giovedì 28 ottobre 2021

Freaks Out

Circensi senza gloria


Roma, 1943: nella città occupata dai nazisti, quattro ragazzi speciali (Matilde, Cencio, Fulvio, e Mario) si esibiscono nel circo di Israel. Dopo la sua misteriosa scomparsa, i freaks saranno costretti a trovare la loro strada: cercano quindi rifugio al circo gestito dai nazisti , sperando di trovare una nuova famiglia per sfuggire a un mondo che li ha sempre trattati da fenomeni da baraccone.

Il neorealismo di Roma città aperta, l'amore per il circo di Fellini, i supereroi Marvel, e in particolare gli X-Men. Gabriele Mainetti, autore di Lo chiamavano Jeeg Robotuna delle più belle sorprese del cinema italiano degli ultimi anni, sembrava essersi imbarcato in un'impresa impossibile, folle: trovare l'amalgama tra questi ingredienti apparentemente incompatibili, evitando di far impazzire la maionese cinematografica.

Ma cosa sarebbe il cinema senza un pizzico di follia? Mainetti si rivela chef capace, e realizza un film che non solo funziona, ma entusiasma: un'esplosione di creatività visiva e narrativa, che trasporta lo spettatore indietro nel tempo, in bilico tra mondo reale (la Roma occupata dai nazisti) e fantastico.
La Roma occupata è ritratta con una fotografia cupa, tra toni di grigio e seppia: è una città fatta di fango e macerie, dove si muovono personaggi cenciosi e disperati. Il ritratto dei partigiani è ugualmente realistico, privo di ogni idealizzazione, tra ferite, amputazioni e i risultati di una vita in clandestinità. Il gruppo guidato dal Gobbo è una sporca dozzina agguerrita e disperata, pronta a sacrificarsi per i propri ideali e per salvare chi soffre. Gli stessi freaks sono dei portenti straccioni, segnati nell'aspetto (ma non nel cuore) dalla vita di strada.

Il circo tedesco, invece, sembra uscito da un film Disney o dai sogni di Fellini, ed è una meraviglia per gli occhi, un'esplosione di colori e invenzioni. Sulla pista del circo, anche i freaks si trasformano, diventando dei personaggi da fiaba: le loro esibizioni (sia in pista, sia durante le loro avventure) sono oniriche al punto giusto e lasciano costantemente a bocca aperta, soprattutto quelle del Cencio interpretato da Pietro Castellitto. Gli effetti speciali sono di altissimo livello e non hanno nulla da invidiare a quelli di un film hollywoodiano.

In generale, tutto il comparto visivo offre una prova abbacinante, che colma il cuore di gioia e meraviglia - ma anche di rabbia al pensiero di quanto spesso il cinema italiano si accontenti della mediocrità quando è capace di creazioni di tale livello. Mainetti gira con mano sicura, muovendosi con disinvoltura ammirevole tra azioni di guerra (splendidi, in particolare, l'assalto notturno al treno e il bombardamento di apertura) momenti fantastici e scene più intime.

Queste ultime, pur peccando ogni tanto di retorica, risultano comunque riuscitissime grazie alle ottime prove dei protagonisti: Tirabassi è un Zampanò dal cuore d'oro, Santamaria un intellettuale nascosto da un aspetto ferino, Castellitto uno stralunato e delizioso domatore di insetti, Martini un pagliaccio magnetico (letteralmente e metaforicamente), Mazzotta un memorabile capo partigiano. A brillare (anche qui, letteralmente e metaforicamente), tuttavia, è la semiesordiente Aurora Giovinazzo, splendida interprete di Matilde, che si muove sorprendentemente a suo agio tra una varietà di registri tale da far tremare le gambe a sue colleghe molto più quotate, tra omaggi ad Anna Magnani, scene d'azione, e commoventi confessioni.

Freaks Out è una gioia per gli occhi e per il cuore, un film corale che cattura, condensa e rielabora il meglio del nostro cinema, regalando uno spettacolo che conquista e facendoci affezionare a questi circensi senza gloria che diventano gli eroi di questa meravigliosa fiaba bellica.

**** 1/2

Pier

Nota: questa recensione è stata originariamente pubblicata su Nonsolocinema.

martedì 26 ottobre 2021

Venom - La furia di Carnage

In (parziale) difesa dell'idiozia


Dopo gli eventi del primo film, Eddie Brock è tornato a fare il giornalista. Un serial killer, Cletus Kassidy, rifiuta di parlare con altri che con lui. Grazie all'aiuto di Venom, Brock riesce a decifrare i disegni apparentemente insensati nella cella di Kassidy e a scoprire dove sono sepolte le sue vittime. Quando Eddie torna a intervistarlo per l'ultima volta, prima dell'esecuzione della condanna a morte, Kassidy riesce a farlo avvicinare e ad aggredirlo. Nella colluttazione, lo morde, finendo infettato dal simbionte alieno e dando vita a un nuovo nemico: Carnage.

"Squadra che vince non si cambia" è il motto di ogni sequel di film di successo, e sembra anche la strada abbracciata da questo secondo capitolo della saga di Venom. Il primo film ha avuto successo per l'interpretazione sopra le righe di Hardy e l'umorismo facilone? Nel secondo film ritroviamo ambedue le cose, ma questa volta sono decisamente al centro della vicenda. Andy Serkis ha infatti un'idea di regia chiara, e si vede fin da subito: quello che nel primo film sembrava un risultato fortuito, un mix di ingredienti mal combinati che miracolosamente aveva prodotto un piatto appetibile, qui viene invece pianificato e perseguito fin dalle prime scene. 

Serkis sceglie di mantenere l'impianto "anni Novanta" del film, con tanto di origin story in apertura, e punta con decisione sullo humor da adolescenti e la dinamica da buddy cop tra Venom e Brock. Quel che prima era solo accennato, pezzi di un puzzle scombinato e incoerente, diviene qui il cuore del film, la sua trave portante, la sua anima. Un'anima caciarona, certo, con un senso del pudore pressoché assente, personaggi tipizzati e situazioni che sfidano la sospensione dell'incredulità: ma questa volta è tutto voluto, coerente, e coeso. Può non piacere e far storcere il naso, perché riporta l'orologio dei film di supereroi indietro di una ventina d'anni come scelte narrative, estetica, e trattamento dei personaggi: ma è una scelta, e in quanto tale rende il film quantomeno più centrato e focalizzato rispetto al primo capitolo.

Tuttavia, l'assenza di nuove dinamiche fa sì che l'effetto sorpresa che aveva fatto le fortune di pubblico del primo capitolo sia qui del tutto assente. Sappiamo già cosa aspettarci, e raramente veniamo colti di sorpresa, sia dai colpi di scena che dalle battute. A sollevare la qualità media ci pensano, ancora una volta, i due protagonisti: Hardy si diverte un mondo a intepretare il simbionte e il suo ospite Eddie Brock, cui presta un volto segnato dalla vita, stanco, desideroso solo di essere lasciato in pace. Al suo fianco, Harrelson è un Carnage convincente, anche se meno folle dell'originale del fumetto, il che fa un po' perdere d'efficacia il suo confronto con Venom: la narrativa del villain segnato dalla società è abbastanza abusata, e non è affrontata con profondità sufficiente a renderla originale.

Venom: La furia di Carnage è un film che ha il coraggio di essere stupido, facilone, un film di puro intrattenimento. E, tutto sommato, raggiunge il suo obiettivo, anche grazie a un ritmo serrato e a una durata limitata (poco più di 90 minuti, un unicum in un'epoca in cui la durata eccessiva viene spesso scambiata dai registi per valore artistico). 
Tuttavia, è anche un film che viene dimenticato appena usciti dalla sala, e la cui scarsa memorabilità è da attribuirsi soprattutto a una sceneggiatura sì lineare, ma priva di qualunque guizzo creativo. Peccato, perché sarebbe bastato spingere un po' di più sull'acceleratore della follia per ottenere qualcosa di potenzialmente memorabile.

** 1/2

Pier

martedì 19 ottobre 2021

I film del Marvel Cinematic Universe (Fasi 1-3) - Dal migliore al peggiore

L'universo cinematografico Marvel è, senza alcun dubbio, la più grande novità che ha colpito (travolto, forse) la settima arte negli ultimi vent'anni. Sì, anche più dello streaming, che ha cambiato la modalità di fruizione ma non ha cambiato quasi per nulla le logiche produttive.

Che lo si ami o lo si odi, non si può negare il profondo impatto che il MCU (Marvel Cinematic Universe) ha avuto su come il cinema viene fatto e, persino, concepito. Di recente, alcuni studiosi hanno sostenuto che qualcosa di simile all'MCU fosse, di fatto, inevitabile (come Thanos): la Marvel guidata da Kevin Feige avrebbe semplicemente catturato prima di altri un trend che era già in atto, sfruttandolo al meglio.

Siamo ormai arrivati alla fine della fase 3 del MCU, conclusasi con Avengers: Endgame (qui un utile bigino delle varie fasi). La fase 4 è già iniziata, tra serie TV (WandaVision, Loki, Falcon & Winter Soldier) e film (Black Widow - pur ambientata nel passato, gli eventi che narra influenzeranno la serie su Occhio di Falco - e Shang-Chi). Ho pensato, dunque, che fosse arrivato il momento di fare un bilancio dal punto di vista critico dei film del MCU, facendo una classifica che servisse come spunto per fare qualche riflessione su ciò che è stato il MCU nelle sue diverse fasi.

Nel farlo, mi sono dato due regole:

1) Ripubblicare le recensioni così com'erano, senza cambiare il voto. 
Questo per rendere il più possibile l'impressione avuta sul film "in diretta", non quella del senno di poi. In questo modo, il voto riflette il mio giudizio del film "in sé", senza essere influenzato da ciò che sarebbe venuto dopo - sia in termini del puzzle narrativo MCU, sia in termini di evoluzione di linguaggio e tecnologia. 
Mi sono limitato a convertire il voto in stelline in un voto in decimi. In caso di parità di voto, mi sono affidato al mio ricordo dei film per decidere la classifica.

2) Non inserire film non recensiti.
Per lo stesso motivo di cui sopra, nella classifica non compaiono i film che non avevo recensito al tempo, come Iron Man (non esistevamo ancora, amici) e Black Panther. 

Bene, ora che abbiamo assolto alle questioni formali, possiamo cominciare. Pronti? Eccovi l'infallibile e definitiva classifica dei film MCU secondo Film Ora!

Foto di gruppo

La Classifica

Il podio

1. Avengers: Infinity War, voto 9.5

2. Avengers: Endgame, voto 9

3. Captain America: The Winter Soldier, voto 8.5


Le menzioni speciali

4. The Avengers, voto 8

5. Ant-Man and The Wasp, voto 8


I "Bravo, ma non si impegna"

6. Guardiani della Galassia, voto 7.5

7. Ant-Man, voto 7.5


I "Rimandati a settembre"

13. Iron Man 2, voto 5.5

14. Capitan Marvel, voto 5

15. Thor, voto 5

16. Guardiani della Galassia Vol. 2, voto 5

17. Iron Man 3, voto 4.5



Una breve analisi

La classifica, come detto, è frutto del solo giudizio di chi scrive, ed è parziale. Tuttavia, analizzandola si possono notare due trend interessanti (al netto della mia forse esagerata passione per Ant-Man).
Quelle che seguono sono analisi senza alcuna pretesa di validità statistica, ma che spero possano offrire qualche spunto di riflessione interessante a chi legge. D'altronde, se siete arrivati fin qui, forse un minimo di fiducia in chi scrive la avete, in fondo.

La serializzazione della creatività
Anche senza bisogno di fare un'analisi dei dati, si nota facilmente come pochi film ottengano l'insufficienza, pochi di più raggiungano l'eccellenza, e la grande maggioranza (sette su diciassette, il 41.1%) raggiunga una sorta di aurea mediocritas.

Ma guardiamo ai trend nel corso del tempo: a una prima analisi, sembrerebbe che la qualità media sia cresciuta di fase in fase. La media dei voti passa infatti dal 6.17 della prima fase al 7.06 della terza, passando per il 6.80 della seconda. Quello che la media non rivela, tuttavia, è come questo valore sia cresciuto nel tempo.

Il grafico qui sotto dà una risposta, evidenziando come l'aumento del voto medio non sia dovuto a un aumento dei film "eccellenti", ma da un aumento notevole di quelli "medi" - quell'aurea mediocritas di cui parlavamo prima. E se è vero che la qualità di un universo narrativo e di un sistema produttivo si giudica sulla base della media, e non delle eccellenze, è anche vero che la ricerca ci dice l'esplorazione "senza formula" porta sì a un numero maggiore di film meno riusciti, ma anche a un numero di eccellenze che sono davvero tali. 


Questo dato non sorprenderà più di troppo chi segue il MCU: il giudizio riflette infatti una già riscontrata tendenza da parte del MCU a percorrere la "strada già nota", prendendo meno rischi possibili. Siamo di fronte a una sorta di Moneyball della creatività, l'applicazione di una formula che si è rivelata vincente, e proprio per questo non viene mai cambiata, se non marginalmente (per chi fosse interessato, qui un'analisi più approfondita degli ingredienti della formula)
Abbiamo già parlato, anche di recente, di come i film Marvel inizialmente osassero di più, cercando di dare un'anima differente a ciascun supereroe sia dal punto di vista narrativo, sia da quello visivo. Con il passare del tempo, questa esplorazione è stata abbandonata in favore di una standardizzazione che privilegia la somiglianza tra film, con solo un pizzico di novità.

Il punto è che la ricerca ci suggerisce che questa formula funziona, e funziona in varie discipline, dall'arte alla scienza. Dal punto di vista puramente aziendale, dunque, non esiste alcun incentivo a modificarla. 

Il discorso cambia, tuttavia, se si guarda all'aspetto artistico.
La formula ha permesso alla Marvel di ridurre il numero di film meno riusciti, ma ha anche fatto sì che il numero di quelli veramente riusciti rimanesse di fatto uguale. Viene quindi da chiedersi se questa sia davvero la formula migliore o l'unica formula possibile. La risposta sembrerebbe essere "no": altre case di produzione di grande successo commerciale, come la Pixar, hanno trovato formule alternative che accettano e anzi incoraggiano le diversità di stili e visioni tra registi, e sembrano garantire una maggiore creatività senza sacrificare la necessità di profitto che, piaccia o non piaccia, è fondamentale per le major. E la formula Pixar ha già dimostrato di poter essere replicabile, come dimostra il caso della Disney Animation - data da tutti per morta, e tornata agli antichi splendori grazie agli spunti offertigli dai "cugini" pixariani. E, in fondo, anche la Marvel è parte della stessa, grande famiglia.

E, come in ogni famiglia, si litiga.
Il Marvel Cinematic Universe è qui per restare: non solo ha segnato il cinema degli ultimi vent'anni, ma volenti o nolenti segnerà anche quello dei prossimi dieci almeno. La serializzazione "a tavolino" di Feige, accuratamente pianificata anziché essere guidata dal successo o insuccesso di questo o quel titolo, è diventato un modello, al punto che i fratelli Russo, registi degli ultimi Avengers, hanno creato una casa di produzione che si occupa esclusivamente di creare nuovi universi cinematografici (potete leggerne qui).

Con l'aumentare del successo, però, sarebbe lecito aspettarsi un maggior coraggio produttivo, uscendo maggiormente dal seminato per provare nuove strade, linguaggi, visioni: qualcosa si è già intravisto con le serie TV (soprattutto WandaVision), ma è ancora troppo poco, soprattutto per una casa di produzione che può decisamente permettersi un passo falso o due in nome di una maggiore creatività futura. Da grandi poteri, in fondo, derivano grandi responsabilità.

Pier

domenica 10 ottobre 2021

Shang-Chi e la Leggenda dei Dieci Anelli

 Perdersi sul più bello


Sean e Katy sono due amici e colleghi. Nonostante gli ottimi risultati negli studi, lavorano entrambi come parcheggiatori in un hotel di San Francisco. La loro vita cambia per sempre quando Sean viene aggredito su un autobus da un gruppo di sgherri, e questi rivela di possedere straordinare capacità nelle arti marziali. Sarà l'inizio di un viaggio nel passato di Sean che li porterà a scoprire che miti e leggende sono fin troppo reali.

C'è qualcosa di frustrante nella visione di Shang-Chi e la leggenda dei Dieci Anelli, una sensazione di opportunità sprecata che già attraversava Black Widow ma che qui raggiunge livelli più elevati. La frustrazione deriva dal fatto che la prima metà di Shang-Chi è qualcosa che non avevamo mai visto nell'universo Marvel: un vero film di arti marziali. Certo, le serie Netflix ci avevano già provato, con risultati buoni (Daredevil) e pessimi (Iron Fist), ma al cinema la Marvel era sempre rimasta nell'alveo de "combattimenti ripresi da qualcuno con un forte tremore alla mano", relegando persino grandi attori-atleti come Scott Adkins a cameo ai limiti del comico.  

Shang-Chi invece inizia proprio come un kung-fu movie mascherato da storia di supereroi, in cui si fondono abilmente estetica e tematiche degli wuxia (i film cappa e spada tradizionali cinesi) con quelle dei film di Bruce Lee (non a caso l'ambientazione si sposta dalla "solita" New York a San Francisco). Il risultato è una prima parte frizzante, culminante in una fuga sul bus che è, a oggi, forse la miglior scena di combattimento dell'universo Marvel. La cultura cinese finalmente non è solo la scusa per un'ambientazione esotica, ma l'anima del film, e viene trattata con grande rispetto e attenzione (il che rende ancora più inspiegabile la decisione di non lasciar uscire il film in Cina).

Poi il film, lentamente ma inesorabilmente, vira verso il fantasy e l'abuso di computer grafica, e perde del tutto la sua anima: anziché darci lo scontro tra Shang-Chi e suo padre - un villain ben costruito, sfaccettato, ben motivato, e splendidamente interpretato da Tony Leung - decide di regalarci l'ennesimo scontro tra mostri giganteschi: ben disegnati, per carità, e comunque rispettosi della cultura e del folklore cinesi, ma comunque deludenti rispetto al (quasi) realismo che aveva caratterizzato il film fin lì.

Restano l'ottima prima metà e la prova convincente di tutto il cast: Simu Liu è un ottimo protagonista, e il suo passato da stuntman lo rende credibile e convincente anche nelle scene di combattimento; Awkwafina è una spalla comica riuscita, mai invadente e "organica" rispetto alla narrazione; Tony Leung e Michelle Yeoh sono splendidi come sempre, e donano carisma e tradizione ai loro personaggi e all'intero film.

Shang-Chi e la leggenda dei Dieci Anelli è davvero un'occasione persa per fare qualcosa di diverso, riprendendo le fila di quello che era l'universo Marvel ai tempi della sua creazione, in cui ogni supereroe aveva un'anima diversa, raccontata con il linguaggio di un sottogenere diverso (la commedia d'azione anni Ottanta per Iron-Man, lo spionaggio per Capitan America, l'epica per Thor). Poi si è scelta la strada dell'omologazione, sia narrativa che visiva, e Shang-Chi è solo l'ultima delle vittime: una vittima, però, che fa più rumore delle altre, sia per la relativa libertà di cui poteva godere il film (l'eroe protagonista non è esattamente celeberrimo), sia per il genere che si trovava ad affrontare, il cui linguaggio offre ottime opportunità spettacolari. Un vero peccato.

***

Pier

giovedì 7 ottobre 2021

La Scuola Cattolica

Pornografia del dolore


In un liceo della Roma bene si intrecciano le storie di molti ragazzi, alle prese con la “malattia incurabile” dell’essere nati maschi. Tra famiglie assenti e ipocrisie borghesi si nascondono mostri, che usciranno allo scoperto in modo tragico quando due ex studenti compiranno quello che diverrà noto come il massacro del Circeo. 

Una premessa: chi scrive non ha letto il libro da cui il film è tratto. Tuttavia, leggendo varie recensioni online, si evince che il tema del testo non è il massacro del Circeo, bensì un’analisi del sostrato culturale in cui questo è maturato. Un tema di grande interesse, e che anche il film esplora nella prima parte con buona efficacia, avvalendosi di un giovane cast corale di ottimo livello. 

Il film nella prima parte procede per quadri, non tutti ugualmente riusciti, che insieme formano però i tasselli di un mosaico storico e sociale. Amicizie, attrazioni, liti, riti di iniziazione, tensioni familiari: tutto concorre a formare il ritratto di una generazione di maschi disorientati, storditi da aspettative inconciliabili e tossiche, annegate in un mare di ipocrisia borghese e cattolica. 

Già nella prima parte, tuttavia, si insinua nel racconto la preparazione del massacro del Circeo, che poi occupa quasi per intero la seconda metà. E qui il film va alla deriva, annegando in un voyeurismo della violenza eccessivo, insensato, quasi pornografico, che non solo manca di rispetto alle famiglie delle vittime ma è anche del tutto inutile e scentrato ai fini narrativi. Il film da corale diventa personale, da ritratto sociologico diventa il racconto di un delitto ritratto con totale assenza di grazia e senso della messa in scena. Lo scopo è, probabilmente, scioccare lo spettatore; il risultato è quello di infastidirlo e distruggere quanto di buono il film aveva fatto fin lì. 

La scuola cattolica è l’ennesimo esempio di un cinema italiano deteriore, incapace di non spettacolarizzare tutto (sentimenti, dolore, delitti) e di muoversi nei grigi: o bianco, o nero, altrimenti lo spettatore si annoia. Nulla di più sbagliato: lo spettatore si annoia e, anzi, si adira quando gli viene promesso un film intelligente, tematicamente ricco, riflessivo, e si ritrova invece davanti la banalizzazione di un delitto già stra-conosciuto, trasformato in spettacolino per guardoni.

**

Pier

Nota: questa recensione è stata originariamente pubblicata su Nonsolocinema.

venerdì 1 ottobre 2021

007 - No Time do Die

Licenza di chiudere


James Bond si è ritirato dal servizio attivo, e si gode la pensione con Madeleine Swann, conosciuta durante gli eventi di Spectre. Tuttavia, il passato di entrambi nasconde ancora segreti, e tornerà a tormentarli, costringendo Bond a tornare in servizio.

Fin da Casino royale, tutta l'esperienza di Daniel Craig come 007 è stata segnata dal tentativo di rinnovare il personaggio, sia a livello caratteriale che narrativo. La stessa scelta di Craig - un Bond grezzo, muscolare, ruvido - andava in quella direzione. Attraverso cinque film, autori e registi diversi hanno condiviso l'obiettivo di creare un universo narrativo coerente, con un arco psicologico del protagonista che si dipana su più film, personaggi ricorrenti, filoni di trama che continuano e si risolvono nel film successivo. No time to die aveva l'ingrato compito di tirare le fila, agendo quasi da Avengers: Endgame di questo ciclo di Bond, e al tempo stesso di continuare questo processo di rinnovamento.

E le novità, indubbiamente, non mancano: l'approccio narrativo è focalizzato sui personaggi più che sulla missione, al punto che questa sembra spesso secondaria rispetto al percorso. Qui si notano le prime differenze con Skyfall (ma anche con Casino royale), che invece era riuscito a mantenere maggiormente in equilibrio le due anime del film - quella dei Bond classici, fatti di avventure rocambolesche e coolness, e quella del ciclo di Craig, focalizzata sui rovelli interiori del protagonista. 

L'impalcatura regge solo grazie a una sceneggiatura con ottimi dialoghi (in alcuni è evidente la mano di Phoebe Wallers-Bridge, chiamata a "svecchiare" alcuni aspetti della sceneggiatura originale) e a una regia solida da parte di Fukunaga, che dimostra ottima mano per l'action, muovendosi con maestria tra i momenti più realistici e quelli più fumettistici, e regalando alcune sequenze memorabili come quella a Matera e una scazzottata in piano sequenza degna di quella di Atomica Bionda. A brillare meno del solito sono i set, abbastanza anonimi e derivativi, nonostante alcuni di essi offrissero grandi possibilità creative ed espressive (ad esempio, il giardino di Safin). 
E deludono abbastanza anche i villain -  non come interpretazione, ma come caratterizzazione e centralità nella trama: Rami Malek offre un'interpretazione convincente, che ricorda quelle dei "mostri" del cinema muto, ma il suo Safin manca di spessore drammatico e motivazioni convincenti; e il Blofeld di Waltz è, ancora una volta, sprecato malamente (anche se, paradossalmente, meno che in Spectre).

Il cast è azzeccato e in ottima forma, con un'unica eccezione: una Léa Seydoux in modalità Corinna Negri, incapace di comunicare efficacemente qualunque emozione e continuamente oscurata da chiunque le venga messo a fianco in scena, attrici bambine comprese: il confronto con il precedente interesse amoroso di Bond (la Vesper Lynd/Eva Green di Casino royale) è impietoso. 
La sua prestazione pedestre, per fortuna, non frustra l'ottima prova di Daniel Craig, che incarna alla perfezione questo Bond malinconico e dolente, e di tutto il cast di supporto: accanto ai come sempre ottimi Ralph Fiennes (M), Ben Whishaw (Q) e Naomie Harris (Moneypenny), a questo giro si distingue Ana de Armas, splendida per ironia e presenza scenica nei panni dell'inesperta (?) agente CIA. Una prova, la sua, che accresce ulteriormente il rammarico per aver affidato la parte della protagonista a un'attrice così inconsistente. Buona anche la prova di Lashana Lynch, una 007 (ebbene sì) convincente, anche se forse lasciata un po' troppo ai margini.

Nonostante qualche inciampo narrativo e una spettacolarità inferiore alle attese, il film avvince e convince negli elementi chiave, i colpi di scena, dotati di un notevole impatto emotivo e capaci di capovolgere di continuo le attese dello spettatore fino all'ultimo minuto di film, e di farlo in  modo soddisfacente. 
Sembra facile, ma non lo era affatto, considerando sia la storia produttiva del film, sia l'enorme bagaglio di aspettative che si portava dietro. No time to die doveva stupire, ma anche guardare al passato; tirare le fila, ma al tempo stesso raccontare una storia a se stante. Ci riesce? La risposta è sì: forse non in maniera memorabile, ma senza dubbio in maniera efficace, rendendo onore a un'era di Bond che, nel bene e nel male, ha avuto il coraggio di cambiare l'immagine di un'icona: in tempi in cui si sta spremendo fino all'estremo l'effetto nostalgia, non è poco.

***

Pier