lunedì 5 novembre 2018

A star is born

Canzoni e fantasmini



A star is born è il terzo remake del film del 1937 diretto da William Wellman, già riportato sullo schermo con successo prima da George Cukor nel 1954 (con Judy Garland nella parte della protagonista), poi da Frank Pierson nel 1976 (con Barbara Streisand e Kris Kristofferson). Proprio da quest'ultima versione, dalle note e dalle ambientazioni più rock, prende le mosse il film di Bradley Cooper, seguendone pedissequamente la trama salvo che per il finale, dove Cooper preferisce invece recuperare quello del 1937 e del 1954.

In un film che giocoforza non può avere molto di originale, il valore aggiunto dovrebbe venire dalle canzoni, elemento centrale di ogni musical, e dalle interpretazioni dei protagonisti, fondamentali per far connettere lo spettatore con il dramma emotivo al centro della storia. Il primo elemento è senza dubbio riuscitissimo, sia per la qualità delle canzoni stesse, sia per la fenomenale chimica tra Bradley Cooper e Lady Gaga sul palco: durante le loro esibizioni, soprattutto se di fronte a un pubblico, il film sembra entrare in un'altra dimensione, riuscendo a creare quell'incantesimo che è l'ingrediente fondamentale del cinema. Appena la musica si ferma, tuttavia, l'incantesimo si spezza, e la carrozza torna a essere una zucca, pure andata a male: Lady Gaga è infatti un'attrice men che mediocre, incapace di sostenere la portata emotiva di una parte fortemente drammatica come quella di Ally, costretta ad assistere all'autodistruzione dell'uomo che ama (e a cui deve tutto) proprio nel momento in cui lei si sta godendo il meritato e tanto atteso successo. Laddove Bradley Cooper offre una prova attoriale non memorabile ma comunque intensa, Lady Gaga risulta un pesce fuor d'acqua, tanto eccezionale nel trasmettere emozioni durante il canto quanto inetta nel farlo con la parole e le espressoni del viso. La sua performance è uno dei rari casi in cui il doppiaggio è una benedizione.

Ad affossare il tutto ci pensa una sceneggiatura inadeguata, con inutili lungaggini e dialoghi ai limiti dell'imbarazzante: per tutti basti quello in cui Jackson e il manager di Ally discutono per due minuti buoni sui pro e i contro dell'indossare i "fantasmini", i calzini invisibili da mettere con i mocassini. I dialoghi distruggono ogni emozione costruita durante le scene di musica, affossando quindi il potenziale del film e rendendolo un remake che non aggiunge nulla ai film precedenti se non la qualità delle canzoni (sicure premio Oscar, ma del resto lo erano state anche quelle del film del 1976). Nessun nuovo piano di lettura (come poteva essere quello che avrebbe offerto la versione di Clint Eastwood con Beyoncé con il tema razziale), nessuna novità di trama, nessun rinnovamento attraverso i dialoghi: semplicemente una minestra riscaldata che emoziona solo a metà, e la cui fascinazione sui critici statunitensi lascia basiti e stupefatti. Non può bastare come giustificazione, infatti, l'afflato da Hollywood classica della pellicola, dato che altri remake che potevano vantare tale etichetta, e una miglior realizzazione, sono stati accolti senza tali plausi. Rimane, dunque, solo una triste spiegazione, ovvero che anni di carestia di idee originali abbiano lentamente ma inesorabilmente lasciato il loro segno.

A star is born è un film riuscito a metà, in cui alla grande forza delle scene di canto si accompagna un'assoluta indigenza intellettuale e di scrittura, nonché delle prove attoriali non certo memorabili, con i due protagonisti che sono decisamente più a loro agio con il canto che con la recitazione. Il risultato è quindi poco riuscito, nonostante alcuni momenti oggettivamente emozionanti (la prima esibizione di Jackson e Ally sulle note di Shallow su tutti) e alcuni ingredienti che, miscelati con qualcosa di meno insipido, avrebbero potuto dare risultati certamente migliori.

**

Pier

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