giovedì 29 giugno 2023

Elemental

In difesa delle emozioni


Ember Lumen, è figlia di immigrati della Terra del Fuoco, trasferitisi a Elemental City, città cosmopolita abitata da tutti i quattro elementi, prima che lei nascesse. In città i fuochesi sono la minoranza, mentre dominano acqua, terra e aria. Ember sogna solo di far felice il padre rilevando la gestione del suo negozio, ma non riesce a mantenere la calma necessaria con i clienti. Un giorno nella sua vita piomba Wade Ripple, un acquatico: questo incontro costringerà Ember a chiedersi cosa vuole davvero.

Leggendo superficialmente le recensioni di Elemental (qui quelle anglofone, qui quelle italiane: il discorso vale per ambedue, ma soprattutto per le prime), si ha la sensazione che la Pixar abbia "perso il suo tocco": è una frase ricorrente, in una forma o nell'altra, tra tutte le recensioni negative o debolmente positive. Chi scrive non ha la presunzione di avere la verità in tasca, ma si interroga, socraticamente, su un tema: è la Pixar a essere peggiorata, o sono i critici e il pubblico "esperto" (il pubblico generalista è una storia un po' differente, come si vede ai link sopra) a essere cambiati? A scavare bene nelle recensioni, la risposta sembrerebbe la seconda. Ma andiamo con ordine.

La domanda nasce da una semplice constatazione: non c'è nulla nel film che giustifichi l'acredine spocchiosa che si legge in giro - né a livello narrativo, né a livello visivo. Partiamo dalla storia: la vicenda di Ember è della sua famiglia è stata accusata di essere "già vista" perché affronta il tema del dialogo intergenerazionale e del clash culturale - temi già affrontati da film recenti come Zootropolis o Red, prodotto dalla stessa Pixar. Peccato che Zootropolis non affronti minimamente il tema dell'immigrazione, e che Red non parli quasi per nulla del peso che i sacrifici della prima generazione hanno sui figli - due elementi centrali nella trama di Elemental. Elemental, inoltre, presenta una vera e propria anomalia narrativa nella produzione della Pixar: la centralità della storia d'amore, che solitamente viene relegata sullo sfondo (come in Monsters & Co o Ratatouille) o utilizzata come premessa narrativa (ad esempio in Up). Qui invece la storia di Ember e Wade si prende il centro della scena, e viene narrata con una dolcezza commovente. 


Certo, la storia non brilla per originalità tematica, questo è indubbio: ma compensa ampiamente con una grande originalità e autenticità emotiva, che arriva al cuore dello spettatore per vie differenti da quelle cui ci aveva abituato la Pixar, facendoci commuovere, sì, ma dalla gioia, un unicum nella storia della casa di Emeryville (non preoccupatevi, le classiche lacrime di commozione non mancano neanche stavolta). La trama, a volte, procede a salti, senza prendersi i tempi che dovrebbe per approfondire alcuni passaggi. Tuttavia, questo ritmo un po' sincopato ci regala anche uno dei pochi "terzi atti" Pixar a non prevedere un inseguimento/scena d'azione prolungata, e ci permette di concentrarci maggiormente sulle emozioni dei protagonisti.

Se sulla narrazione, comunque, si possono riscontrare dei difetti, è il comparto visivo quello che stride di più con le critiche lette. Era dai tempi di Monsters & Co. che la Pixar non realizzava dei character design così rivoluzionari a livello tecnico e visivo. L'animazione di Ember e Wade, e in generale di tutti i personaggi di fuoco e acqua, è strabiliante per come rende in modo realistico e poetico al tempo stesso i movimenti continui dei due elementi, utilizzando un mix vincente di animazione in CGI e classica. Ember, in particolare, è un personaggio che rimarrà scolpito nella memoria dello spettatore per i suoi continui cambi di colore, forma, aspetto, e per il carisma che trasuda da ogni sua espressione.


Perché, dunque, così poco entusiasmo? Un'ipotesi potrebbe essere che la perfezione della Casa della Lampadina sia diventata una maledizione, creando aspettative altissime che, quando non vengono mantenute, portano a giudizi iper-negativi, impulsivi, dimentichi del fatto che, tra il capolavoro e la schifezza ci sono mille gradazioni di grigio. È un'ipotesi valida, soprattutto perché era già successo a un film più leggero come Il viaggio di Arlo, o con il più recente Onwards: storie più intime e meno ambiziose di altre, ma non per questo meno riuscite in termini narrativi o visivi. 

La seconda ipotesi, però, a parere di chi scrive cattura meglio ciò che sta succedendo: critici e pubblico esperto sono diventati più esigenti, certo, ma soprattutto più cinici. È un trend che non si limita alla sola Pixar: si pensi a come l'espressione "fan service", che letteralmente significa far felici i fan, abbia assunto una connotazione esclusivamente negativa, indipendentemente dal fatto che gli autori lo stiano facendo con sincerità e amore o con cinismo e calcolo. Ma è un trend che giocoforza finisce per colpire maggiormente chi, da sempre, mette le emozioni al centro della storia. 

Assuefatti da una mole di materiale audiovisivo senza precedenti fornito in toto sul divano di casa * e dal cinismo sconsiderato di molte case di produzione, pubblico e critici esigono sempre più storie "non tradizionali" per ritenersi soddisfatti. Il "già visto" riceve in automatico il marchio dell'infamia - come se i grandi classici non riprendessero da sempre storie già viste, da Indiana Jones che rifà quasi uguali i classici d'avventura con cui sono cresciuti Spielberg e Lucas a Guerre Stellari che copia Dune e Kurosawa. Non conta più, insomma, che le storie emozionino - ed Elemental, come detto, lo fa alla grande. Conta solo un'originalità che deve sempre alzare l'asticella, come se raccontare in modo profondo e sfaccettato la storia di una famiglia, di una figlia e di un padre, e una storia d'amore travagliata fosse una cosa inutile, una perdita di tempo inaccettabile. Non è un caso che i film Pixar che stanno ottenendo meno successo siano film che affrontano temi quotidiani e "intimi" (su tutti, quello della genitorialità e dell' "eredità culturale") che non erano praticamente mai stati affrontati nei film di maggior successo della casa di Emeryville.

Elemental non è uno dei film migliori della Pixar, e non è un capolavoro di originalità narrativa. Tuttavia, rimane un bellissimo film, che diverte ed emoziona affrontando temi universali e riuscendo a parlare in modo diverso ma ugualmente efficace ad adulti e bambini attraverso un'animazione viva e innovativa. Scusate se è poco.

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Pier 

*: persino Bob Iger, nuovamente CEO di Disney, ha dovuto ammettere i danni fatti da Disney+ e una politica di distribuzione scellerata al marchio Pixar.

mercoledì 28 giugno 2023

The Flash (In pillole #26)

La zuppa della casa


Sarebbe facile elencare i difetti di The Flash, dalla computer grafica che in alcuni momenti sembra uscita delle pubblicità che si vedono nei cinema di provincia a una storia a volte confusa a causa delle infinite riscritture cui è stata sottoposta. Tuttavia, non lo farò, e per un semplice motivo: il film, nonostante tutti questi difetti, funziona. 

Finalmente libero dalle pastoie e, soprattutto, dai toni dello Snyderverse, The Flash evita anche la trappola del "fare il clone brutto della Marvel" in cui erano caduti Justice League e i prodotti successivi. Ha un suo tono, confusionario, certo, ma molto distintivo, e in fondo in linea con la natura del suo personaggio: casinista, impaziente, incapace di stare fermo, ma di gran cuore. The Flash è divertente e caciarone, ma riesce anche ad avere momenti commoventi. Le transizioni tra queste emozioni non sono sempre pulitissime, ma proprio questa natura ibrida conferisce al film una sua identità - un mezzo miracolo considerando i travagli produttivi. 

Funziona il film, dunque, e funziona soprattutto grazie agli attori: Ezra Miller, se si riesce a "staccare" il personaggio dall'attore, è innegabilmente un ottimo Flash, in ambedue le sue incarnazioni. Michael Keaton è un Batman squisitamente folle, e si mangia il film nei momenti in cui appare, liberandosi dell'ingessatura cui era forzato negli anni Novanta per diventare un ninja con una vena di pazzia che mena come un fabbro, non ha paura di nulla, e fornisce anche consigli filosofici, compresa la miglior spiegazione del concetto di multiverso sentita in questi anni. Sasha Calle, infine, è un'eccellente Supergirl, cui forse il film non dedica lo spazio che meriterebbe. A collegare questi personaggi un turbinio di viaggi nel tempo, scontri epocali, e computer grafica (brutta, come detto), scanditi da una sceneggiatura che non vincerà mai il premio "Gestione bilanciata del ritmo" ma ha delle intuizioni davvero riuscite sia sul lato comico che su quello drammatico, e infila anche qualche bel momento di omaggio/nostalgia.

The Flash non è il miglior cinecomic di sempre, come qualcuno chiaramente prezzolato dalla DC ha provato a dire - non entra nemmeno nei primi dieci, probabilmente. La definizione migliore la hanno probabilmente data I 400 calci: The Flash è "Uno splendido disastro", la zuppa della casa dei cinecomic: un prodotto creato mettendo insieme ingredienti disomogenei e senza seguire una ricetta, ma che però risulta comunque gustoso e appetitoso, spesso sorpassando in gusto e gradimento un piatto ben costruito e ben amalgamato, ma pretenzioso e senza cuore.

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Pier

lunedì 5 giugno 2023

Spider-Man - Across the Spider-Verse

Creare una nuova realtà


Miles Morales continua a essere Spider-Man, ma si sente solo. I suoi amici, e in particolare Gwen, sono tornati nelle rispettive dimensioni, e lui non ha nessuno con chi parlare dei suoi problemi e delle sue avventure. In particolare, la comunicazione con i genitori, affettuosi e iperprotettivi, è molto difficoltosa. Un giorno, però, Gwen ricompare nella sua camera, e gli rivela l'esistenza della Spider Society - un gruppo capitanato da Miguel O'Hara che unisce gli Spider-Man di diverse dimensioni per fermare le minacce al Multiverso.

Cinque anni fa, Spider-Man - Un nuovo universo era piombato sul mondo del cinema come un meteorite, sconvolgendo antiche certezze e marcando in modo indelebile una nuova fase dell'animazione cinematografica: c'è un prima e un dopo Spider-Man - Un nuovo universo, uno dei migliori film del decennio scorso, una vera e propria opera d'arte che aveva aperto possibilità fino a quel momento solo sognate in termini di tecniche di animazione e di racconto per immagini.

Venire dopo un film tanto rivoluzionario farebbe tremare i polsi a chiunque, a maggior ragione se i registi sono al loro primo film, come in questo caso. Eppure. Eppure Joaquim Dos Santos, Kemp Powers e Justin K. Thompson non tremano affatto, e anzi: guardano negli occhi il primo capitolo e alzano ulteriormente l'asticella, a qualunque livello - visivo, narrativo, musicale. Partiamo dall'ultimo: la colonna sonora, curata da Metro Boomin, è già iconica, con sonorità hip hop e rap a tinte dark che ben accompagnano un film che non ha paura di affrontare tematiche più adulte e adottare toni più oscuri rispetto al primo capitolo, in linea con le grandi saghe degli anni 70-80, da Guerre Stellari a Indiana Jones.

Il che ci porta alle innovazioni narrative: Across the Spider-Verse è un film che parla di crescita, ma soprattutto di autodeterminazione. Parla di ragazzi che cercano di diventare adulti, e di adulti che vorrebbero vederli ancora come ragazzi, ma non si ferma allo scontro generazionale: scava più in profondità, senza temere escursioni meta-testuali, e si interroga sul desiderio di scrivere il proprio destino e la propria storia, di allontanarsi da cliché predeterminati per lanciarsi in direzioni inesplorate. È un film ipercinetico e, al tempo stesso, intimista, in cui le fughe da se stessi sono sia reali che metaforiche, e la ricerca di un proprio posto nel mondo rompe i confini del tempo e dello spazio. 

Arte in movimento

Gwen e Miles vivono situazioni simili e opposte, ma sono accomunati da un desiderio bruciante di poter essere se stessi alle proprie condizioni. Il loro è un urlo di libertà non solo generazionale, ma anche sociale, volto a sovvertire strutture e gerarchie che loro non hanno creato e con cui non vogliono avere a che fare. Non è un caso che il villain sia un uomo senza volto, qualcuno che la sua identità l'ha persa ed è guidato nelle sue malefatte da un disperato desiderio di riaffermazione, di non essere solo "un altro cattivo": la Macchia è lo specchio distorto dei desideri di Gwen e Miles, l'autoaffermazione che si fa negazione dell'altro, e che dà vita ai fantasmi apocalittici evocati da Miguel O'Hara. Non è un caso nemmeno che la new entry più dirompente di questo sequel sia Spider-Punk, personaggio che fa della sovversione la sua cifra sia comportamentale che grafica.

Proprio Spider-Punk incarna alla perfezione l'approccio che Dos Santos, Powers e Thompson hanno avuto all'animazione di questo film: un'animazione che abbandona ogni pretesa di realismo e si fa vera e propria opera d'arte, capace di ibridare pop art, fumetto, computer grafica, animazione tradizionale, cinema live action, stop motion, acquarello, e chi più ne ha, più ne metta. Gli sfondi e le ambientazioni sono colorate secondo logiche espressioniste, che riflettono l'umore e le emozioni dei protaginisti anziché il loro reale aspetto. 

Espressionismo

Il risultato sembra un enorme e ipercinetico esperimento di videoarte con uno dei personaggi più iconici della cultura pop, un'opera degna di Andy Warhol per potenza simbolica ed espressiva. Lo spettatore si trova catapultato in una tavolozza di colori, un caleidoscopio inventivo che contiene in un singolo frame più idee e creatività di quella che si trova in interi film, rendendo quasi obbligatoria una seconda visione per poter pienamente assaporare la profondità e la ricchezza di quanto appena visto. La maestria dei registi sta nella capacità di intrattenere anche all'interno di una cornice dichiaratamente artistica, tirando un violento schiaffo a chi sostiene che arte e divertimento non possano incrociarsi.


Across the Spider-Verse è, come il suo predecessore, un capolavoro. Esito a dire che supera l'originale solo perché senza l'originale questo non esisterebbe. Viene comunque da dirlo perché non si può che essere ammirati da un sequel che non solo non si accontenta di riprodurre la stessa formula, ma si butta in nuove direzioni artistiche, segnando un ulteriore punto di non ritorno per l'animazione, liberandola forse per sempre da vincoli di veridicità che provengono dal cinema dal vivo per catapultarla in un nuovo universo di libertà artistica e creatività, in cui ognuno può trovare la propria voce. Non perdetelo.

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Pier

sabato 3 giugno 2023

La Sirenetta (2023)

Bello ma non ci vivrei


Ariel, figlia del re del mare Tritone, è profondamente affascinata dal mondo umano. Suo padre, tuttavia, ha proibito a tutti gli abitanti del suo regno di andare in superficie. Una notte, una tempesta fa naufragare la nave su cui viaggia Eric, principe di un regno caraibico. Eric rischia di affogare, e così Ariel decide di disobbedire l'ordine del padre per salvarlo.

"Le alghe del tuo passato / ti sembra più verdi sai": questo adattamento della celebre strofa di In fondo al mar descrive perfettamente l'intera operazione live action della Disney. Un'operazione che, dopo un ottimo esordio (Il libro della giungla) sembra trascinarsi stancamente, con scarsissima ambizione, portata avanti puramente per rafforzare il brand e l'immagine aziendale di una casa che sembra aver esaurito le idee originali al di fuori del campo che, ironicamente, continua a saccheggiare per queste operazioni: quello dell'animazione.

Dopo film mediocri (La bella e la bestia, Aladdin) e veri e propri disastri (Il re leone, Dumbo, e soprattutto Lilli e il Vagabondo sparato direttamente su Disney+ per disperazione) la sorpresa è, ormai, quello di trovarsi davanti un prodotto ben fatto: è questo il caso, e chi scrive lo dice con una certa malcelata sorpresa, di questo adattamento de La sirenetta, forse il classico più amato del cosiddetto Rinascimento Disney. Il film, innegabilmente, funziona: la trama intrattiene e a tratti, incredibile dictu, emoziona; i cambiamenti operati sono intelligenti e ben costruiti, e aggiungono profondità anziché cercare di spiegare presunti buchi di trama che nessuno, salvo lamentoso83 che scrive sul web, sentiva il bisogno di vedere esplicitati. Anche i nuovi numeri musicali, scritti da Lil-Manuel Miranda su musiche del compositore originale, Alan Menken, funzionano, pur impallidendo di fronte ai grandi classici del film: spicca un rap tra Sebastian e Scuttle, abbastanza originale da distinguersi dagli altri.

A funzionare è soprattutto il cast, capitanato da un Halle Bailey vocalmente eccezionale: la vetta emotiva del film rimane Come vorrei (Part of your world in originale), che Bailey interpreta con ottima sensibilità e flessibilità vocale. Accanto a lei troviamo un Jonah Hauer-King convincente nei panni di Eric, cui dona un fascino goffo e bambacione in stile Hugh Grant prima maniera. Javier Bardem è ottimo nella parte di Tritone padre apprensivo (l'addio tra lui e Ariel è uno dei pochi momenti in cui il sequel supera l'originale), una Melissa McCarthy deliziosamente diabolica nei panni di Ursula, e Daveed Siggs e Awkwafina fondamentali come voci di Sebastian e Scuttle, veri motori comici del film.

Ciò che non funziona è, come già ne Il re leone e ne La bella e la bestia, l'animazione: la computer grafica è poverissima, e le scene subacquee sono imbarazzentemente finte, buie, e poco colorate, e perdono il confronto sia con l'originale (che faceva proprio dei colori la sua forza) sia con il recente Avatar - La via dell'acqua, che aveva mostrato la via per un utilizzo efficace della CGI in ambienti marini. L'animazione dei personaggi non umani è, ancora una volta, straniante. La Disney sembra aver imparato solo parzialmente la lezione de Il re leone, e inserisce un minimo sindacale di cartoonesco negli altrimenti iperrealistici Sebastian e Scuttle, salvandoli  dall'inespressività totale che sembrava aver colpito Simba, Pumbaa e compagnia: nulla di eccezionale, chiariamoci, parliamo davvero di un minimo sindacale. Non si salva, tuttavia, il povero Flounder, che passa da essere coprotagonista a comprimario dimenticato per buona parte del film, complice anche una faccia da triglia (letterale) cui nessuno sembra aver voluto porre rimedio. Flounder è un incubo da uncanny valley, e a nulla vale dargli una vocina simpatica per far dimenticare l'orrore grafico che l'accompagna. Quando si capirà che l'iperrealismo rovina questo tipo di film, risultando paradossalmente inferiore, come resa, al non-realismo dell'animazione, sarà sempre troppo tardi. 

La sirenetta, dunque, è un film gradevole, sul quale però aleggia incombente, più della Ursula versione extra large del finale, la solita domanda: era necessario? Ancora una volta, la risposta sembra essere "no": non c'è nulla, al di là delle finalità commerciali, che giustifichi l'intera operazione live action, pensata esclusivamente per far leva sulla nostalgia di chi è cresciuto con gli originali e per vendere nuovi gadget a chi invece non era ancora nato. Ma per raggiungere il secondo obiettivo non sarebbe bastato il buon vecchio re-release dell'originale, tattica che la Disney ha perseguito con enorme successo per decenni, fermandosi proprio con un titolo del Rinascimento Disney, Aladdin? Ai posteri l'ardua sentenza.

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Pier