martedì 23 febbraio 2016

Lo chiamavano Jeeg Robot

Wolverine contro Mafia Capitale



Enzo Ceccotti è un ladruncolo che vive a Tor Bella Monaca, in periferia di Roma. Un giorno, cercando di sfuggire alla polizia, si tuffa nel Tevere, dove entra in contatto con una sostanza radioattiva che gli dona una superforza. Mentre capisce come usare i suoi nuovi poteri, la sua strada si incrocia con quella dello Zingaro, un pesce piccolo della malavita romana con l’ossessione della celebrità, e di Alessia, la figlia del vicino di casa di Enzo, che crede che Enzo sia il protagonista della serie animata Jeeg Robot d’acciaio. Si ritroverà coinvolto in una guerra senza esclusione di colpi.

Lo chiamavano Jeeg Robot è stato il caso dell’ultima edizione Festa del Cinema di Roma. La ragione si intuisce fin dalla visione del trailer: è una rarità nel panorama italiano, dove sembra impossibile uscire dal dramma e dalla commedia (o dalla loro fusione, la commedia drammatica) per esplorare nuovi generi e nuovi linguaggi cinematografici. In particolare, il genere supereroistico, cui appartengono quasi tutti i blockbuster più profittevoli degli ultimi anni, è sempre stato tabù in Italia, vuoi per ragione di budget, vuoi per poco coraggio.

Sfruttando la strada aperta da Gabriele Salvatores con Il ragazzo invisibile, Gabriele Mainetti (già autore del bel cortometraggio-omaggio a Lupin Basette) racconta la storia di un supereroe per caso con tutti gli stilemi del genere: l’acquisizione casuale dei superpoteri, la presa di coscienza del fatto che "da grandi poteri derivano grandi responsabilità", una ragazza con un ruolo centrale, un cattivo psicopatico e con manie di grandezza. Tutto già visto, dunque? Niente affatto: Mainetti si distingue da Salvatores e dai film americani radicando il suo film nella realtà romana di periferia, tra squallore, malavita e desiderio di rivalsa. Lo chiamavano Jeeg Robot è un film con un’anima fortemente italiana, che parla della realtà di tutti i giorni e della storia recente del paese con sguardo quasi neorealista, cercando la verità della vita di strada anziché le patinature degli effetti speciali, limitati al minimo sindacale.

In questo film dai toni e dalle atmosfere vagamente distopiche, troviamo quindi la crisi economica, Mafia Capitale, persino un’eco degli anni di piombo. Mainetti dirige il tutto con mano sicura, sorretto da una fotografia cupa, livida e a tratti angosciante, che privilegia interni desolanti ma regala anche esterni squallidi, consumati, dimenticati dalla vita. La scrittura è solida e ritmata, con personaggi e dialoghi e convincenti, e intrattiene senza la presunzione di essere arte, ma anche senza essere un mero "popcorn movie".

Gli attori sono ben diretti e offrono ottime prove. Santamaria è un supereroe per caso cupo e taciturno, che passa dal subire gli eventi a essere in grado di dirigerli, ma non vuole farsi coinvolgere. Più Wolverine che Batman, il suo Enzo Ceccotti conquista per umanità e realismo. La sua nemesi è uno strepitoso Luca Marinelli, piccolo boss ammalato di fama, con una fissazione per Loredana Berté e la musica italiana anni ’80 e un penchant per il travestitismo, un Joker all’amatriciana che domina tutte le scene in cui è presente, con un formidabile mix di follia, fragilità e desiderio di riscatto. Sorprende in positivo, infine, l’esordio cinematografico di Ilenia Pastorelli, convincente nella parte di Alessia.

Lo chiamavano Jeeg Robot non è un capolavoro, come leggerete in recensioni di critici troppo solerti nel gridare al miracolo quando il cinema italiano produce qualcosa di diverso (sul tema si è ben espresso Zerocalcare). E’ però uno dei migliori film italiani degli ultimi anni, sicuramente il più coraggioso per come prova, riuscendoci, a rielaborare gli stilemi di un genere quasi del tutto alieno al nostro cinema e che persino negli USA, dove è stato inventato, appare ormai fossilizzato e avvitato su se stesso. Non perdetelo.

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Pier

Nota: Articolo originariamente pubblicato su Nonsolocinema.

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