martedì 10 settembre 2019

C'era una volta a... Hollywood

Il coraggio di sperimentare



Los Angeles, 1969. Le strade di tre personaggi molto diversi tra loro si incrociano in una Hollywood in preda alla rivoluzione hippie: Rick Dalton, star della televisione in declino, che si barcamena tra varie parti per mantenere il suo stile di vita; Cliff Booth, stuntman di Rick e suo tuttofare, che a Hollywood ci va solo per lavorare; e Sharon Tate, attrice sulla cresta dell'onda e moglie del regista più cool del momento, Roman Polanski. Le loro storie si incrociano, si sfiorano, si inseguono, mentre Hollywood, come la bella addormentata, sta per essere risvegliata dal suo sogno dorato.

Pochi registi negli ultimi decenni hanno saputo crearsi uno stile distintivo come Quentin Tarantino: i suoi film sono immediatamente riconoscibili grazie a un mix di azione scoppiettante, dialoghi fulminanti e personaggi tanto idiosincratici quanto indimenticabili. A livello estetico, Tarantino ha sempre privilegiato una fotografia iper curata e un montaggio ritmato quasi quanto i suoi dialoghi, con continui cambi di prospettiva, sguardo, focus di attenzione 1.

Con C'era una volta a... Hollywood, Tarantino spariglia le carte, dimostrando un coraggio non comune e sperimentando senza paura con nuovi linguaggi, tematiche e modalità espressive.
L'evoluzione del suo stile da Inglorious Basterds C'era una volta a... Hollywood ricorda quella di Sergio Leone tra la trilogia del dollaro e i due C'era una volta...: si passa da un ritmo forsennato a uno rallentato, contemplativo, quasi onirico, che ci immerge in una Hollywood in cui l'estate sembra infinita, le star sono divinità scese in terra, e anche i comprimari sembrano usciti da un sogno a occhi aperti. Questo si riflette sia nella struttura testuale che in quella visiva: i dialoghi sono più rarefatti e riflessivi, le scene più lunghe e insistite, inframmezzate da flashback (uno strumento narrativo solitamente poco utilizzato dal regista del Tennessee), digressioni, e momenti musicali. Le inquadrature sono più lunghe, ampie, fatte di carrellate infinite e panoramiche mozzafiato, e si concentrano più sul paesaggio e le atmosfere che sui personaggi; la musica è onnipresente, e non usata strategicamente come solitamente accade nei film di Tarantino, e diventa un tappeto sonoro che è parte integrante dell'ambientazione, della città, e dell'epoca.


All'interno di questa cornice contemplativa si inseriscono, come mine nascoste in un campo di grano, delle scene meravigliosamente tarantiniane, la cui energia esplode e riverbera con maggior vigore proprio in virtù della calma che le ha precedute: la scena con Bruce Lee è meravigliosa per ironia e dialoghi, e la visita di Cliff al ranch dove vive la Manson family è un piccolo capolavoro, in cui Tarantino dimostra la sua padronanza assoluta di diversi generi. È però nella prima parte dello splendido finale che Tarantino spara le sue cartucce migliori, realizzando una sequenza destinata a diventare di culto.

Tarantino integra queste due anime alla perfezione, dimostrando, se ancora ce ne fosse bisogno, di essere un affabulatore visivo senza eguali, un artista della mise en scene, capace come pochi altri di raccontare storie per immagini - immagini di una purezza cristallina, quasi accecante, in cui ogni dettaglio nasconde un mondo, un ricordo, un'emozione.

L'alternarsi di atmosfere e toni così diversi ricorda quelli della fiaba, in cui tutto segue una logica invisibile che è al servizio dell'insegnamento e della morale. C'era una volta a... Hollywood è una fiaba moderna intrisa di nostalgia e amore per un mondo che non c'è più, ma soprattutto per gli eroi silenziosi che quel mondo hanno contribuito a costruire, i cavalieri senza macchia e senza paura che rimangono sullo sfondo, mentre altri si prendono le luci della ribaltà. Non è un caso che il Cliff Booth di Brad Pitt brilli più del pur ottimo Rick Dalton di Leonardo Di Caprio: Cliff è l'anima del film, colui che ne tiene insieme i diversi fili narrativi e che li riannoderà, non del tutto consapevolmente, fino a farli incontrare. Pitt è semplicemente perfetto nella parte, e finisce per oscurare i pur ottimi Di Caprio e Margot Robbie, mai così affascinante, perfetta e luminosa incarnazione del sogno hollywoodiano. Ed è proprio questo sogno il vero protagonista del film: Tarantino ci presenta una Hollywood del 1969 più vera del vero, viva, vibrante, che sembra quasi strabordare dalle inquadrature, come se uno schermo non fosse sufficiente a trattenerne l'energia.

Con C'era una volta a... Hollywood, Tarantino dimostra il coraggio creativo dei grandi artisti, realizzando un film nuovo, diverso, imperfetto come solo il grande cinema sa essere; un film che sa rinunciare ai momenti che lo renderebbero più facile da apprezzare e "cool" per cercare la bellezza e il divertimento in luoghi nuovi e inesplorati; il film meno "tarantiano" del suo cinema e, al tempo stesso, quello che ne è la celebrazione e la perfetta sintesi. Non perdetelo.

**** 1/2

Pier

1: valga, come esempio, questa scena solo apparentemente statica di Inglorious Basterds, caratterizzata da continui stacchi di montaggio.

domenica 8 settembre 2019

Joker

Risate di dolore



Arthur Fleck lavora come clown per un’agenzia. È affetto da sindrome pseudobulbare, che gli causa risate incontrollate, e da una grave forma di depressione che cerca di tenere a freno concentrandosi sul suo lavoro. Vive ancora con la madre, che ama molto e che gli ha insegnato il motto che guida le sue giornate: affrontare la vita con una faccia felice. Nel giro di pochi giorni, però, Arthur subisce due violenti soprusi che intaccano la sua fragile psiche, precipitandolo in una spirale autodistruttiva che lo porterà a scoprire nuove, inquietanti cose sul suo passato e su se stesso.

Che cos’è la follia? Molti grandi artisti hanno cercato di dare una risposta a questa domanda. Letteratura, teatro, musica, cinema: il tema è stato sviscerato in mille modi e attraverso mille storie e personaggi, ma senza mai trovare una vera risposta. Nessun personaggio, tuttavia, ha mai messo in crisi questa domanda come il Joker, l’iconico villain di Batman. Che sia nell’incarnazione di Jack Nicholson, o in quella più recente di Heath Ledger, Joker ha sempre sfidato il concetto stesso di follia, ribaltando il tavolo e chiedendo allo stordito intervistatore: chi stabilisce cosa sia normale e cosa sia a-normale, senza normalità, fuori dall’ordinario?

Tuttavia, nessuna versione cinematografica del Joker, nessun film precedente era arrivato tanto vicino a cogliere l’essenza della follia come il Joker di Todd Phillips, usandola per creare un ritratto spietato della società contemporanea. Una società che finge di incoraggiare la diversità ma in realtà la ripudia; in cui chi è davvero diverso viene nascosto, sepolto vivo lontano dai nostri occhi e dalle nostre menti, spesso senza alcuna speranza di riscatto; in cui chi per sbaglio riesce a riemergere dall’oscuro pertugio in cui lo avevamo cacciato lo fa solo per essere deriso, umiliato, e rimandato a suon di risate sul fondo dell’abisso, dove è giusto che stia. Perché, in fondo, la società la pensa come Thomas Wayne: se ti ritrovi a vivere in una periferia marcia e pestilenziale, distopica e al tempo stesso terribilmente reale, è sicuramente colpa tua.


E quindi, chi è davvero il folle? Attraverso la storia di Arthur Fleck, Todd Phillips ci risbatte in faccia la domanda con una violenza necessaria, che ci costringe a guardare alla sperequazione sociale degli Stati Uniti e del mondo. È colui che viene marginalizzato per via di una malattia e di una depressione causate da una vita di soprusi? O è colui che, come Thomas Wayne, pensa che l’attuale struttura sociale sia giusta ed equa? La parabola di Arthur Fleck non è (solo) quella di una progressiva discesa negli abissi della ragione, ma è una ribellione come quella del Travis Bickle di Taxi Driver, un altro reietto respinto dalla società che realizza attraverso le sue azioni “a-morali” di non essere solo nel suo dolore, nella sua frustrazione, nella sua sorda disperazione.

La storia di Arthur cessa di essere (solo) la origin story di un villain dei fumetti per diventare una storia universale che costringe con violenza lo spettatore a prendere coscienza delle iniquità del mondo, del tradimento degli affetti più stretti, della sordità dello Stato di fronte alle difficoltà dei suoi cittadini: in una parola, delle cause della rabbia che fermenta e brucia nella società odierna, un mondo “impazzito”, come dice Arthur, dove deridere, calpestare il tuo vicino più debole è visto come normale e persino divertente, almeno fino a quando il debole non diventi tu, come nella mirabile scena della metropolitana. Il Joker è l’unico a cogliere una verità che ci viene dalla Grecia classica: commedia e tragedia sono due facce di una stessa medaglia, ambedue essenziali per poter raggiungere o quantomeno aspirare a una vera catarsi.

Phillips dirige questo magma di emozioni e significati con mano sicura, ispirandosi al Batman di Nolan ma soprattutto al Martin Scorsese di Taxi Driver, Re per una notte (non è un caso la presenza di Robert De Niro nella parte di Murray Franklin) e Mean Streets, creando un’atmosfera da noir metropolitano, con una Gotham City mai così realistica, sporca, senza speranza, talmente viva che lo spettatore percepisce il sudore, il sudiciume, la puzza in cui sono sprofondati i protagonisti. Da questa materia quasi scatologica Phillips riesce però a ricavare immagini di rara bellezza, sfondi perfetti per la danza delirante ed estatica del Joker, la cui frenesia cresce fino ad esplodere in sequenze finali mozzafiato per capacità emotiva e filmica.


Phillips, contrariamente ad alcune critiche infondate e superficiali lette in questi giorni, riesce anche a evitare la trappola dell'assoluzione della violenza, in particolare di quella (verbale e fisica) perpetrata dai cosiddetti incels (uomini bianchi che pensano di essere "forzatamente" single e si sentono esclusi dalla società). Arthur non è, infatti, un incel, e la cosa è talmente chiara che non dovrebbe nemmeno richiedere una spiegazione. Non è un uomo che si sente escluso dalla società e che la incolpa per i suoi insuccessi, ma un uomo malato, in cura farmacologica e psicologica per una grave forma di depressione e per la sua sindrome pseudobulbare. Non pensa di essere un grande comico, né che il mondo sbagli a non riconoscere la sua grandezza: la standup comedy è il suo modo di connettersi con un'umanità che non capisce (come è evidente dagli appunti che prende durante le esibizioni di altri comici), di sentirsi meno isolato, di entrare in contatto con la gente. Non sogna di essere invitato al Murray Franklin show, ma una figura paterna che lo apprezzi, e che lui identifica in Murray, unico compagno delle sue serate solitarie: la scena onirica è in tal senso chiarissima, e non lascia spazio a interpretazioni capziose come quelle lette in questi giorni.

La sua involuzione, infine, non dipende da una donna che lo respinge, ma dall'ennesima umiliazione gratuita subita, un'umiliazione non cercata, frutto di quella cultura avida di video e immagini da mettere alla berlina, spernacchiare, che trasforma un momento felice in una distruzione della dignità individuale; una cultura che nasce in televisione, ma è esplosa nell'era dei social media anche grazie agli stessi incels, pronti a dileggiare chiunque "ci provi", quasi fosse colpevole di lesa maestà nei confronti della loro autocommiserazione; una cultura, infine, perpetrata anche da quei membri delle elites che vedono nell'ignoranza un motivo di dileggio anziché un nemico da sconfiggere, nella povertà crescente una colpa anziché un problema collettivo. Di questa cultura fanno parte anche coloro che hanno criticato il film per questi motivi capziosi: personaggi che non vogliono ascoltare i campannelli d'allarme, che additano coloro che sottolineano il problema (come Joker) come delle Cassandre in cerca di attenzione e facile consenso; personaggi che, in sintesi, continuano a sostenere che il termometro sia la causa della febbre.


Al centro del film c’è la prova trascendente di Joaquin Phoenix: il suo Arthur/Joker è tutto e niente al tempo stesso, un personaggio comico e tragico, in cui la risata si fa dolore insopportabile e il corpo diviene semplicemente un veicolo per la mania (da Dioniso a Loki, la follia è sempre divina) che scatena l’incenerimento del vecchio che è necessario alla nascita del nuovo. Il suo corpo si piega, si contorce, si deforma, squassato da una risata incontrollabile che diventa cieco urlo di dolore e di frustrazione per non avere il pieno controllo del proprio corpo e della propria vita, una richiesta d'aiuto disperata e lacerante: raramente si è vista una tale capacità di comunicare una molteplicità e complessità di emozioni con un solo sguardo, una sola frase, un solo movimento di un corpo martoriato, perfetta riflessione della mente del protagonista. Phoenix si fa interprete non solo di un personaggio, ma di un’intera categoria sociale, e regala un’interpretazione che rimarrà nella storia del cinema.

Joker non è il miglior cinecomic di sempre semplicemente perché non è (solo) un cinecomic: non è un film sui fumetti, ma un film che, senza rinnegare le sue origini, parte dai fumetti per parlare della società di oggi e della realtà, senza avere paura di esporne le ferite purulente. È un film vibrante, vivo, necessario, che mette a disagio a ogni inquadratura e lascia lo spettatore con più domande che risposte: è, in due parole, grande cinema.

*****

Pier

NB: Parte di questa recensione è già stata pubblicata dallo stesso autore su Nonsolocinema.

sabato 7 settembre 2019

Venezia 2019 - Il Totoleone

E anche quest'anno la Mostra del Cinema giunge al termine (qui trovate tutti i Telegrammi di questa edizione): la zona del Palazzo del Cinema comincia a somigliare a uno scenario post-atomico, i giornalisti bivaccano in spiaggia in attesa del fatale annuncio, e le maschere tirano un sospiro di sollievo, liete di potersi finalmente liberare di seccatori vari ed eventuali, tra i quali chi scrive.

È stata una Mostra con pochi picchi, sia in positivo che in negativo, con due fils rouges che hanno attraversato tutto il Concorso: il primo è quello del guardare alla Storia (J'accuse, Martin Eden, Il sindaco del rione sanità, No 7 Cherry Lane, A Herdade, The painted Bird) o al fantastico (JokerWelcome to the Barbarians) per capire le atrocità del mondo odierno; il secondo è quello della verità, della relatività e fragilità di memoria, ricordi, reputazioni, impressioni (La vérité, Ema, Guest of Honour, Marriage Story). Una Mostra, dunque, che si è nutrita dei temi che appassionano il dibattito contemporaneo e li ha arricchiti di nuove sensazioni, emozioni, e riflessioni.

Di seguito i pronostici, quasi sicuramente sbagliati, per il Leone d'Oro e gli altri premi, corredati come sempre dalle mie preferenze personali.


Premio Mastroianni per il miglior attore emergente
Molti gli attori e le attrici giovani o comunque poco conosciuti presenti in Concorso, in una Mostra che ha molto guardato ai giovani e ai loro tentativi di trovare un posto nel mondo. Tra tutti sembrano essersi distinti Petr Kotar (The Painted Bird) e Mariana Di Girolamo, carismatica protagonista di Ema. Vista la giovanissima età di Kotar, Di Girolamo sembra essere la favorita, e a lei va anche la nostra preferenza personale.
PronosticoMariana Di Girolamo, Ema
Scelta personaleMariana Di Girolamo, Ema

Coppa Volpi maschile
Joaquin Phoenix. Punto, e a capo. Qualunque altro verdetto, nonostante la bravura di Luca Marinelli (Martin Eden) e Jean Dujardin (J'accuse) sarebbe uno scandalo: troppo trascendente la sua interpretazione in Joker per non essere premiata. Ammetteremmo un'eccezione solo nel caso in cui Joker dovesse aggiudicarsi il Leone d'Oro, dato che il regolamento impedisce che il vincitore del Leone si aggiudichi anche altri premi.
PronosticoJoaquin Phoenix, Joker
Scelta personaleJoaquin Phoenix, Joker

Coppa Volpi femminile 
La sfida quest'anno è molto agguerrita, più per mancanza di candidate decisamente superiori che per la presenza di performance indimenticabili. L'unica a essere tale è quella di Catherine Deneuve, che in La Vérité si divora chiunque osi solo avvicinarsi con una prova sublime per bilanciamento di crudele ironia ed emozionate fragilità. Su di lei ricadono sia il nostro pronostico che la nostra scelta personale.

Pronostico: Catherine Deneuve, La Vérité
Scelta personale: Catherine Deneuve, La Vérité

Gran Premio della Giuria 
Pronostico quasi impossibile, data l'oggettiva vicinanza dei film in corsa. Marriage Story è piaciuto molto a pubblico e critica, ma è forse troppo "classico" per aggiudicarsi questo premio, così come J'accuse di Roman Polanski. La nostra scelta ricadrebbe su Martin Eden, per il coraggio dimostrato in un sistema incancrenito come quello italiano, ma potrebbe essere Ema, travolgente e visionaria opera di Larrain (che pur non rientra tra i nostri preferiti), a strappare la vittoria, forte della fotografia più ispirata del Concorso e di una visione artistica solida e ancorata in un tema molto attuale.
Pronostico: Ema
Scelta personale: Martin Eden

Leone d'Argento (Miglior Regia) 
Qui la scelta dovrebbe naturalmente ricadere su Roman Polanski: per quanto il suo film sia molto (forse troppo) classico, è indubbiamente quello visto alla Mostra in cui tutte le parti sono perfettamente coordinate e volte alla realizzazione di un unicum artistico di grande impatto e attualità. Le parole della presidentessa della giuria, Lucrecia Martel, sembrano rendere impossibile un premio per Polanski, ma noi vogliamo credere alla buona fede della presidentessa e, soprattutto, all'integrità della giuria, che non può rimanere indifferente. Diamo loro l'esempio facendo ricadere la nostra scelta personale su Marriage Story, firmata da quel Noah Baumbach di solito detestato da chi scrive, e che invece firma qui un'opera intima e commovente.
Pronostico: Roman Polanski, J'accuse
Scelta personale: Noah Baumbach, Marriage Story

Leone d'Oro 
Sfida davvero accesa e incerta: manca un chiaro favorito, e letteralmente qualunque film del concorso potrebbe aggiudicarsi l'ambito premio. La nostra scelta personale ricade sul Joker, letteralmente folgorante, ma dubitiamo che la giuria decida di premiarlo. La sensibilità multiculturale della giuria potrebbe essere toccata da film più universali , come la madeleine filmica di No 7 Cherry Lane, la fine del matrimonio di Marriage story, e la meditazione sull'esistenza di About endlessness; o più ancorati nel presente, come Ema, Waiting for the barbarians, The perfect candidate, e Babyteeth. Questi ultimi non sembrano aver riscosso particolare favore da parte della critica. Puntiamo su Barbarians, con Marriage story appena dietro.
PronosticoWelcome to the barbarians
Scelta personaleJoker

È tutto anche per quest'anno, ci risentiamo per l'edizione 2020.

Pier


venerdì 6 settembre 2019

Telegrammi da Venezia 2019 - #4

Ultimo telegramma da Venezia, con gli ultimi film del Concorso, alcune belle sorprese nelle sezioni collaterali, e qualche inevitabile delusione.

A più tardi per il Totoleone!


Guest of honour (Concorso), voto 6.5. Dopo l'ispirato Remember, Egoyan torna a Venezia con un'altra storia sulla relatività della verità e della memoria, concentrandosi questa volta sul concetto di reputazione. Un impiegato dell'ufficio di igiene, che ha il potere di togliere la reputazione ai ristoranti con il suo giudizio, si trova a dover indagare per difendere la reputazione della figlia. L'indagine si trasforma in un viaggio della memoria. Egoyan rivela la verità a poco a poco, come i pezzi di un puzzle: il gioco funziona e intrattiene, grazie anche all'ottima prova degli attori, ma sa di già visto, e finisce per attutire la portata emotiva degli eventi narrata.

About endlessness (Concorso), voto 6.5. Dopo il Leone d'Oro vinto nel 2014, Andersson torna a Venezia con una storia simile nella struttura e nella composizione visiva, ma non nei contenuti. Laddove Un piccione alternava momenti di sublime ironia a momenti di riflessione, About endlessness è pervaso di pessimismo cosmico, con pochissime situazioni brillanti che sono anch'esse pervase da un'angoscia strisciante. Il film è una riflessione sulla solitudine e l'alienazione che caratterizzano le nostre esistenze, raccontate attraverso diversi quadri narrativi. Nel complesso il film è meno riuscito del precedente sia per una sensazione di già visto, sia per una minore coesione narrativa, che rende difficile vedere un filo logico a connettere le storie. Rimangono, però, la profondità della riflessione suscitata, ma soprattutto la sublime perfezione visiva di questi quadri dal sapore hopperiano e vermeeriano, in cui ogni oggetto, ogni dettaglio racconta una sua storia

Tony Driver (Settimana della Critica), voto 4. Una storia potenzialmente interessante trattata in modo banale e monodimensionale, ignorandone le molteplici e feconde sfaccettature. La commistione tra documentario e finzione è artificiale e non convince. Qui la recensione estesa scritta per Nonsolocinema.

Psykosia (Settimana della Critica), voto 5. Un film visivamente curatissimo e suggestivo, che racconta però un tema abusato (quello del doppio) all'interno di un contesto abusatissimo (una clinica psichiatrica). Il rapporto tra medico e paziente potrebbe anche essere interessante, se non fosse che il colpo di scena si intuisce già nei primi minuti, lasciando quindi lo spettatore con una fastidiosa sensazione di già visto per le successive due ore.

Nevia (Orizzonti), voto 7.5. Uno splendido esordio, capace di scovare la bellezza nel mezzo dello squallore, raccontando con sguardo dolce e partecipe una bella fiaba contemporanea. Qui la recensione estesa scritta per Nonsolocinema.

Tutto il mio folle amore (Fuori Concorso), voto 5.5. Un ritorno in tono decisamente minore per Gabriele Salvatores: il film è sconnesso, con le varie parti che si incastrano a fatica, e patisce anche una trattazione superficiale del tema dell'autismo. Il film è ai limiti del disastroso nelle parti con Valeria Golino, talmente svogliata da sembrare una cattiva attrice, e Diego Abatantuono, che pur non recitando riesce a strappare qualche sorriso. Lo salvano le scene di viaggio attraverso Slovenia e Croazia, che riportano alla mente i lavori giovanili di Salvatores, con personaggi sconclusionati persi in mezzo del nulla, alla perenne ricerca di se stessi. In quei momenti si ride e ci si commuove, grazie anche a un Claudio Santamaria perfetto nella parte del "Modugno dei Balcani".

Waiting for the barbarians (Concorso), voto 7.5. In uno scenario da deserto dei Tartari, il nemico sembra sempre alle porte e, quando non c'è, occorre inventarsene uno al fine di far stringere i sudditi intorno all'imperatore. Se sembra sinistramente familiare è perché lo è: Waiting for the barbarians racconta la contemporaneità attraverso un dramma pseudostorico ben scritto, diretto e interpretato, con echi di Lawrence d'Arabia e un Mark Rylance che ne è il cuore emotivo ed etico, novello scrivano Bartleby che rifiuta di sottostare a ordini che violentano la sua natura..

La mafia non è più quella di una volta (Concorso), voto 7.5. Franco Maresco realizza un documentario agghiacciante ed esilarante al tempo stesso, in cui trascina lo spettatore per le strade di una Palermo dove Borsellino e Falcone non solo non sono celebrati, ma sono nel migliore dei casi dimenticati e nel peggiore insultati o vilipesi. Un ritratto amaro di una Sicilia, di un'Italia senza memoria, e destinate quindi a ripetere gli errori del passato. A volte la voce fuori campo risulta un po' forzata, ma è un difetto veniale in un film che vuole risvegliare le coscienze, ma senza nutrire troppe speranze di riuscirci.

They say nothing stays the same (Aru sendo no hanashi) (Giornate degli Autori), voto 8.5. Che cos'è la poesia, se non la capacità di trovare lo straordinario nell'ordinario? La storia di un barcaiolo fluviale che trasporta passeggeri da una riva all'altra del fiume sembrerebbe banale, ma si trasforma invece in un'opera dolce e commovente, con la fotografia più ispirata e ispirante vista finora alla Mostra, fatta di colori forti, luminosi, vitali. Sulla vita bucolica e tradizionale del barcaiolo incombono la costruzione di un ponte che rischia di lasciarlo senza lavoro, e la vendetta di uno spirito della morte, in un meraviglioso connubio tra tradizione e modernità degna dei capolavori di Hayao Miyazaki. Un piccolo gioiello.

Un monde plus grand (Giornate degli Autori), voto 6.5. Il film racconta la storia vera di Corine Sombrun, tecnica del suono e documentarista che, in seguito alla morte del marito, accetta di recarsi in Mongolia per documentare le pratiche sciamaniche delle tribù locali. Il suo coinvolgimento con queste pratiche sarà più profondo del previsto, e grazie a esseCorine riscoprirà lentamente se stessa. L'incontro-scontro tra cultura francese e mongola è raccontato in modo classico ma efficace, ed è sorretto da una fotografia che, una volta liberata dalle costrizioni urbane, si libra in volo per raccontare la vita nella steppa con occhi spalancati di stupore, donando agli spettatori lo sguardo di Corine. Un film semplice ma efficace sul ritrovarsi, e un utile memento del fatto che ci sono più cose in cielo e in terra di quante ne sappia la nostra filosofia (e la nostra scienza).

Pier e Simone

martedì 3 settembre 2019

Telegrammi da Venezia 2019 - #3

Terzo telegramma da Venezia 2019: continuano i film che guardano allo ieri per parlare dell'oggi, ma ci si addentra anche nella quodianità e nel feuilleton d'autore.


Giants being lonely (Orizzonti), voto 8. Splendido esordio alla regia per l'artista Grear Patterson, che racconta con originalità e piglio autoriale un tema abusato come quello della fine dell'adolescenza, immergendo i suoi protagonisti in un'atmosfera fuori dal tempo e quasi onirica, in cui l'estate sembra non dover finire mai. Bravi i giovani attori protagonisti, tutti convincenti e veri.

The laundromat (Concorso), voto 6.5. Soderbergh racconta lo scandalo dei Panama Papers, e lo fa usando le tecniche popolarizzate da Adam McKay con La grande scommessa: spiegazioni tecniche semplificate e spettacolarizzate, frequente rottura della quarta parete, molteplici punti di vista. Soderbergh aggiunge però il suo tocco creativo sia nell'umorismo, sia nella scelta vincente di far raccontare il tutto, quasi fosse una favola, a Mossack e Fonseca, i due fondatori dell'omonimo studio legale al centro dello scandalo. Gary Oldman e Antonio Banderas brillano nei ruoli, e soprattutto constringono lo spettatore a porse una domanda scomoda ma fondamentale: se chi ha aiutato a nascondere i soldi viene condannato, come è possibile che chi ha fornito i soldi la faccia franca? Il tema viene ripreso anche nel finale, molto potente anche se forse un po' didascalico.

Jeedar el sot (All this victory) (Settimana della Critica), voto 7.5. Durante una delle tante guerre tra Libano e Israele (quella del 2006), un gruppo di libanesi sconosciuti, per la maggior parte anziani, si rifugia in un appartamento. Rimangono però bloccati quando dei soldati israeliani occupano l'appartamento soprastante. Nonostante la terribile serietà della tematica e delle situazioni raccontate, il film sorprende con alcuni momenti conviviali e umoristici, inseriti in modo armonico in mezzo a quelli più tesi. La commistione di toni è riuscitissima, e contribuisce alla creazione di un racconto vero ed emozionante della guerra dal punto di vista delle vittime civili, mostrando come una convivenza forzata possa trasformarsi in un legame profondo.

No 7 Cherry Lane (Concorso), voto 7.5. Un film d'animazione poco convenzionale, in cui numerosi stili si mischiano e ogni movimento è lento, calcolato, trascinato, quasi ci trovassimo in un sogno. Il film si muove continuamente tra la dimensione onirica e la realtà, e ne sovrappone i confini fino a confonderli: la Hong Kong del film non è reale, è quella conservata nel ricordo e nella nostalgia, esattamente come gli amori di madre e figlia per il giovane protagonista, novello Laureato che conquista i loro cuori con poche parole ma una grande passione per il cinema. Il film è visivamente splendido, ed è un peccato che venga a tratti rovinato da una computer grafica inaccettabile nel 2019 e da un'animazione anti-realistica che finisce per depotenziarne i momenti più emozionati. Resta comunque un'opera originale e riuscita, con cui Yonfan scrive la sua lettera d'amore per la sua città e per un'epoca che non esiste più.

American Skin (Sconfini), voto 3. C'è davvero poco da salvare in questo film di Nate Parker, che cerca di raccontare l'enorme problema delle violenze della polizia sugli afroamericani, ma riesce solo a realizzare un polpettone intriso di retorica e privo di qualunque incisività: sul tema dice di più Steve McQueen in Widows con cinque minuti di film che tutto il lungometraggio. Parker escogita un espediente narrativo poco realistico ma molto ingegnoso per mettere a confronto e costringere al dialogo polizia e vittime, ma lo vanifica sia con la totale mancanza di realismo (carcerati dal ghetto e adolescenti che parlano come un saggio di sociologia), sia con l'assurda scelta di rendere il film un mockumentary, totalmente insensata vista l'implausibilità della premessa che sceglie di utilizzare. La morale del film - ci sono colpe da ambo le parti, e basterebbe un po' più di dialogo - è non solo poco originale, ma anche disgustosa nei confronti delle vittime, e non basta un finale "forte" a salvare novanta minuti di sproloqui retorici.

Martin Eden (Concorso), voto 7. Non fidatevi dei magnificat  e dei peana dei giornalisti "cartacei" italiani, un po' troppo partigiani (o troppo severi: nessuna via di mezzo) con i prodotti cinematografici nostrani. Martin Eden non è un capolavoro, ma è comunque un film ben sopra la media del nostro cinema, realizzato con ottima visione registica da Pietro Marcello. La prima metà è splendida, con una fotografia luminosa e sognante e un Marinelli perfetto nei panni di Martin che scopre i piaceri della letteratura, dell'amore, e della vita. La seconda, tuttavia, si perde in inutili sproloqui pseudo intellettuali e politici, che finiscono per fagocitare il pur bravo Marinelli in una serie di sussurri e grida che ne appiattiscono l'interpretazione. Un vero peccato, ma il film resta comunque un ottimo, per quanto inusuale, adattamento dell'omonimo romanzo di Jack London, che funziona finché riesce a mantenere il suo protagonista al centro della scena, ed esce di strada quando lo sacrifica sull'altare del Messaggio.

Simone