venerdì 7 dicembre 2018

Bohemian Rhapsody

Somebody to Love



Nei sobborghi londinesi, un giovane Freddie Mercury convince Brian May e Roger Taylor, rispettivamente chitarrista e batterista, a ingaggiarlo come cantante per la loro band. Insieme al bassista John Deacon daranno vita ai Queen, diventando una delle band più celebri della storia del rock. Non tutto va liscio, però: il percorso di Freddie alla ricerca della sua identità genera tensioni nella band, portandola sull'orlo dello scioglimento.

Chi sono i Queen? Parliamo senza dubbio di una delle band più popolari di ogni epoca. Ma chi sono davvero? Il dibattito, tra gli esperti e tra i fan, è ancora aperto: alcuni li considerano dei poliedrici innovatori, capaci di reinventarsi di continuo come poche altre band nella storia; altri li ritengono più che altro dei grandissimi intrattenitori, capaci di coinvolgere il pubblico grazie all'orecchiabilità delle loro canzoni e all'irresistibile presenza scenica del cantante, Freddie Mercury, una delle voci migliori (la migliore, per chi scrive) della storia del rock e del pop.

Come raccontare una band e un cantante così complessi e sfaccettati, che sono stati uno, nessuno e centomila? La storia del cinema ci insegna che ci sono fondamentalmente due strade: da un lato si può scegliere di abbracciare questa complessità, realizzando un biopic che racconti le varie facce dei protagonisti senza pretendere di offrirne un ritratto chiaro, quanto un quadro cubista, in cui il soggetto viene presentato allo stesso tempo da varie angolazioni. Questa è la strada intrapresa, per esempio, da Todd Haynes con Io non sono qui (a parere di chi scrive uno dei film migliori degli ultimi 15 anni), in cui Bob Dylan viene raccontato attraverso vari personaggi che non portano nemmeno il suo nome; è anche la strada presa da Aaron Sorkin per raccontare Steve Jobs.


Parallelismi
La seconda alternativa è quella più classica, e forse più facile: scegliere un aspetto dei protagonisti e concentrarsi su quello, rinunciando alla diversità a favore della profondità. Questa è la strada scelta da Bohemian Rhapsody, così come da molti biopic precedenti (Ray, per esempio). Il film si concentra infatti sul percorso di ricerca della propria identità, sia della band che di Freddie, e di come questa abbia influenzato e sia stata influenzata dalle relazioni: tra i membri della band, tra Freddie e le persone a lui care, tra la band e il pubblico.
Bohemian Rhapsody è un film focalizzato sui personaggi, in cui le relazioni sono l’elemento centrale della trama, il primus movens di tutto ciò che vediamo sullo schermo. Questo intento diviene ancora più chiaro se si considerano le "licenze poetiche" che il film si prende rispetto agli eventi originali, finalizzate proprio a portare al centro della vicenda il rapporto tra i membri della band e, soprattutto, quello tra la band e il pubblico, uniti da un legame indissolubile: quello della musica. E la musica dei Queen è la vera protagonista del film, il suo cuore pulsante, l’energia invisibile che lo pervade ed eleva tutte le scene dall'anonimato, toccando le corde emotive dello spettatore come pochi altri film sono riusciti a fare negli ultimi anni.

Bohemian Rhapsody sceglie la strada facile, ma la percorre con una coerenza e una efficacia incredibili, soprattutto considerando l’enorme pressione sotto cui il film è stato realizzato, tra registi assenteisti, intoppi continui e dissensi artistici e produttivi: ingredienti, questi, che solitamente preludono a un disastro (vero, DC?) e che invece qui passano in secondo piano, formando un piatto familiare ma comunque estremamente gustoso.
Certo, rimane il rammarico di aver scelto di raccontare in maniera così semplice e convenzionale una band e un cantante che hanno fatto della non convenzionalità il loro stile di vita, prima ancora che il loro marchio di fabbrica. Un approccio alla Io non sono qui avrebbe probabilmente portato a un film più interessante, più artistico, più coraggioso: in sintesi, un film più “Queen”.
Tuttavia, sarebbe miope e anche un po’ snob negare che il film funziona, e raggiunge gli obiettivi che si prefigge. La connessione tra la band (Freddie in particolare) e il pubblico è palpabile, vibrante, viva, e raggiunge la sua apoteosi nei meravigliosi minuti dedicati all’esibizione del LiveAid: una scena oggettivamente memorabile, immortalata con precisione filologica ma anche con immensa perizia registica, con movimenti di macchina continui e fluidi che trasportano lo spettatore in mezzo al pubblico di Wembley, desiderando di unirsi a loro nel battere le mani a Radio GaGa o nell’inseguire gli incredibili gorgheggi di Freddie.


L’operazione riesce anche grazie alle incredibili prove dei protagonisti, non solo somigliantissimi agli originali (complimenti al casting), ma anche in grado di restituirne le personalità, idiosincrasie comprese. A brillare è ovviamente Rami Malek, qui alla prova della consacrazione. Il suo Freddie Mercury è vivo e vibrante, un mix ineguagliabile di fragilità, carisma, sensibilità, testardaggine, atto creativo e istinto di autodistruzione. Malek brilla in ogni situazione, da quelle più drammatiche (il momento in cui confessa alla band di essere malato) a quelle più flamboyant, come la sua prima performance con loro, o la registrazione di Bohemian Rhapsody. E penso che tutti potremo perdonarlo per il fatto di non aver cantato da solo (qui la spiegazione del singolare processo utilizzato), visto il mostro sacro che si trovava a dover emulare.

Bohemian Rhapsody non è un film che resterà nella storia del cinema, nonostante avesse il potenziale per farlo visto il tema narrato; tuttavia, è innegabile che il film arrivi dritto al cuore, con vari momenti in cui è davvero difficile non emozionarsi e addirittura commuoversi. Più che un film biografico è un tributo, fatto con immenso amore e affetto per un cantante che ci ha lasciato troppo presto e per una band che, con lui, ha lasciato un segno indelebile nella storia del rock e nel cuore del pubblico.

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Pier

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