martedì 27 novembre 2018

Animali Fantastici - I Crimini di Grindelwald

I crimini del sequel




New York, 1927. Grindelwald è stato catturato pochi mesi prima, ma riesce ben presto a evadere. Il suo piano è semplice: stabilire il predominio dei maghi sui non maghi. Per farlo, si reca a Parigi alla ricerca di Credence, l'Obscuriale scomparso nel nulla al termine del primo capitolo della saga, e per arringare le folle in un comizio. Albus Silente, preoccupato dalle intenzioni nefaste del vecchio amico, incarica Newt Scamander, suo ex allievo, di recarsi a Parigi per trovare Credence prima che possa farlo Grindelwald.

Dopo un primo capitolo sorprendetemente convincente, la saga di Animali fantastici torna con un sequel che stringe i legami con l'universo di Harry Potter, mettendo al centro della scena due personaggi che vi avevano giocato un ruolo fondamentale: Gellert Grindelwald, che nel primo film compariva solo alla fine, ma soprattutto Albus Silente. Il futuro preside di Hogwarts è il vero deus ex machina di questo secondo capitolo, in cui compare solo sporadicamente ma guida le azioni di più di un personaggio.

Il film ha un impianto visivo decisamente convincente: dopo i suoi esordi tentennanti nella saga di Harry Potter, David Yates sembra aver finalmente trovato una sua visione e un linguaggio espressivo che si lega all'immaginario della saga ma lo rinnova in modo originale. La prima scena del film è un piccolo capolavoro di tensione, spettacolarità e interpretazione, in cui la parola è quasi del tutto assente e a parlare sono solo le immagini. Il resto del film non raggiunge mai quelle vette, ma offre comunque molte immagini evocative e coinvolgenti (su tutte quella della convocazione per il comizio di Grindelwald). L'unico difetto del comparto visivo risiede nella resa del personaggio di Grindelwald, ben interpretato da Johnny Depp, ma decisamente troppo stereotipato a livello di trucco e pettinatura. Grindelwald è il "grande seduttore" dell'universo di Harry Potter, capace di conquistare il cuore delle masse e quello di Silente grazie al suo fascino ambiguo e alla sua parlantina: un Magneto o un Loki più che un Joker. Il film lo ritrae invece con un aspetto inquietante, da pazzo, privandolo così di un elemento centrale per la sua caratterizzazione, che è invece ironicamente presente nella scena di apertura, dove Grindelwald si presenta con un aspetto del tutto differente.

I personaggi principali sono ben caratterizzati, con un Newt Scamander più empatico che nel primo film e Jude Law che ruba la scena nei panni del giovane Silente. Deludono ancora, invece, i comprimari, talmente anonimi che si fatica a ricordarne il nome. Il loro inserimento nella storia è artificioso e posticcio (soprattutto per quanto riguarda il babbano Jacob), e la loro presenza del tutto dimenticabile: il "non detto" amoroso tra Tina e Newt era già di scarso interesse nel primo film, e diviene qui ancora più inutile, soprattutto se paragonato all'innegabile intesa e alla vera "tensione" che si percepisce tra Newt e Leta Lestrange, che nel giro di quindici minuti risulta già più interessante e caratterizzata di Tina, nonostante questa sia apparsa già nel film precedente.

Il tempo inutilmente speso a seguire le vicende dei personaggi secondari è solo uno dei difetti di una sceneggiatura che, sorprende dirlo, è il punto più debole del film. La trama scorre troppo lentamente, i colpi di scena, per quanto sconvolgenti (uno in particolare), sono condensati negli ultimi quindici minuti e servono solo a costruire tensione per il prossimo capitolo, e si collegano in modo molto flebile a quanto visto nelle due ore precedenti. Questo è probabilmente dovuto al fatto che questo è giocoforza un capitolo di transizione in una storia che si articolerà su cinque pellicole. Tuttavia, J.K. Rowling ci aveva abituato a una narrazione in grado sia di portare avanti la trama orizzontale della saga, sia di chiudere in modo soddisfacente la vicenda narrata nei singoli capitoli. Ne I crimini di Grindelwald questa chiusura è del tutto mancante, e si rimane con la sensazione di aver visto un lungo prequel per qualcosa che è ancora di là da venire.

La Rowling non delude invece nella costruzione del sottotesto politico-sociale: Grindelwald è un villain mellifluo, che ricorre alle parole prima che alla violenza per plasmare le menti dei maghi e indurli a seguirlo nella sua battaglia a favore dei purosangue e di una dittatura dei maghi sui non-maghi. In questo è molto diverso da Voldemort, e ricorda più un dittatore democraticamente eletto da una folla plaudente che uno che ha preso il potere con la forza. Il suo comizio è un momento di scrittura magistrale, e non può non portare alla mente quelle di altri leader "autoritari" che si sono affermati nel panorama politico odierno.

Animali fantastici - I crimini di Grindelwald è un film godibile dal punto di vista visivo, ma poco incisivo dal punto di vista narrativo, dove paga sia il fatto di essere un capitolo di transizione, sia una scrittura poco strutturata e sbilanciata verso il finale del film. Il suo reale valore sarà giocoforza determinato da quello dei capitolo successivi, e dalle spiegazioni più o meno convincenti date a dei colpi di scena che, per quanto indubbiamente spettacolari, a oggi rischiano di essere fini a se stessi.

** 1/2

Pier

sabato 17 novembre 2018

Widows - Eredità criminale

Film di genere e film d'autore


Veronica Rawlins rimane vedova del marito Harry quando questi rimane ucciso in un'esplosione durante una rapina perpetrata ai danni del gangster Jamal Manning, che sta cercando di entrare in politica. I soldi rubati finiscono bruciati nell'incendio che segue l'esplosione, ma Manning non ci sta, e intima a Veronica di rimborsarlo entro due mesi. La donna, messa spalle al muro, troverà una soluzione nel quaderno degli appunti lasciatole dal marito, su cui è riportato il dettagliato piano per un colpo da 5 milioni di dollari.

Che cos’è un grande regista? Troppo spesso si tende a pensare che un grande regista debba essere un visionario, qualcuno che gira film con una forte impronta visiva e una narrazione non necessariamente lineare; qualcuno, in sintesi, che corrisponda allo stereotipo dell’ “autore” reso celebre da cinefili asfittici come il Guidobaldo Maria Riccardelli di Fantozzi.

Di grandi registi di questo tipo se ne contano pochissimi (David Lynch, per dirne uno), ma purtroppo si contano moltissimi, pallidi tentativi di imitazione, che si cimentano nella realizzazione di polpettoni orchitogeni nel nome di una supposta “arte”. A tutti questi autori d’accatto andrebbe imposta la visione ripetuta e continuata di Widows – possibilmente in ginocchio sui ceci, come da suggestione fantozziana. Steve McQueen realizza infatti un film che fa vedere cosa voglia dire essere un grande regista, ovvero realizzare una storia efficace, potente e coinvolgente in cui tutto – immagini, musica, dialoghi, interpretazione – converge in modo armonico verso la comunicazione delle sensazioni, emozioni e messaggi che il regista vuole veicolare.

Un grande regista è in grado di esprimersi al meglio anche con un film “di genere”, e McQueen mette la sua autorialità al servizio di un heist movie classico solo nella struttura narrativa, ma che si arricchisce di molteplici livelli di lettura, sottotrame, e soprattutto di personaggi caratterizzati alla perfezione, mossi da motivazioni solide e ben costruite. Nella storia di Veronica Rawlins e delle sue socie troviamo quindi l’adrenalina tipica del genere, ma anche la povertà dei ghetti delle grandi metropoli, la violenza della polizia contro le comunità afroamericane, ma soprattutto la questione dell’emancipazione femminile, con le donne che si prendono il centro della scena.

“Nessuno pensa che siamo in grado di farlo”, dice la Rowlins in un momento chiave , e proprio su questa aspettativa gioca Steve McQueen fin dall’inizio del film, con una sequenza mozzafiato in cui i protagonisti sembrano gli uomini, mentre le donne sono relegate alla sfera domestica. Il ribaltamento dei ruoli che segnerà il film non è solo un colpo di scena, ma è l’asse portante della narrazione, che mette al centro personaggi femminili realistici, ben costruiti, e interpretati alla perfezione da un cast in stato di grazia assoluta. Le protagoniste brillano di luce propria, ma tra loro spiccano la fenomenale Viola Davis, che con un’espressione dice ciò che ore e ore di dialogo non potrebbero dire, ed Elizabeth Debicki, perfetta nel ritrarre l’evoluzione del suo personaggio da fragile e imbelle oggetto di desiderio a donna decisa a non farsi mai più mettere i piedi in testa. Tra gli uomini spicca lo spietato sicario interpretato da Daniel Kaluuya, alle prese con un personaggio diversissimo da quello che interpretava in Get Out!, un villain da manuale nella sua totale mancanza di pietà ed empatia.

McQueen gira un film corale, caratterizzato da un ritmo sincopato. Il montaggio alterna scene brevi e incisive, che ci fanno immergere nella vita quotidiana dei vari protagonisti, a piani sequenza ansiogeni per le scene di violenza e tensione, creando un crescendo visivo ed emotivo che culmina nella scena della rapina, perfetta sotto ogni punto di vista, e trova la sua perfetta conclusione nel dialogo finale. Ogni elemento si incastra alla perfezione grazie alla mano solida di McQueen: ogni virtuosismo di macchina ha uno scopo, ogni scelta “autoriale” un suo significato ben preciso, volto a massimizzare la portata emotiva di ogni momento del film. Il regista sembra aver imparato alla perfezione la lezione di grandi registi come Ford, Hitchcock, e soprattutto Kubrick, in grado di girare film "di genere" senza per questo rinunciare alla loro impronta autoriale, e anzi rendendola ancora più evidente.

Widows è un film pressoché perfetto, in cui gli amanti del cinema d’autore potranno apprezzare la perfezione di alcune inquadrature e di alcune sequenze, e gli amanti del thriller potranno godersi un film che non lascia un attimo di tregua, trascinando lo spettatore in un vortice di violenza, commozione e colpi di scena che rimarranno impressi nella memoria.
In poche parole, Widows è il film di un grande regista, qui forse alla sua miglior prova di sempre: non perdetelo.

*****

Pier

lunedì 5 novembre 2018

A star is born

Canzoni e fantasmini



A star is born è il terzo remake del film del 1937 diretto da William Wellman, già riportato sullo schermo con successo prima da George Cukor nel 1954 (con Judy Garland nella parte della protagonista), poi da Frank Pierson nel 1976 (con Barbara Streisand e Kris Kristofferson). Proprio da quest'ultima versione, dalle note e dalle ambientazioni più rock, prende le mosse il film di Bradley Cooper, seguendone pedissequamente la trama salvo che per il finale, dove Cooper preferisce invece recuperare quello del 1937 e del 1954.

In un film che giocoforza non può avere molto di originale, il valore aggiunto dovrebbe venire dalle canzoni, elemento centrale di ogni musical, e dalle interpretazioni dei protagonisti, fondamentali per far connettere lo spettatore con il dramma emotivo al centro della storia. Il primo elemento è senza dubbio riuscitissimo, sia per la qualità delle canzoni stesse, sia per la fenomenale chimica tra Bradley Cooper e Lady Gaga sul palco: durante le loro esibizioni, soprattutto se di fronte a un pubblico, il film sembra entrare in un'altra dimensione, riuscendo a creare quell'incantesimo che è l'ingrediente fondamentale del cinema. Appena la musica si ferma, tuttavia, l'incantesimo si spezza, e la carrozza torna a essere una zucca, pure andata a male: Lady Gaga è infatti un'attrice men che mediocre, incapace di sostenere la portata emotiva di una parte fortemente drammatica come quella di Ally, costretta ad assistere all'autodistruzione dell'uomo che ama (e a cui deve tutto) proprio nel momento in cui lei si sta godendo il meritato e tanto atteso successo. Laddove Bradley Cooper offre una prova attoriale non memorabile ma comunque intensa, Lady Gaga risulta un pesce fuor d'acqua, tanto eccezionale nel trasmettere emozioni durante il canto quanto inetta nel farlo con la parole e le espressoni del viso. La sua performance è uno dei rari casi in cui il doppiaggio è una benedizione.

Ad affossare il tutto ci pensa una sceneggiatura inadeguata, con inutili lungaggini e dialoghi ai limiti dell'imbarazzante: per tutti basti quello in cui Jackson e il manager di Ally discutono per due minuti buoni sui pro e i contro dell'indossare i "fantasmini", i calzini invisibili da mettere con i mocassini. I dialoghi distruggono ogni emozione costruita durante le scene di musica, affossando quindi il potenziale del film e rendendolo un remake che non aggiunge nulla ai film precedenti se non la qualità delle canzoni (sicure premio Oscar, ma del resto lo erano state anche quelle del film del 1976). Nessun nuovo piano di lettura (come poteva essere quello che avrebbe offerto la versione di Clint Eastwood con Beyoncé con il tema razziale), nessuna novità di trama, nessun rinnovamento attraverso i dialoghi: semplicemente una minestra riscaldata che emoziona solo a metà, e la cui fascinazione sui critici statunitensi lascia basiti e stupefatti. Non può bastare come giustificazione, infatti, l'afflato da Hollywood classica della pellicola, dato che altri remake che potevano vantare tale etichetta, e una miglior realizzazione, sono stati accolti senza tali plausi. Rimane, dunque, solo una triste spiegazione, ovvero che anni di carestia di idee originali abbiano lentamente ma inesorabilmente lasciato il loro segno.

A star is born è un film riuscito a metà, in cui alla grande forza delle scene di canto si accompagna un'assoluta indigenza intellettuale e di scrittura, nonché delle prove attoriali non certo memorabili, con i due protagonisti che sono decisamente più a loro agio con il canto che con la recitazione. Il risultato è quindi poco riuscito, nonostante alcuni momenti oggettivamente emozionanti (la prima esibizione di Jackson e Ally sulle note di Shallow su tutti) e alcuni ingredienti che, miscelati con qualcosa di meno insipido, avrebbero potuto dare risultati certamente migliori.

**

Pier