domenica 10 luglio 2016

L'occhio del regista #1 - Wes Anderson

Inauguriamo oggi una nuova rubrica dedicata alle caratteristiche stilistiche dei registi.
La rubrica non si propone di essere un'analisi esaustiva dello stile di ciascuno, ma semplicemente di evidenziare alcune peculiarità (tre, per la precisione) del regista in oggetto.

Cominciamo con Wes Anderson, probabilmente il regista con la più forte impronta visiva tra quelli dell'ultima generazione statunitense.


Tutti questi elementi concorrono a formare un effetto straniante e armonico al senso stesso, funzionale a raccontare quella commedia umana che è uno dei temi centrali della poetica di Anderson. Anderson non racconta vicende, racconta l'umanità nel suo complesso, i suoi sentimenti, le sue relazioni, le sue nevrosi, piccole e grandi. L'uomo è solo un personaggio su un palcoscenico più grande di lui. I suoi personaggi sono tipi umani che si muovono all'interno di un quadro che non comprendono fino in fondo, su cui non hanno alcun controllo ma di cui sono parte integrante, sia a livello narrativo che visivo.

Questo non significa che i personaggi di Anderson siano finti o poco caratterizzati: semplicemente hanno una loro verità universale, "teatrale", indipendente dal luogo e dai fatti narrati. Non a caso, raramente il cinema andersoniano presenta un solo protagonista, ma preferisce affidarsi a un coro di personaggi che rappresentano l'umanità nel suo complesso.
L'unica eccezione è forse Rushmore, dove il protagonista presenta molti tratti di Anderson, a partire dalla sua concezione del rapporto tra teatro e cinema, che qui viene (ironicamente?) ribaltato.




1. Simmetria
Come evidenziato alla perfezione dal videomaker Kogonada, Wes Anderson ha una predilezione per la simmetria visiva, e fa un largo uso di inquadrature perfettamente centrate in verticale. Nonostante molti manuali di regia mettano in guardia contro la simmetria delle inquadrature, che rischia di dare al film un aspetto troppo teatrale, Anderson ha fatto della simmetria il suo marchio di fabbrica.

Di seguito alcuni esempi:

Grand Budapest Hotel

Moonrise Kingdom

E qui il video di Kogonada che ne racchiude molti altri.




2. Caratterizzazione cromatica delle scene
Un'altra caratteristica del cinema di Anderson è la caratterizzazione cromatica delle scene: ogni film è caratterizzato dall'uso di una precisa palette di colori, attorno alla quale vengono costruite le diverse scene.

L'uso di palette ben definite permette ad Anderson di dare un aspetto distintivo e unico non solo ai film, ma anche alle singole scene e ai personaggi, che divengono elementi decorativi tanto quanto la scenografia, enfatizzando ancora una volta la teatralità delle sue scene.
Qui, ad esempio, vediamo due esempi da due diversi film (I Tenenbaum e Fantastic Mr. Fox) in cui Anderson una palette sui toni del giallo e del marrone.



La stessa palette viene ripresa nella splendida scena d'apertura de Il treno per il Darjeeling, durante la folle corsa in Taxi di Bill Murray.


3. Centralità della musica
L'uso della musica è centrale per Wes Anderson come per pochi altri registi. Anderson scrive molte scene pensando alle musiche che le accompagneranno, e vede la musica come un personaggio a se stante, un elemento fondamentale per restituire l'atmosfera della scena, il carattere e l'umore dei personaggi. La musica è quasi un personaggio a se stante, che aumenta la portata emotiva e il messaggio di una scena, assumendo così un'importanza centrale tanto quella della simmetria e del colore (qui trovate un'interessante intervista al supervisore delle musiche di tutti i film di Anderson). Come a teatro, la musica diviene non puro accompagnamento musicale, ma mezzo espressivo per eccellenza, che rafforza l'immagine e ne viene rafforzato: non serve solo a creare un'atmosfera, ma è parte integrante della narrazione, un po' come accadeva per la musica di Ennio Morricone nei film di Sergio Leone.

Un esempio è la già citata scena di apertura de Il Treno per il Darjeeling, con This time tomorrow dei Kinks). Altri due esempi qui sotto, il primo da Moonrise Kingdom, il secondo da Le avventure acquatiche di Steve Zissou, dove le canzoni di David Bowie vengono tradotte in portoghese. In ambedue i casi, la musica è diegetica anziché extradiegeticaviene, cioè, eseguita in scena anziché essere di accompagnamento, diventando così parte integrante della trama.




Simmetria, colore, musica: queste le parole chiave per il cinema di Wes Anderson, fondamentali al fine di creare la cornice per le sue storie, il palcoscenico per il suoi personaggi pieni di nevrosi, fragili eppure poetici, assurdi eppure reali, perfetta rappresentazione del folle e continuo scorrere della vita.

Pier

venerdì 1 luglio 2016

Alla ricerca di Dory


La forza della memoria 


Un anno dopo gli eventi di Alla ricerca di Nemo, Dory vive con Nemo e Marlin sulla barriera corallina. A causa di un piccolo incidente, comincia a ricordare qualcosa del suo passato, e in particolare i suoi genitori. Decide allora di andarli a cercare, imbarcandosi in un’altra avventura in giro per l’oceano, alla ricerca della sua memoria e di se stessa.

Sono passati 13 anni da Alla ricerca di Nemo: chi era bambino allora è ormai diventato adulto, e l’animazione in computer grafica ha fatto passi da gigante, facendo “invecchiare” alcune soluzioni che al tempo sembrarono rivoluzionarie. Ci sarebbero quindi tutti gli elementi per dire che questo sequel arriva fuori tempo massimo, e che sembra più guidato da considerazioni commerciali (al netto di inflazione e sovrapprezzo 3D, Alla ricerca di Nemo è il film che ha incassato di più nella storia della Pixar) che artistiche, con tutti i rischi che questo comporta. Queste impressioni, tuttavia, vengono subito fugate fin dall’inizio del film: Andrew Stanton è tornato a occuparsi dei suoi personaggi perché aveva qualcosa di nuovo da dire, sia a livello narrativo che a livello visivo. Così, se Alla ricerca di Nemo raccontava il complesso rapporto tra padre e figlio e la necessità per i genitori di “lasciar andare” i propri figli, Alla ricerca di Dory si occupa di un tema ben più complesso: quello della memoria. Qui sta il primo colpo di genio di Stanton e compagni: prendere una caratteristica (la perdita di memoria a breve termine) che nel primo film faceva di Dory la spalla comica perfetta e farla diventare il motore dell’azione drammatica, in grado di conferire al personaggio quella gravitas e motivazione necessarie a farne la protagonista. Dory acquisisce così uno spessore drammatico sconosciuto ad altre spalle comiche divenute protagoniste (basti pensare ai Minions, o al Gatto con gli Stivali), senza per questo rinunciare alla sua irresistibile comicità dell’assurdo, tra dialoghi in balenese e geniale ingenuità. Il film racconta dunque il commovente viaggio della protagonista alla riconquista della memoria e di se stessa, ricostruendo il suo passato così come Pollicino ritrovava la strada di casa, sfruttando le poche briciole rimaste nel suo cervello e in giro per l’oceano.

La seconda innovazione narrativa del film rispetto all’originale sta nell’evoluzione della protagonista. Laddove in molti film Pixar e Disney l’eroe deve affrontare un percorso che lo porterà a cambiare la sua visione del mondo, qui accade esattamente l’opposto: è la visione del mondo di Dory, incapace per natura di concepire piani e di pensare razionalmente, che le permette di cavarsela nelle difficoltà e riconquistare la sua memoria senza per questo cambiare se stessa. Sono quelli intorno a loro a cambiare, toccati dall’eccezionalità di Dory, in un’evoluzione del racconto che ricorda più quello di film come Forrest Gump che di altri film d’animazione. “Che cosa farebbe Dory?” diventa la bussola di riferimento di tutti i personaggi del film, che si trovano a dover affrontare rocamboleschi inseguimenti in oceani, acquari, e persino in autostrada, sfidando se stessi e la propria visione del mondo.

Se dal punto di vista narrativo il film riesce a distaccarsi dal predecessore, a livello visivo alcune sensazioni di già visto sono inevitabili, e derivano più dalle caratteristiche del medium animazione che dal film stesso: l’aspetto dell’oceano non può essere diverso da quello del primo film, così come il design dei personaggi già visti. Tuttavia, Stanton non rinuncia alla sperimentazione, sia usando tecniche di ripresa per lui nuove (la ripresa in soggettiva e in piano sequenza, già usata da Bird in Ratatouille), sia lavorando su luci e atmosfere più cupe, soprattutto nelle scene in cui Dory si ritrova da sola e “persa”, sia lavorando su nuovi fondali e prospettive (le alghe del porto, le vasche dell’acquario). I nuovi personaggi funzionano abbastanza bene, con il polipo misantropo Hank che spicca per caratterizzazione sia visiva che narrativa, e i leoni marini che offrono i migliori momenti comici del film (a questo proposito, non perdetevi la scena dopo i titoli di coda).

Alla ricerca di Dory è un film ben narrato e animato splendidamente, in quanto riesce a trattare un complesso come il rapporto tra identità e memoria senza perdere di vista la comicità e l’azione, risultando così una felice rivisitazione di un universo già conosciuto, piuttosto che una frusta ripetizione delle stesse situazioni e delle stesse gag, come ormai capita sempre più spesso nei sequel d’animazione.

****

Pier