venerdì 28 gennaio 2022

West Side Story (In pillole #24)

The same, old story


West Side Story è un film estremamente ben realizzato. La regia di Spielberg è coesa, centrata, con tutti gli elementi che si incastrano alla perfezione, con una fotografia avvolgente e immersiva, fatta di colori accesi (da Technicolor) e contrasti forti, luci e ombre che si inseguono nel paesaggio così come nell'animo dei protagonisti. Le coreografie sono perfette, classiche, le voci vibranti, giovani, vive, e rendono perfettamente giustizia alle musiche di Bernstein.

West Side Story è anche un film estremamente noioso. Sembra, quella di Spielberg, un'operazione davvero fuori tempo massimo, un remake che non aggiunge nulla all'originale e sembra rifarlo quasi alla lettera, dimenticando però che, nel frattempo, sono passati 60 anni. West Side Story è, semplicemente, un musical vecchio: vecchia la trama, vecchie le musiche, vecchie le coreografie. È una pietra miliare, ma riproporlo esattamente come sarebbe stato fatto quando fu concepito è un'operazione di cui si fatica a capire il senso, soprattutto in un'epoca che è riuscita a restituire nuova linfa al genere, sia rielaborando stilemi classici (Moulin Rouge!La La Land), sia adattando opere musicalmente più sfidanti e impegnative (Sweeney Todd, Into the Woods), sia addentrandosi in nuovi territori narrativi e musicali, a teatro (Hamilton, The Book of Mormon) e anche al cinema (In the Heights, Tick Tick... Boom!). 

Senza West Side Story non esisterebbero molti di questi film, ma l'operazione di Spielberg suona come una riscrittura contemporanea dei Promessi Sposi da parte di uno scrittore odierno fatta senza cambiare una riga rispetto all'originale: un omaggio appassionato, certo, ma giocoforza privo di ogni originalità. Quello che resta è quindi un film prigioniero - del proprio passato, della propria perfezione formale - e senz'anima: un esercizio di stile bellissimo, ma vacuo, che nel migliore dei casi intrattiene per essere subito dimenticato, e nel peggiore risulta un'eccellente cura contro l'insonnia.

** 1/2

Pier

Nota sul voto: la politica di questo blog è, da sempre, quella di dare un voto al film sulla base di quanto il film rifletta ciò che voleva trasmettere il regista (risultato/intenzione, se volete metterla in termini matematici. Raramente entriamo nel merito della correttezza dell'intenzione: questo è uno di quei casi, come avrete intuito dall'articolo. Il voto è dunque la media tra il voto all'intenzione (una stella) e quello all'esecuzione (quattro stelle).

sabato 15 gennaio 2022

Matrix: Resurrections

Nostalgia della Matrice


Thomas Anderson è l'autore della saga di videogiochi Matrix. Nonostante il successo planetario, la sua vita procede stancamente e Thomas soffre di depressione. Il suo senso di alienazione aumenta quando la Warner Bros, per cui lavora, gli impone di realizzare un nuovo capitolo della saga. Un giorno, tuttavia, Thomas Anderson si trova davanti un personaggio del videogioco da lui creato: Morpheus. La realtà, forse, non è quella che sembra.

Qui inizia la tana del Bianconiglio

C'è un momento apparentemente minore, in Matrix: Resurrections, che sembra solo una banale briciola di fan service: ricompare il Merovingio, personaggio chiave del secondo e del terzo film della saga, qui ridotto a mero barbone farneticante. Il suo monologo sui bei tempi andati, prima che l'arrivo dell'Eletto rovinasse tutto, in superficie sembra una parodia dei boomer, un meme come tanti altri che si vedono online. Tuttavia, a ben guardare il monologo - che forse non a caso arriva circa a metà film - diventa per contrasto una critica all'idolatria del passato, a quell'attaccamento quasi morboso per ciò che ha segnato la nostra infanzia che viene sistematicamente sfruttato dall'industria dell'intrattenimento (e non solo): un metadone emotivo che ha appiattito le nostre menti, assecondando la nostra fame di passato fino a farci perdere i denti capaci di masticare il nuovo e costringerci a ingerire solo un minestrone riscaldato (non è un caso, in tal senso, che il personaggio che "imprigiona" Neo si chiami "L'analista", un chiaro riferimento ai data analyst che controllano molti dei processi creativi dell'Hollywood odierna).

Chi scrive si è visto sul banco degli imputati come spettatore, e si è trovato colpevole: un j'accuse mascherato e sottile, quello di Lana Wachowski, ma proprio per questo potente. Ci piacerebbe pensare che il Merovingio sia la parodia di un vecchio lamentoso, ma la realtà è che il Merovingio siamo noi: noi che abbiamo "costretto" Lana Wachowski a resuscitare una saga morta e sepolta; noi che alimentiamo questo circolo vizioso che porta a sempre meno prodotti originali (sia in termini di "prodotti che non sono adattamenti di opere già esistenti, sia in termini di adattamenti che provano a fare qualcosa di diverso e innovativo) e a far andar male quei pochi che ci provano (con qualche rara eccezione).

Matrix: Resurrections è, come il suo capostipite, una riflessione sulla società della distrazione di massa, in cui gli esseri umani sono sempre più distaccati dalla realtà e le corporations hanno sempre più interesse a incentivare questo distacco. Il film è più cupo dei suoi predecessori, e lascia poco spazio alla speranza: sembra più il grido di un prigioniero che in fondo al cuore teme di non potersi davvero liberare dalle sue catene, un appello a un'ultima resistenza disperata per una battaglia che sembra quasi senza speranza.


La prima metà del film è quella più riuscita, un piccolo gioiello che racconta la depressione e l'alienazione della società contemporanea, con vite fatte di una ripetitività senz'anima, degna di quella di Tempi Moderni. Una ripetitività che, però, è anche rassicurante, al punto che - e qui sta la prima, grande differenza con i primi capitoli - molti umani scelgono deliberatamente di restare nella Matrice (così come i videogamers si perdono nei meandri del videogioco, al punto di non distinguerlo più dal reale), preferendo un mondo simulato ma tranquillizzante alle asprezze del reale. Gli umani, in sintesi, scelgono la loro rovina, concedendosi come volontarie batterie emotive per le macchine che si nutrono della loro frustrazione e preferendo un vuoto intrattenimento all'asprezza della realtà. 

Il messaggio è, ovviamente, metacinematografico, dato che stiamo guardando il sequel di un film che ha segnato la storia del cinema: una "minestra riscaldata" che parla del pericolo delle minestre riscaldate. Il rischio di risultare autoreferenziale e un po' furbetto è altissimo, ma l'onestà delle intenzioni di Lana Wachowski traspare da ogni scelta, ogni inquadratura: il film è l'equivalente di un discorso appassionato e improvvisato, che procede per digressioni, intuizioni brillanti, aneddoti non funzionali ma emozionanti. Il suo è un film chiaramente creato da un umano, non da un algoritmo, e per questo ricco di imperfezioni: un film che riflette su se stesso e che nega il suo passato per reclamare un futuro che, forse, non arriverà. 

Un perfetto esempio in tal senso sono le scene di azione: alcune sono una ripetizione pedissequa di ciò che abbiamo già visto, un remake stanchissimo e ripetitivo che letteralmente ripete ciò che è stato, spingendoci a riflettere se è ciò che vogliamo veramente. Altre - le più interessanti - sono invece una negazione della spettacolarizzazione dei primi capitoli, un annullamento di tutto ciò che rendeva Matrix Matrix: laddove nei primi Matrix la scena madre era sempre un combattimento, con Neo che affrontava il suo carnefice, qui le scene madri sono delle fughe disperate da masse indistinte, che culminano in un salto nel vuoto che profuma di catarsi.


Un'altra grande differenza sta nel percorso che porta alla salvezza: non abbiamo più un sentiero solitario di risveglio e riappropriazione del sé, simboleggiato dall'Eletto, ma un percorso condiviso, fatto di affinità elettive. Amor vincit omnia, recitava l'ultimo episodio di Sense8, la serie delle sorelle Wachowski, e anche qui l'amore gioca un ruolo centrale: un amore che non è solo il sentimento tra due persone, ma rappresenta concetti più universali che riecheggiano grandi classici della filosofia (ad esempio il Fedro di Platone) ma anche la storia personale della regista e della sorella: l'unione di maschile e femminile, l'attrazione e la convivenza degli opposti, l'amore e l'accettazione di se stessi. Un amore, dunque, autodiretto ed eterodiretto al tempo stesso, che diventa la scintilla che può ridare dignità a un'umanità sempre più distante, isolata, e solitaria.

Rispetto ai primi capitoli della saga, Resurrections è meno coeso, procede per analogie e associazioni più che in modo lineare. La trama si dipana "a salti" e non si preoccupa di spiegare alcuni passaggi che forse richiederebbero maggiore attenzione, e i livello di lettura sono talmente tanti da rendere quasi necessaria una seconda visione. Se questo era vero anche nel primo capitolo, qui il livello di complessità è nettamente più elevato. Basti pensare ai diversi piani di realtà: due nel primo capitolo (dentro la Matrice/fuori dalla Matrice) quattro e forse più in questo (il modal nel videogioco, il videogioco, e i due già presenti nel primo capitolo). Lana Wachowski non si preoccupa di spiegare nulla (in fondo al link qui sopra trovate un riassunto della trama, nel caso), e gioca con i piani di realtà a suo piacimento, disseminando indizi che fanno continuamente dubitare di ciò che è reale e ciò che non lo è. 

Il risultato è un film divisivo, che colpisce a livello viscerale e non può che suscitare reazioni estreme, amore o odio: chi accetta di scendere nella tana del Bianconiglio, abbandonandosi al flusso di coscienza del film, rimane catturato dal fascino e dalla stratificazione di un film imperfetto ma originale e sincero; chi invece non accetta i salti logici del film lo troverà un vuoto esercizio di stile, un meta-film che denuncia un sistema di cui sceglie di fare parte. Resta, però, un film che riflette appieno la visione della sua regista - una visione a volte disunita, a volte incoerente, ma mai tremebonda o poco coraggiosa. Dividerà, come detto: ma è comunque da vedere.

*** 1/2

Pier

lunedì 3 gennaio 2022

Il Potere del Cane (In pillole #23)

Wild wild Shakespeare


Il potere del cane è un film camaleontico, che gioca fin dalla sua presentazione con le aspettative dello spettatore, divertendosi a sovvertirle. Si presenta come un western, ma ha più debiti con William Shakespeare e con Tennesse Williams che con John Ford, visto come si incentra su sotterfugi, giochi psicologici, ripicche, segreti, tradimenti. Appena pensi di aver capito dove voglia andare a parare, Jane Campion scarta di lato, cambiando direzione, prospettive, e angolazioni. 

I personaggi sono complessi, sfaccettati, lontanissimi dagli stereotipi dell'eroe e del villain del western classico: la brutale mascolinità di Cumberbatch (superbo) viene rivelata in tutta la sua fragilità, così come la mascolinità fragile e remissiva del personaggio di Kodi Smit-McPhee si rivela una maschera che avrebbe reso fiera Lady Macbeth. Tra loro, un imbelle Jesse Plemons, in preda degli eventi, e una Kirsten Dunst che ricorda da vicino la Blanche di Un tram chiamato desiderio, preda di una carenza di autostima forse eccessiva (o comunque non ben caratterizzata e giustificata) e facile preda dell'aggressività predatoria di chi le sta intorno.

Jane Campion realizza quindi un western sui generis, costruito quasi come un thriller, in cui vittime e carnefici si confondono, inseguendosi in una lunga lotta tra gatto e topo. Non tutti gli elementi si integrano alla perfezione, e il messaggio è forse un po' confuso: ma il film funziona a livello viscerale, grazie anche a una fotografia forte ed evocativa, e ci trascina in un universo bucolico e brutale, in cui nessuno è quello che sembra e persino le colline si trasformano in cani rabbiosi.

*** 1/2

Pier