mercoledì 29 dicembre 2021

Don't Look Up

L'onestà è lodata ma muore di freddo


Kate Dibiasky, dottoranda in astrofisica presso l'Università del Michigan, scopre una gigantesca cometa in rotta di collisione con la Terra: l'impatto provocherà l'estinzione del genere umano. Insieme al suo docente, il Dr. Mindy, cerca di avvertire le autorità: nonostante ricevano l'attenzione del Dr. Oglethorpe, responsabile del Planetary Defense Coordination Office, vengono ignorati dalla Presidente degli Stati Uniti e dal suo staff. Si rivolgono allora alla stampa e alla televisione: è l'inizio di un immenso circo mediatico che trasformerà la salvezza dell'umanità nell'ennesimo dibattito da social media, tra sondaggi di gradimento, tweet, e sedicenti esperti da salotto tv.

Dopo la politica shakespeariana di Vice e la satira economica de La grande scommessa, Adam McKay torna alla regia con quello che potrebbe essere visto come una summa del suo cinema, il punto di incontro tra Anchorman e i due film sopracitati: una satira a tutto tondo della società americana, a partire dal suo sistema mediatico fatto di eroi, personaggi, cicli di notizie, in cui non conta cosa si dice, ma come lo si dice e, soprattutto, chi lo dice. Una società dell'apparenza che fa sì che anche la fine del mondo diventi solo una storia come tante, fatta di opportunismo, avidità, protagonismo esasperato. Il sistema mediatico si interseca in un abbraccio mortale con quello politico, dando vita a una tempesta perfetta con una sola vittima: la verità.

Il film sembrerebbe estremizzare la divisione tra "noi" e "loro", con i conservatori e i capitalisti dipinti come personaggi da operetta, dei "cattivi" tanto ridicoli quanto letali, e gli scienziati a fare la parte dei buoni. In superficie, questo è indubbiamente vero: i politici e i giornalisti che vediamo nel film sono delle macchiette, dei tipi più che dei personaggi, caricaturizzati al punto di perdere qualunque credibilità (con qualche eccezione, vedi la scena finale del personaggio di Jonah Hill - un momento in cui la maschera cade e rimane la persona, sola, su un palcoscenico deserto). Gli scienziati, dall'altra parte, sono invece dei personaggi a tutto tondo: conosciamo le loro famiglie, la loro vita privata, le loro nevrosi e il loro passato. 

Tuttavia, uno sguardo più approfondito rivela che McKay non guarda in faccia  a nessuno, e che anche gli scienziati vengono travolti dagli strali della sua satira. Alcuni (il personaggio di Di Caprio) sono convinti di fare del bene, ma non si accorgono (o decidono di ignorare) che la loro partecipazione al circo mediatico non fa altro che contribuire allo svilimento della scienza, ridotta a puro elemento di spettacolo, fatta di personaggi, storie, pettegolezzi - qualcosa di più affine al gossip delle celebrità o al wrestling che al metodo scientifico: un'opinione come tutte le altre. Altri (il personaggio della Lawrence, lo stesso Di Caprio in alcune fasi) dimostrano una totale incapacità - o, forse, volontà - di comunicare correttamente con il pubblico, di instaurare un dialogo fatto di ascolto e di comprensione delle perplessità: questa è la scienza che si chiude nella sua torre d'avorio, ritenendo che l'ascolto da parte dei potenti e del pubblico sia un atto dovuto, un dialogo dall'alto al basso dove lo scienziato spiega, e il pubblico ascolta, come uno studente giudizioso. 


McKay non guarda a questi atteggiamenti con simpatia, come piccoli difetti che rendono più umani i suoi protagonisti, ma come parte integrante del problema: approcci, come ormai sappiamo, destinati al fallimento, e correi del crescente pensiero antiscientifico in molti strati della popolazione. Ce ne è anche per le celebrità: impossibile non vedere nel personaggio interpretato da Ariana Grande una critica, nemmeno troppo bonaria, a quelle star convinte che basti agire da megafono per diffondere il messaggio scientifico, quando invece, spesso, contribuiscono solo al suo ulteriore svilimento. 
Solo una categoria sociale non diviene mai il bersaglio della satira di McKay: il pubblico, la gente comune, che non viene derisa, come ad esempio in Idiocracy, ma presentata come la tragica vittima di una commedia in cui altri ridono sguaiatamente di lei. Don't look up rispetta alla perfezione la regola d'oro della satira fin dai tempi di Giovenale: attaccare chi comanda, non i comandati (punch up, not down, dicono gli anglosassoni).

La sceneggiatura ha momenti brillanti e geniali, ma rallenta troppo nella parte centrale e diventa eccessivamente partigiana nel finale, dopo aver mantenuto un ammirevole equilibrio per gran parte del film: se è indubbiamente vero, infatti, che una parte politica è più propensa a certi atteggiamenti antiscientifici, è anche vero che la sua identificazione così smaccata depotenzia la forza sovversiva della satira erga omnes che caratterizza il resto del film.

Il montaggio ha il ritmo che manca a tratti alla sceneggiatura, e fa sì che il film rimanga comunque sempre godibile e scorrevole. La fotografia predilige i primi piani, concentrandosi sulle espressioni esasperate, sulle maschere grottesche dei protagonisti, e perdendosi raramente nelle profondità del cosmo. Una scelta, questa, che sembra il contraltare visivo della scelta di parte dell'umanità di ignorare la cometa: lo sguardo della macchina da presa rimane fisso a terra esattamente come quello dei protagonisti. Questa concentrazione sull'umano, sulle emozioni esalta anche la splendida prova corale di un cast in stato di grazia, capitanato da Di Caprio (splendido il suo scienziato in bilico tra etica, nevrosi e narcisismo) e Jennifer Lawrence, con Jonah Hill a fare la parte del leone tra i personaggi secondari.

Don't look up è una diagnosi amara dei nostri tempi e della crisi profonda che attraversa il pensiero scientifico, attaccato da nemici interni ed esterni. La satira, tuttavia, è meno efficace che ne La grande scommessa a causa di una sceneggiatura meno riuscita e della scelta di diagnosticare una malattia senza però scavare a fondo nei sintomi né, soprattutto, prescrivere una cura: al termine della visione si ha una chiara percezione del macro-problema e delle sue cause apparenti, ma poche idee sulle cause profonde dello stesso, e nessuna su come sistemare le cose. Forse, per McKay, è troppo tardi: ma dare spazio a coloro che una soluzione ancora la stanno cercando avrebbe potuto arricchire il film anziché farlo scivolare in un brillante, sferzante, ma rassegnato pessimismo.

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Pier

mercoledì 15 dicembre 2021

Spider-Man: No Way Home

Nuove occasioni


Dopo che Mysterio ha svelato a tutto il mondo la sua identità segreta, Peter Parker/Spider-Man vive una vita impossibile, tra media che lo seguono di continuo, indagini federali, e le continue attenzione del pubblico, diviso tra chi lo ammira e chi lo considera un assassino. Quando si rende conto dell'impatto che la situazione sta avendo su MJ, Ned e zia May, Peter pensa di rivolgersi al Dottor Strange, sperando possa risolvere la questione con la sua magia.

Spider-Man: No Way Home è un film che, finalmente, sorprende, uscendo dal seminato dei film Marvel per provare qualcosa di diverso e ambizioso.  Certo, la mutazione non è totale, e rimangono comunque elementi "già visti" o comunque prevedibili per chi conosce il MCU: ma è impossibile non notare la maggiore maturità narrativa di questo nuovo capitolo della saga di Spider-Man.

Fin dall'ultima inquadratura di Far From Home era chiaro che per Peter Parker i giorni della spensieratezza, già messi a dura prova dalla morte del suo mentore Tony Stark, erano definitivamente finiti. Tutti conoscevano la sua identità, ora, e la sua vita privata non sarebbe più stata tale. L'impatto sulle vite dei suoi amici era prevedibile per lo spettatore, mentre il personaggio, nella sua giovanile ingenuità, lo aveva forse sottostimato.

No Way Home compie un altro, enorme passo nel percorso del giovane Peter Parker verso quelle che sono le sue caratteristiche distintive nel fumetto: una grande ironia e parlantina sciolta, certo, ma anche un senso del dovere iper sviluppato, il desiderio di salvare sempre tutto e tutti, un'abnegazione totale verso gli altri che, spesso, sfocia in autonegazione, nell'impossibilità autoimposta di bilanciare le sue vite parallele. Peter Parker, insomma, diventa davvero Spider-Man, ed è impossibile non guardarsi indietro e riconoscere (con un pizzico di ammirazione) la pazienza certosina avuta dalla Marvel nello sviluppare il proprio protagonista: la Home trilogy è, di fatto, una origin story espansa, un'esplorazione della crescita psicologica ed emotiva di un personaggio che da sempre spicca per complessità di motivazioni e dilemmi. Feige e Watts hanno tessuto una tela complessa, rivelandone a poco a poco i dettagli per poi tirarne le fila in questo film ricco di emozioni e colpi di scena. 


Watts riesce a mantenere in equilibrio il nuovo tono, più maturo e riflessivo, con quello scanzonato dei primi due, e lo fa amalgamando con sapienza i vari ingredienti: una sceneggiatura che prosegue "a strappi", accelerando quando deve ma prendendosi i suoi tempi quando serve, accompagnata da una fotografia ipercinetica ma anche capace di soffermarsi su volti, ferite, emozioni; dei personaggi sfaccettati, complessi, onnipotenti ma fragili al tempo stesso; e delle interpretazioni convincenti e stratificate, con Tom Holland che si dimostra all'altezza delle grandi responsabilità che derivano dal suo ruolo, interpretando con efficacia anche quegli aspetti del suo personaggio che finora non erano ancora emersi. Accanto a lui spiccano un'ottima Zendaya, più convincente che in Far From Home, e il Dottor Strange di Benedict Cumberbatch, mentore riottoso, perennemente in sospeso tra arroganza e insicurezza.

L'unica nota stonata sono dei momenti quasi meta-cinematografici, delle parentesi narrative, spesso consistenti in lunghi dialoghi tra i protagonisti, che sembrano più riflessioni/risposte ai fan che elementi effettivamente utili ad avanzare la trama. Per fortuna sono limitati, e la portata emotiva della trama li fa dimenticare in fretta: tuttavia, rallentano e diluiscono un film che sarebbe stato ancora più incisivo con una durata inferiore; la loro presenza stupisce ancora di più vista la grazia e la delicatezza narrativa con cui vengono invece inseriti altri elementi destinati a compiacere i fan.

Spider-Man: No Way Home punta tutto sull'approfondimento dei personaggi e sulla ricchezza emotiva anziché su facili gag, computer grafica e una struttura narrativa di comprovata efficacia ma, alla lunga, ripetitiva. La scelta è vincente, e dà vita a una storia che intrattiene ed emoziona, parlando alla pancia, ma anche al cervello e al cuore, mettendoci di fronte a scelte difficili e svelando quanto, dietro costumi colorati e ipertecnologici, sia difficile e lacerante il percorso di un (super)eroe.

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Pier

domenica 12 dicembre 2021

Nowhere Special (In pillole #22)

Una favola dolceamara


Dopo quel piccolo capolavoro di Still Life, Uberto Pasolini fa di nuovo centro con un film semplice, ma potente, in grado di parlare al cuore dello spettatore senza scivolare nei pietismi cui la storia (un padre morente, John, cerca una nuova famiglia per il figlio, Michael) pur si presterebbe. 

Pasolini racconta questa storia di terribile realismo come una favola, tenendo l'attenzione sul rapporto padre-figlio che è il cuore della vicenda. Un rapporto, quello tra John e Michael, fatto di affetto profondo, complicità, sacrifici: un rapporto vivo, pulsante, raccontato con pulizia e rispetto, senza fronzoli o concessioni a una facile spettacolarizzazione dei sentimenti. 

Nowhere Special è un gioiello, una storia autentica, vibrante, che avvince e convince grazie a una scrittura perfetta e a dei personaggi splendidamente tratteggiati e interpretati. 

Non perdetelo.

**** 1/2

Pier

mercoledì 8 dicembre 2021

Encanto

La favola dei talenti


Mirabel Madrigal vive in una famiglia speciale: grazie a una misteriosa candela magica che ha soccorso la nonna nel momento del bisogno, tutti i suoi membri hanno un dono, un potere eccezionale. Tutti, tranne Mirabel. La ragazza cerca di rendersi utile ma, spesso, finisce per essere d'intralcio - fino a quando, un giorno, la casa (ovviamente magica) dove abitano comincia a mostrare delle inquietanti crepe e la candela rischia di spegnersi. Sarà proprio Mirabel a indagare e a scoprire i molteplici segreti della sua famiglia e della sua storia familiare. Ma sarà sufficiente a salvare tutto ciò che ha di più caro?

Che cos'è un talento? Un'abilità, certo: ma deve anche essere una vocazione - magari l'unica? E quando può diventare una trappola? Queste le domande dal sapore quasi biblico che si pone Encanto, il nuovo classico animato Disney: una favola indirizzata primariamente ai bambini ma con un afflato esistenzialista che parla agli spettatori adulti, spingendoli a interrogarsi sulle loro molteplici identità (lavorativa e personale, pubblica e privata) e su che ruolo giochino nel definire chi sono veramente.

Mirabel è diversa, senza poteri speciali ma, proprio per questo, più libera, portatrice di uno sguardo diverso, della possibilità di decidere chi vuole essere anziché essere costretta in un ruolo che il destino ha scelto per lei. In tal senso è una "donna rinascimentale", poliedrica laddove gli altri membri della sua famiglia sono (sembrano) uniformi, generalista laddove gli altri sono specialisti. Ciò che la accomuna ai suoi cari è la paura - nel suo caso, una certezza - di deludere Abuela Alma. Sarà proprio la sua scoperta della fragilità altrui a farle comprendere la sua missione - la sua vocazione.

Il percorso di Mirabel è costruito con grande maestria, come un giallo, con continue scoperte che diventano pezzi di un puzzle complesso e variegato che solo alla fine, come Sherlock Holmes, rivelerà il colpevole. Il ritmo è in generale elevato, ma il film riesce a concedersi anche dei momenti di riflessione e contemplazione, che contribuiscono ad arricchirne la portata emotiva. 

Il comparto visivo è abbacinante, splendido nella sua complessità, varietà, ricchezza: la stanza di ognuno dei protagonisti è un ecosistema a sé, un'esplosione di creatività che colpisce e fa volare la fantasia. La casa è, di fatto, un personaggio, in grado di muoversi, ascoltare, influenzare gli eventi. La sua animazione è costruita come quella di uno strumento musicale, permettendole quindi di dialogare con i protagonisti e di rifletterne le emozioni. Anche i personaggi sono costruiti alla perfezione, con aspetto e caratteri distintivi che permettono loro di brillare anche all'interno di un cast mai così corale (oltre a Mirabel ci sono di fatto undici co-protagonisti).

Un comparto, tuttavia, brilla ancora di più di quello visivo: quello musicale. Le canzoni scritte e composte da Lil-Manuel Miranda (al suo secondo lavoro disneyano dopo il già splendido Oceania) sono dei piccoli capolavori che riescono allo stesso tempo a perpetuare la tradizione disneyana e a esibire l'innovativa commistione di generi tipica del lavoro di Miranda: ecco quindi la classica happy village song (La famiglia Madrigal) e "la canzone del desiderio" (Un miracolo), ma anche l'irresistibile ritmo di tango di Non si nomina Bruno, la commovente Oroguitas innamoratele sonorità pop di La pressione sale e il rap "hamiltoniano" che fa capolino in Tutti voi

Encanto è un film che fa sognare, ridere, e riflettere, con un bel messaggio sull'accettazione di sé e degli altri accompagnato da una colonna sonora meravigliosa e portato in vita da un'animazione coloratissima e sorprendente. A volte la coesione narrativa viene un po' sacrificata, creando dei cali di tensione che anestetizzano per qualche momento la portata emotiva, ma il film si riprende sempre, creando un meraviglioso mosaico di caratteri, colori, e suoni diversi, eppure perfettamente complementari e necessari l'uno all'altro: come una famiglia.

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Pier