martedì 19 novembre 2019

L'ufficiale e la spia

La forza della Storia 



Parigi, 1895. Georges Picquart, un ufficiale dell'esercito francese, assiste alla pubblica condanna e all'umiliante degradazione inflitta ad Alfred Dreyfus, un capitano ebreo, accusato aver passato segreti militari ai nemici tedeschi. Il caso sembra archiviato, ma Picquart, promosso a capo del controspionaggio militare, si accorge che il passaggio di informazioni al nemico sta continuando. Questo lo porta a interrogarsi sulla reale colpevolezza di Dreyfus.

Il concetto della storia che si ripete non è certo nuovo, e non è un caso che in questi anni di tumulti e crisi sociali il genere storico sia tornato prepotentemente alla ribalta, affermandosi come un'utile lente attraverso cui guardare al presente e cercare soluzioni.
Raramente, tuttavia, questo tipo di operazione è stato affrontato con il rigore e la portata emotiva di J'accuse (titolo quantomai evocativo tradotto con lo scipito L'ufficiale e la spia in Italia). Polanski porta al cinema la storia del caso Dreyfus, pienamente conscio degli inquietanti richiami al presente, e in particolare al ruolo chiave di processi mediatici e macchine del fango nel modellare l'opinione pubblica. La scelta di focalizzarsi su Georges Picquart, l'ufficiale che fece emergere lo scandalo rivelando la montatura ai danni di Dreyfus, non è casuale: in un'epoca in cui chi si batte per la verità è messo a tacere, tenuto sotto sorveglianza, o costretto all'esilio, la storia di Picquart è quantomai attuale, il suo esempio quantomai fonte di ispirazione.

Polanski disseziona il caso con piglio chirurgico, senza concedere nulla né alla spettacolarizzazione della tragedia, né all'agiografia: Picquart era antisemita, e il regista racconta senza censure questo aspetto del suo "eroe", sottolineando anzi come la sua rettitudine sia proprio nell'aver ricercato la verità a dispetto delle sue convinzioni - un'altra attività per nulla scontata in un'epoca in cui il bias di conferma è sempre più esasperato, e anche le inchieste giornalistiche sembrano "colorate" dal credo politico. La storia si dipana con ritmo serrato, prendendosi i tempi necessari, accelerando quando gli eventi precitipano e rallentando durante i numerosi momenti di stasi di un caso e di un processo (anzi: di molteplici processi) che si dipanò per oltre dieci anni.

La clinicità dello sguardo del regista si riflette sia nella fotografia, desaturata e fredda, che ben restituisce l'occhio di un cronista che si trova a raccontare questi eventi, sia nell'interpretazione degli attori protagonisti. Jean Dujardin è perfetto nel ruolo del rigido ma carismatico Picquart, e un irriconoscibile Louis Garrel è magistrale nel rendere l'evoluzione di Dreyfus: dapprima orgoglioso al punto di essere sprezzante, quasi odioso, gli anni di prigionia, disonore e tortura psicologica arriveranno lentamente a piegarne il corpo e lo spirito, trasformandolo in un uomo sconfitto anche nel momento della redenzione.

Il film soffre solo per un'eccessiva lunghezza e una storia d'amore inutile e appiccicata a forza su una storia già complessa, e che risulta quindi un corpo estraneo che rallenta l'andamento del film anziché arricchirlo. Un vero peccato, dato il rigore compositivo di un'opera che ha proprio nel trionfo della ragione sul sentimento e sul pregiudizio uno dei suoi messaggi chiave.

Impossibile, infine, non vedere in questo film un parallelo con le vicende private del regista, vittima anche a Venezia delle polemiche legate alla violenza sessuale da lui commessa nel 1977, e per la quale è ancora ricercato dalla polizia statunitense. Attraverso la storia di Dreyfus, e soprattutto attraverso il primo scambio tra lui e Picquart, Polanski sembra chiedere al mondo di essere giudicato solo per la sua arte, separando l'uomo dalla sua opera. Una questione vecchia come il mondo, che riemerge periodicamente nella storia e nella critica artistica, e alla quale forse non riusciremo mai a dare una risposta univoca.

Al netto delle letture biografiche sul suo regista, L'ufficiale e la spia resta un film di rara potenza e rigore, che centra in pieno il suo bersaglio e costringe lo spettatore a una profonda riflessione sul valore dell'etica professionale e su come sia facile deformare la verità fino a seppellirla.

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Pier

domenica 10 novembre 2019

The Irishman

Quando bruciavamo di vita


Frank Sheeran è un anziano che vive in casa di riposo che si trova a ripercorrere la sua vita, a partire da quando, da autista di camion, per una serie di coincidenze finisce per lavorare per Russell Bufalino, boss della mafia a Filadelfia. Sarà l'inizio di un'amicizia, ma anche di una collaborazione che porterà Frank a contatto con alcune figure chiave della storia statunitense, tra cui spicca quella di Jimmy Hoffa, il capo del sindacato dei camionisti, a quei tempi più popolare di Elvis e dei Beatles.

Cosa significa fare i conti con la propria vita? Se lo chiede Frank Sheeran, il protagonista di The Irishman, ma sembra chiederselo anche Martin Scorsese, che gira un film in cui il ricordo e il passato sono assoluti protagonisti, e il presente è pallido comprimario. Il passato è vibrante di vita e di energia, il presente è scolorito, esausto; il passato è il momento in cui si è fatta la storia, in cui addirittura si è stati al centro della Storia, anche se non necessariamente dalla parte giusta; il presente è fatto di abbandono, solitudine, perifericità umana e sociale.

La scena di apertura ci presenta Frank, narratore forse inattendibile - non è importante - dopo averci portato a passeggio nei corridoi della casa di riposo dove vive. Frank rompe la quarta parete e sfonda le pareti della casa con i suoi ricordi, portandoci a passeggio per la sua vita spesa al servizio della mafia italoamericana di Philadelphia. Il film segue il filo delle sue memorie, muovendosi in direzioni sempre imprevedibili, alternando toni completamente diversi anche all'interno della stessa scena, vagando tra piani temporali e spaziali diversi, confuso eppure coerente come solo i ricordi sanno essere.

Scorsese abbandona i toni ipercinetici e adrenalici che contraddistinguono il suo cinema, soprattutto quello che si focalizza su malavitosi di diversa caratura, e adotta un tono nostalgico, struggente, quasi proustiano, in cui ciò che conta non è che ciò che si è fatto ma ciò che non si è fatto e non si ha avuto il coraggio di fare. L'azione viene spesso dilatata o addirittura nascosta, negata: ai ritmi frenetici si sostituisce il lento incedere dello sguardo (tante le inquadrature in soggettiva, tanti i piani sequenza) e del ricordo, che vaga a ritroso senza una meta precisa, alla ricerca di qualcosa di indefinito ma che si sa di aver perduto. Lo sguardo si distoglie dalla carneficina, anziché abbracciarla ed esaltarla come in Quei bravi ragazzi o altre pietre miliari del cinema scorsesiano, preferendo concentrarsi su sguardi, espressioni, situazioni. La scena si svuota di epica e si riempie di dialoghi esilaranti, silenzi, momenti quasi profetici, in cui il protagonista, ormai condannato dalla vita, cerca di trovare ex post un senso in azioni che forse un senso non lo hanno mai avuto.


Man mano che il film procede, l'azione viene progressivamente tolta dalle mani degli uomini e diviene destino ineluttabile, in un lento incedere da tragedia greca che culmina in una devastante solitudine. Frank è Edipo, giovane pieno di vita costretto a uccidere il padre, e che si ritrova a morire in un'oscura periferia, solo e menomato, lontano dalla famiglia e dagli amici.
Frank non è solo in questa tragedia, ma è semplicemente la storia che Scorsese ha deciso di raccontarci, il simbolo di un'intera categoria, forse di un intero paese, come ben esemplificato dalla magistrale scena delle bocce in prigione, perfetto ritratto della decadenza umana e della transitorietà della gloria, della gioia, della vita.

De Niro porta magistralmente in scena un Frank enigmatico, il cui volto spesso esprime ciò che le parole non sanno e non vogliono dire, artefice degli eventi e al tempo stesso loro vittima, trascinato in un vortice di lealtà cui non può davvero appartenere fino in fondo. Per aiutare la Famiglia sacrifica la sua famiglia, dalle figlie alla moglie, fino all'amico Jimmy Hoffa, interpretato da un Pacino mai così affabile e abile nel tenere sotto controllo la sua irresistibile gigioneria. A brillare tra i comprimari, però, è un Joe Pesci in tono solo apparentemente minore: il suo Russell Bufalino è un gentiluomo decaduto, raccolto, silenzioso, che sembra quasi avulso dal mondo di eccessi in cui si ritrova ad operare.

Sullo sfondo dei ricordi di Frank si muove l'America, tra storia ufficiale e storia sotterranea, in cui ogni evento che conosciamo, dalla Baia dei Porci alla morte di Kennedy sembra in qualche modo collegata alla mafia. Attraverso gli occhi e la narrazione di Frank, Scorsese arriva addirittura a ribaltare questo parallelismo, rendendo la storia "mafiosa" più vera e vibrante di quella reale, pallida eco degli eventi che attraversano le vite dei vari Bufalino, Salerno, e Jimmy Hoffa. Con l'afflato che solo i grandi film come C'era una volta in America Il dottor Zivago posseggono, il film racconta anche un intero paese e un'intera generazione, mettendone a nudo le contraddizioni e stracciandone il velo superficiale di felicità materiale per rivelarne la desolazione spirituale.

Come Tarantino con C'era una volta a Hollywood (curioso siano usciti nello stesso anno)Scorsese realizza un film che è anche una summa del suo lavoro, un testamento artistico permeato dalla sua impronta autoriale e dalla sua visione del cinema. Come C'era una volta a HollywoodThe Irishman è un film che non ha paura di essere uno, nessuno, e centomila, di giocare con i generi e le aspettative, né di prendersi i tempi necessari per raccontare la sua storia esattamente come vuole raccontarla 1.

Ma laddove Tarantino esorcizza nostalgia e perdita con uno scarto fantastico che reclama il diritto al sogno e alla vita, Scorsese abbraccia queste emozioni, realizzando un film che segna la fine di un'epoca e di un certo modo di fare cinema, ma segna anche l'inizio di una nuova: The Irishman è un film vibrante di vita, ma di una vita passata, lontana, nostalgica, e finisce quindi per raccontare la fine di questa vita, che è anche fine di un certo modo di essere, di pensare, di fare (settima) arte.
Se Tarantino si rifiuta donchisciottescamente di voltare pagina e leggere la parola "fine", Scorsese chiude il libro, e lo fa con una potenza devastante, un pugno allo stomaco che spiazza e sconvolge ma che, ne siamo certi, apre anche una nuova pagina nel suo cinema.

The Irishman è, senza ombra di dubbio un capolavoro, e un inno alla bellezza e alla varietà del cinema. Guardatelo, assaporatelo, godetevelo (se possibile al cinema). Per una volta si può davvero dire: di film così non ne fanno più.

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Pier

1: e qui andiamo controcorrente rispetto ai miopi critici ed esercenti nostrani, e riconosciamo che, senza la libertà pressoché totale concessa da Netflix, un film del genere non si sarebbe probabilmente mai fatto. Quando capiremo che la morte (sempre annunciata, mai definitiva) della sala non è causata da Netflix sarà sempre troppo tardi.