolte nei territori dell'ex Jugoslavia - dinamiche che affliggono le menti ancora prima delle relazioni politiche.

Blue Jean (Giornate degli Autori), voto 5.5. Turbamenti sentimentali in un rapporto docente-allievo carico di tensione erotica, che però risulta dispersivo e inconcludente. 

Monica (Concorso), voto 3.5. Noioso, inconcludente, già visto, incapace di trattare approfonditamente l'unico elemento potenzialmente originale (la transizione della protagonista da uomo a donna), che viene invece presentato come un qualunque elemento di "contrasto" tra figli e genitori. 

El Akhira - L'Ultima Regina (Giornate degli Autori), voto 4. Film storico che mette al centro un personaggio interessante ma poco approfondito, e finisce quindi per annoiare, anche a causa di una lunghezza eccessiva.

Banu (Biennale College), voto 6. La lotta di una donna per riconquistare suo figlio si contrappone alla vittoria del suo paese, l'Azerbajian, in una trentennale guerra. Un film femminile interessante ma incapace di scavare a fondo.

The Whale (Concorso), voto 9. Un'obesità che diventa un guscio in cui affogare una depressione irrefrenabile, il passato che torna nella forma di una figlia arrabbiata ma adorata. Aronofsky ripete l'operazione già riuscitagli con The Wrestler mettendo in scena un uomo distrutto eppure con ancora tanto da dare, preda di una spirale autodistruttiva che non può e, forse, non vuole più arrestare. Brendan Fraser è straordinario nel ruolo del protagonista, ma tutto il cast convince in quello che è finora il film più commovente ed emotivamente vivo della Mostra.

Simone

venerdì 2 settembre 2022

Telegrammi da Venezia 2022 - #2

Secondo telegramma da Venezia, con cannibali, mogli di grandi scrittori, spie misericordiose, rivolte nelle periferie, e concerti punk.


Un Couple (Concorso), voto 4. Il primo lavoro di finzione di Frederick Wiseman è tale solo di nome, dato che consiste in un'alternanza tra splendide immagini della natura e di un'attrice che recita le lettere di Sof'ja Tolstaja, la moglie di Tolstoj. Sfugge il senso dell'operazione, che risulta una versione filmata di quei monologhi teatrali "al femminile" talmente stereotipati e diffusi da essere divenuti oggetto di parodia. Qui la recensione completa scritta per Nonsolocinema.

A Compassionate Spy (Fuori Concorso), voto 8. Una storia poco nota sul Progetto Manhattan, che ricostruisce le ragioni per cui Ted Hall, il più giovane fisico a lavorare al progetto, decise di passare i piani alla Russia. Hall temeva la tirannide che gli Stati Uniti avrebbero potuto esercitare se fossero stati i soli ad avere la bomba, ma al tempo stesso ha armato il regime staliniano: i dubbi etici di Hall e della moglie, vera protagonista del documentario, impongono al pubblico riflessioni fondamentali, soprattutto di questi tempi.

Athena (Concorso), voto 7.5. Una rivolta nelle banlieu diventa una vera e propria guerra, e il regista Gravas la riprende come tale. La scena d'apertura è magnifica, un piano sequenza di rara potenza con una immagine di chiusura potente ed evocativa; il resto del film è comunque girato sublimemente e, anche se perde strada facendo un po' della sua forza dirompente, colpisce e avvince per tutta la sua durata.

Bones and All (Concorso), voto 8.5. Una ragazza cannibale si ritrova sola, abbandonata dalla famiglia, ma scopre che ci sono altri come lei, incapaci di resistere al richiamo della carne umana. Come nella tradizione del grande cinema horror, la loro condizione diviene una metafora dell'emarginazione - sociale, generazionale, esistenziale. Guadagnino gira una storia d'amore sui generis rinunciando a virtuosismi tenendosi in disparte, lasciando che siano i suoi protagonisti (gli ottimi Taylor Russell e Timothée Chalamet) a raccontare sentimenti, incertezze, scheletri nell'armadio (letterali e non). La macchina da presa indaga i loro volti, i loro viaggi on the road nel cuore dell'America, offrendoci un film all'apparenza semplice ma di grande complessità emotiva, che mette a nudo le sue ossa, la sua carne, e il suo cuore.

Margini (Settimana della Critica), voto 6.5. Una lettera d'amore al punk, a tratti onesta, a tratti furbetta, ma comunque dotata di energia e humor. Si poteva fare di meglio, ma la storia di una sgangherata band punk di Grosseto riesce comunque a divertire.

Pier


giovedì 1 settembre 2022

Telegrammi da Venezia 2022 - #1

Come ogni anno, Film Ora è a Venezia, e vi accompagnerà per tutta la Mostra del Cinema con i suoi telegrammi, recensioni brevi dei film visti nelle varie sezioni. Una Mostra con tantissimi titoli interessanti, che promette belle sorprese e anche qualche inevitabile delusione.


Ecco i film visti nel primo giorno e mezzo di Mostra:

White Noise (Concorso), voto 7. Una premessa: chi scrive ha detestato l'omonimo romanzo di Don DeLillo da cui è tratto il nuovo film di Noah Baumbach, trovandolo pretenzioso oltre il parossismo. Tuttavia, il film merita un voto alto perché Baumbach realizza un adattamento non solo rispettoso, ma anche migliore del materiale originale, escogitando trucchi intelligenti che trasformano i dialoghi senza costrutto di DeLillo in un interessante e simbolico rumore di fondo, e dirige i due protagonisti (Adam Driver e Greta Gerwig, ambedue bravissimi) a recitare con divertimento, donando al film quell'ironia tipica di altri libri post moderni (viene in mente La scopa nel sistema di D.F. Wallace) che invece manca nel romanzo di DeLillo. Baumbach dirige tutto con sguardo lynchiano, alternando assurdo e angoscia (con momenti quasi horror) attraverso atmosfere suggestive che conferiscono al film uno spessore e un'anima emotiva del tutto mancanti nel romanzo, puramente cerebrale.

La Marcia su Roma (Giornate degli Autori), voto 6.5. Un buon documentario sul potere del cinema come strumento di propaganda, in particolare nei regimi autoritari, attraverso l'analisi del ruolo che la manipolazione delle immagini ha avuto nel racconto della marcia su Roma e nell'affermazione del regime fascista.

Tàr (Concorso), voto 5.5. La caduta in disgrazia di una grande direttrice d'orchestra, vittima di se stessa e della sua incapacità di relazionarsi con gli altri (con un'eccezione), focalizzata com'è sulla musica e suo lavoro. Un film che poteva dostoevskijanamente raccontare l'autodistruzione innescata da un'ossessione ma cerca di farsi anche commento e critica sociale, finendo per essere tutto e niente e depotenziare l'ennesima straordinaria prova di Cate Blanchett.

Bardo (Concorso), voto 8. Dopo Cuarón, anche Iñárritu si cimenta con il proprio passato, ma lo fa con un film del tutto diverso: laddove ROMA giocava la carta della nostalgia, Iñárritu realizza un film liquido, in cui realtà e sogno, memoria e desiderio scivolano l'uno nell'altro, e passato e presente sono la stessa cosa. Il film è a metà tra Sorrentino e Lynch, ed è visivamente abbacinante e narrativamente sorprendente. Bardo è intriso di realismo magico, e attraverso i ricordi dell'alter ego filmico del regista racconta anche le contraddizioni di una nazione, il Messico, dall'identità negata eppure fiera, con un popolo di migranti che non riesce mai davvero a lasciare il proprio paese. Mezzo voto in meno per la lunghezza, eccessiva anche per un film così bello.

Living (Fuori Concorso), voto 8. Remake di un film di Kurosawa, Vivere, a sua volta tratto da La morte di Ivan Il'ič, Living è sceneggiato dal premio nobel Kazuo Ishiguro: e il suo tocco malinconico e riflessivo si vede, ed eleva la già eccezionale materia originale. Come un altro piccolo, grandissimo film visto alla Mostra (Still Life), Living parla della cosa più semplice e più complessa: la banalità e l'eccezionalità della vita. Bill Nighy è splendido nella sua dolente compostezza, nel suo bruciante, nuovo desiderio di vivere nascosto sotto un'apparenza pacata e gentile. Un piccolo gioiello.

Pier