mercoledì 29 maggio 2019

Rocketman

Tra sogno e realtà


Il film racconta l'abbacinante carriera di Reginald Dwight, che da timido ragazzo di provincia con la passione per il piano si trasforma in showman e rockstar multimilionaria con il nome di Elton Hercules John.

La comparsa sulla scena di Elton John sconvolse come l'esplosione di una bomba il panorama musicale dell'epoca, catapultandolo istantaneamente nel gotha della musica mondiale. Rocketman non ha la forza dirompente del suo protagonista, ma riesce comunque a distinguersi e a ritagliarsi una sua identità all'interno della miriade di film ispirati o dedicati alle star della musica. Se infatti il contenuto della vicenda narrata non è particolarmente originale, e anzi segue in modo quasi pedissequo la struttura classica della sceneggiatura (presentazione, ascesa, successo, crisi, redenzione), è nella struttura della narrazione che Rocketman dimostra una grande abilità di sperimentare e contaminare i classici stilemi del genere.

I film bio-musicali si dividono solitamente in due filoni: da un lato musical come Mamma Mia! o Across the Universe, dove le band vengono fatte rivivere attraverso le loro canzoni, ma raccontando una trama del tutto slegata dalla loro storia; dall'altro quelli come Bohemian Rhapsody o Quando l'amore brucia l'anima, che raccontano più o meno fedelmente le vicende umane e professionali dei protagonisti 1. Rocketman unisce queste due tradizioni, mescolandole in un felice e riuscito connubio in cui le canzoni sono cantate sia dall'Elton-cantante, sia dall'Elton-personaggio, creando una sospensione tra realtà e finzione che diviene la cifra della narrazione. Il film alterna momenti biografici, sia divertenti che strazianti, a momenti onirici, e lo fa senza preoccuparsi di demarcare nettamente il confine tra gli uni e gli altri. Elton canta di fronte al pubblico, e all'improvviso comincia a volare; Elton si butta in piscina, e vede il suo io bambino vestito da astronauta. Il racconto procede per ellissi, alternando il passato a un presente in cui Elton, vestito non a caso da diavolo, rievoca i momenti chiave della sua carriera.

Questo continuo alternarsi delle due dimensioni del canto e della narrazione sospende il film in un'atmosfera sognante e trasognata, in cui vediamo le due facce di Elton John e assistiamo alla lotta tra le sue identità come fossimo nella sua testa, seguendolo nella polvere e sull'altare, nei momenti di gloria e in quelli in cui tocca il fondo, raccontando una storia classica in modo innovativo e originale.
Per una strana ironia della sorte, queste innovazioni vengono apportate da Dexter Fletcher, già regista di Eddie the Eagle, ma soprattutto regista "occulto" di quel Bohemian Rhapsody che rappresenta invece l'emblema del biopic "classico" e più convenzionale. Alla ricostruzione fedele e quasi documentaristica di Bohemian Rhapsody, Fletcher oppone qui una visione d'insieme più complessa e coraggiosa, che rende giustizia alla complessità di Elton John e lascia il rimpianto per cosa avrebbe potuto essere il biopic sui Queen se lo si fosse affidato interamente alle sue mani.

La forza del film, oltre che nella musica, sta nella fotografia, ricca di gustose trovate visive (fin dalla scena d'apertura) e capace di raccontare visivamente la strabordante e complessa personalità del protagonista. A prestare viso e voce a Elton John c'è Taron Egerton, impegnato in una parte lontana anni luce da quelle che lo hanno reso celebre, e autore di una prova eccellente, in cui riesce non solo a risultare perfettamente somigliante a Elton John a livello fisico ed espressivo, ma anche ad affrontare con perizia la non semplice parte vocale: se Rami Malek ha vinto l'Oscar per la sua interpretazione di Freddie Mercury, Egerton può senza dubbio aspirare almeno a una nomination.

Rocketman è un film peculiare e originale che, pur mantenendosi nei canoni del film biografico, riesce ad innovare all'interno di essi, offrendo un ritratto fresco, flamboyant e visivamente travolgente di una delle icone della musica mondiale e aprendo nuove strade per un genere che sembrava aver esaurito la sua spinta creativa.

*** 1/2

Pier

1: una categoria a parte meritano capolavori come I'm not there, che partono dal biografico per fare qualcosa di completamente diverso.


giovedì 23 maggio 2019

Pokémon - Detective Pikachu

Ingannevole è il trailer più di ogni cosa



Quando era un bambino, Tim Goodman sognava di fare l'allenatore di Pokémon. Qualcosa è però cambiato, e ora, a ventidue anni, Tim non vuole sentir parlare di Pokémon. Tuttavia, la morte del padre detective lo costringe a recarsi a Ryme City, la metropoli dove umani e Pokémon vivono fianco a fianco. Scoprirà che la morte del padre è avvenuta in circostante sospette, e si ritroverà a indagare con il vecchio partner del genitore, un Pikachu caffeinomane con cui solo lui riesce a comunicare.

Chi scrive cerca ormai da qualche anno di non farsi influenzare troppo dai trailer: le aspettative tradite (in positivo e in negativo) sono state abbastanza da farmi dubitare di ciò che vedo in un video che è comunque prima di tutto un prodotto promozionale. Tuttavia, devo ammettere di esserci cascato con Detective Pikachu: il trailer lasciava pensare che il film fosse una commedia poliziesca sui generis, in cui il poliziotto esperto è un Pokémon parlante e il novellino il figlio del suo vecchio compagno. Nonostante il film fosse chiaramente indirizzato prima di tutto a un pubblico giovanile, mi ero illuso, forse anche per la presenza di Ryan Reynolds a dare la voce al più famoso dei Pokémon, che il film avrebbe saputo parlare anche agli adulti grazie a un'ironia sagace e al lavoro sui personaggi.

Il film, purtroppo, non è nulla di tutto questo, ma è semplicemente un film per bambini, e viene declinato come tale: i pochi colpi di scena sono abbastanza telefonati, la storia è semplicissima e poco originale (l'idea di Ryme City è identica alla premessa di Zootropolis, e viene persino ripreso visivamente l'arrivo in treno nella città), e la piattezza dei personaggi umani è disarmante anche per un pubblico infantile. La cosa più deludente, tuttavia, è che non si ride mai: laddove la linearità della trama potrebbe essere anche apprezzabile, la totale mancanza di momenti comici è davvero inspiegabile, soprattuto per un franchise che ha fatto della simpatia dei suoi personaggi uno dei punti di forza. Persino le sequenze che sembravano esilaranti nel trailer non riescono a strappare più di un sorriso, e il film si trascina stancamente verso un finale che, pur offrendo l'unico momento vagamente emozionante del film, mette un grosso punto di domanda sul possibile futuro del franchise, cancellandone quello che poteva esserne il punto di forza.

Il trailer non è invece ingannevole per quanto riguarda la resa visiva dei Pokémon: le creature sono rappresentate con un realismo e una ricchezza visiva incredibile, e quasi si fatica a credere che non siano animali reali. Se Pikachu è quello su cui si concentrano giocoforza gli sforzi produttivi, anche tutte le altre creature, comprese quelle che compaiono per pochissime inquadrature, sono realizzate con una qualità prima sconosciuta ai film di questo genere, sia in termini di texture che di espressività. In questo senso, Detective Pikachu sembra aprire immense possibilità non solo per un futuro franchise, ma per l'animazione mista in generale, dimostrando una padronanza della tecnologia e dell'interazione tra attori e creature in computer grafica immensamente superiore a quello visto, per esempio, nella versione live action de La bella e la bestia.

Detective Pikachu è, a conti fatti, un film dignitoso e, per un pubblico giovanile, persino godibile, come dimostrano anche gli ottimi risultati al box office. Tuttavia, sembra aver buttato al vento la possibilità di essere qualcosa di più intelligente, divertente e profondo, rinunciando a conquistare gli adulti e a differenziarsi da altri prodotti destinati a un pubblico infantile.

**

Pier

mercoledì 8 maggio 2019

Stanlio e Ollio

Storia di un'amicizia


Regno Unito, 1953. Sono passati sedici anni dal momento d'oro della loro carriera hollywoodiana, e Stan Laurel e Oliver Hardy sono costretti a sbarcare il lunario imbarcandosi in una tournée teatrale in Inghilterra. Anche il teatro, tuttavia, è in crisi, e Stanlio e Ollio dovranno dare fondo a tutta la loro bravura per attirare il pubblico in teatri di second'ordine. La tournée si rivela ben presto per ciò che è realmente, un viaggio sulla strada della memoria, lastricata di rancori, gioie, risate e lacrime, e che li porterà a riconsiderare la loro relazione professionale e la loro amicizia.

Può un film riuscire a commuovere fino alla lacrime con una semplice scritta in sovrimpressione? Basterebbe questo aneddoto per raccontare la portata emotiva di Stanlio e Ollio, un film che non brilla per originalità della messa in scena, ma compensa più che egregiamente con una sceneggiatura ai limiti della perfezione e due attori in stato di grazia. Il film è la storia di un'amicizia e di una eccezionale partnership artistica, entrambe raccontate nel momento del crepuscolo: incontriamo Stan Laurel e Oliver Hardy quando sono ormai anziani, malati, dimenticati negli Stati Uniti e quindi costretti a un tour teatrale nel Regno Unito. Anche la loro amicizia non è più quella di una volta, e ne scopriremo le cause durante il film (vi diremo solo che c'entra un elefante).

Ciò che resta intatta, pura, impervia alle acredini e al passare del tempo, è la loro capacità di far ridere: il film riesce a trasmettere alla perfezione l'irresistibile, geniale comicità del duo sia riproducendo con fedeltà alcune delle loro gag più famose, sia costruendo la loro relazione e quella con le proprie mogli come un fantastico "double act" comico: le schermaglie (inter)coniugali sono tra i momenti migliori del film, degni di rivaleggiare con lo show che Stanlio e Ollio mettono in piedi sul palcoscenico.
La sceneggiatura affianca la comicità delle battute con una struggente nostalgia, che pervade ogni scena del film fino a diventarne co-protagonista. Vedere due giganti della risata ridotti a girare per teatri di second'ordine fa giocoforza pensare a quello che fu, in un esercizio del ricordo che è sia extradiegetico che diegetico. Stanlio e Ollio sono prigionieri del passato: vogliono superarlo, ma al tempo stesso lo rimpiangono. La loro amicizia è incrinata così come la loro arte, e nonostante ambedue ardano dal desiderio di ripararle, il passato torna sempre a galla, impedendo loro di chiudere quella porta per aprirne un'altra.


Lo sguardo malinconico al passato, e la consapevolezza silenziosa ma inconfessata che quei tempi non torneranno sono al centro del rapporto tra i due protagonisti: un rapporto fatto di non detto e di sguardi più che di battute, esattamente come la loro comicità, e rappresentato in maniera viva e struggente grazie anche alle prove superbe di John C. Reilly e Steve Coogan. La prova di Coogan è particolarmente efficace perché il suo personaggio deve essere più sottotono, dimesso, ed è quindi costruito sul non detto e sulle microespressioni del viso, laddove Reilly ha dalla sua l'imponente fisicità e una personalità più flamboyant su cui lavorare. La trasformazione di entrambi in Stanlio e Ollio è ugualmente impressionante non solo per la somiglianza fisica, ma anche per la complicità che riescono a creare e per il riuscito contrasto tra le loro maschere cinematografiche e la loro personalità nella vita reale: laddove in scena Stanlio era l'imbranato e Ollio il volitivo sicuro di sè, fuori scena le parti si invertivano, e Stanlio diventava la vera mente della coppia, con Ollio a rappresentarne il cuore. Un cuore malandato, purtroppo, la cui fragilità è la spada di Damocle che incombe per tutto il film, rendendo più amaro ogni sorriso. 

Il finale è esemplificativo in tal senso, ed è destinato a rimanere impresso a lungo nel cuore degli spettatori. È uno di quei rari casi in cui risate e lacrime si mischiano fino a diventare tutt'uno, in un turbine di emozioni che lascerà lo spettatore stravolto ma felice, in una catarsi cinematografica di rara efficacia.

****

Pier