martedì 30 aprile 2019

Avengers: Endgame

Chiudere con stile


Attenzione: questa recensione contiene spoiler sulla trama

Thanos ha raccolto tutte le Gemme dell'Infinito, e ha dimezzato gli esseri viventi nell'Universo. Gli Avengers superstiti sono decisi a non dargliela vinta, e si mettono sulle sue tracce.

Chiunque si sia mai cimentato in una qualunque forma di attività narrativa vi dirà che chiudere una storia in modo efficace è estremamente complesso: occorre portare a conclusione i vari fili della trama, concludere in modo soddisfacente l'arco dei protagonisti, creare qualche colpo di scena e al tempo stesso dare al pubblico un senso di chiusura. Chiudere male una storia può avere un impatto devastante, rovinando non solo il finale, ma anche la memoria di ciò che è stato, come se tutto ciò cui si è assistito in quel momento venisse improvvisamente privato di senso. 

Avengers: Endgame doveva assolvere alla titanica impresa di concludere una storia dipanatasi attraverso ventidue film per quasi undici anni, e la porta a termine con successo, onorando la memoria di ciò che è stato, orchestrando alla perfezione gli eventi nel presente, e gettando le basi per un futuro incerto ma intrigante.
I fratelli Russo, coadiuvati come sempre da Christopher Markus e Stephen McFeely, elaborano infatti una trama a orologeria, in cui le sorprese sono equamente distribuite nell'arco di tre ore che paiono volare, e in cui tutti gli innumerevoli protagonisti visti in questi undici anni ottengono il loro giusto momento di gloria. La memoria è la vera protagonista del film, e viene declinata in tutte le sue forme: rimorso, rimpianto, nostalgia, apprendimento, parte dell'identità.

I registi mettono in chiaro fin da subito il loro intento, e nel farlo stravolgono le prospettive dello spettatore. Laddove tutti si aspettavano un film incentrato su un nuovo scontro con Thanos, i fratelli Russo decidono di uccidere il Titano nei primi minuti del film, ma non prima di aver rivelato agli Avengers superstiti la terribile verità: ha distrutto le Gemme dell'Infinito, rendendo quindi impossibile ogni tentativo di cancellare la sua opera. Un colpo di scena congegnato alla perfezione, che rende onore sia al talento narrativo degli sceneggiatori, sia alle motivazioni e all'intelligenza di quello che è nettamente il miglior villain dell'universo cinematografico Marvel. Thanos non è un cattivo dei fumetti da operetta, ma un freddo calcolatore mosso da un ideale, per quanto folle, e disposto a dare la vita per vederlo realizzato; non vuole dominare il mondo, ma solo renderlo un luogo migliore. Prima di essere ucciso da Thor, lo vediamo intento a coltivare la terra, lontano da ogni tentazione di mantenere quel potere assoluto che le Gemme gli avevano garantito.


Gli Avengers sono annichiliti, e la parte centrale del film è dedicata all'esplorazione del loro senso di perdita, del loro fallimento. Li ritroviamo cinque anni dopo, sfatti, sconfitti, emotivamente distrutti. Ognuno cerca di reagire in modo diverso, e da questo caleidoscopio emotivo emergono momenti toccanti, comici, introspettivi, in uno strano mix che sembra destinato a fallire e che invece funziona alla perfezione, nonostante alcuni personaggi vengano forse buttati eccessivamente in burletta (Thor su tutti). Ed è in questo momento che riemerge la speranza, nelle fattezze e nei modi più inaspettati: un topo riattiva il tunnel quantico che aveva intrappolato Ant-Man, riportando Scott Lang sulla terra. Chi scrive è un fan sfegatato di Paul Rudd, ma sfido chiunque a non riconoscere la sua straordinaria capacità di rendere umano e vero il suo Scott, forse il personaggio emotivamente meglio riuscito del film. Sarà lui a elaborare un piano per annullare gli effetti della Decimazione: un viaggio nel tempo utilizzando il tunnel quantico, al fine di recuperare le pietre prima di Thanos. La sua folle idea stuzzica la mente degli Avengers, e li porta a tornare a collaborare dopo anni di lontananza: Iron Man ci mette la tecnologia, Capitan America le capacità di leader, e il viaggio nel tempo diventa realtà.

La memoria viene qui affrontata anche in chiave meta-narrativa, riportando i protagonisti ai momenti chiave della loro storia, e facendo rivivere allo spettatore snodi cruciali dei film precedenti, presentandoli sotto diverse angolazioni. Un dietro le quinte che rivela la natura sottile e illusoria dei ricordi che, lungi dall'essere obiettivo come noi ci illudiamo che siano, sono invece solo il risultato di un'elaborazione parziale di quanto successo: ciò che ci sembrava epico è ridicolo agli occhi di qualcun altro, ciò che ci sembrava tragico è in realtà solo parte della vita, un passo necessario per l'evoluzione delle cose e di noi stessi. Allo stesso tempo, tuttavia, il ricordo è anche ciò che ci sostiene, e che permette agli Avengers di continuare a sperare: quando il Thanos del passato scopre del piano degli Avengers, dunque, il ricordo diventa il nemico. L'obiettivo non è più quindi cancellare metà degli esseri viventi, ma obliterarne il ricordo, affinché possa nascere una nuova vita libera dalla memoria di ciò che è stato. 

Se la parte narrativa è pressoché impeccabile, l'unico difetto del film risiede nella fotografia, tornata banale e piatta come in Civil War, bloccata su colori grigio/bluastri che non riescono a essere tragici e che rendono il film incolore per larghi tratti, costretto a sorreggersi sugli effetti speciali per fornire un qualunque tipo di stimolo visivo.
Questo rimane tuttavia un difetto veniale in un film che conclude in modo eccezionale una saga che ci ha accompagnato per più di un decennio, assemblando (è proprio il caso di dirlo) diversi personaggi e diverse storie in un unicum di rara coerenza che costituisce una delle pagine più alte del genere supereroistico e del blockbuster hollywoodiano in generale.

Nel finale il film abbandona la vena introspettiva per lanciarsi in una battaglia campale che non mancherà di dare grandi soddisfazioni ai fan, fino a un finale di devastante portata emotiva, in grado di farci piangere di sofferenza ma anche di gioia per la conclusione semplicemente perfetta degli archi narrativi di alcuni degli eroi più popolari. Non vogliamo dire di più: ognuno potrà riempire questo spazio con il suo ricordo, il suo momento preferito del finale di una saga che rimarrà nei nostri cuori; un finale che non può lasciare indifferenti, e che dà un nuovo significato alla frase che ha accompagnato la campagna promozionale del film: a qualunque costo. 

**** 1/2

Pier

mercoledì 17 aprile 2019

Dumbo - Lo sconsiglio: puntata 18

Il cimitero degli elefanti

Raramente capita di vedere un film ad alto budget realizzato con la sciatteria con cui è stato realizzato Dumbo. La mancanza di convinzione, voglia, energie, e di una qualunque idea creativa è evidente fin dalla prima scena: la sceneggiatura è sciatta e malscritta, con dialoghi stantii e un'evoluzione della trama farraginosa eppur comunque scontata; gli attori svogliati, con un Colin Farrell che nemmeno ci prova, un Danny DeVito che si limita al compitino, un'Eva Green tanto bella quanto annoiata, e i due attori bambini più inespressivi della storia del cinema; le immagini sono piatte, banali, persino quelle in cui sarebbe bastato copiare pedissequamente l'originale, come la sequenza degli elefanti rosa; persino i freaks, uno degli elementi centrali del cinema burtonianonon sono tali, e presentano un character design pigro e mancante di inventiva.

Burton, appunto: Dumbo è probabilmente il punto più basso della sua carriera, che già di recente non era esattamente in formissima: un film talmente inutile da risultare insensato, a meno che non lo si legga come una richiesta di aiuto. Se Dreamland (che non a caso offre alcune delle pochissime sequenze ispirate del film) è chiaramente Disneyland, Dumbo può essere visto come Burton, il freak prigioniero del mondo delle major che lo obbligano a ripetere lo stesso stanco numero tutte le sere, condannandolo a una lenta e deprimente decadenza che strappa il cuore a chi lo ricorda libero e creativo.

Questa l'unica lettura che può salvare Dumbo: quel che resta, è noia. Tanta.

Livello di sconsiglio: Altissimo (*****)


mercoledì 3 aprile 2019

Noi

Tra metafora e horror



1986, West Coast statunitense. La piccola Adelaide si allontana dalla famiglia in un luna park, e vive un'esperienza talmente inquietante da renderla afasica per molto tempo. Anni dopo, ormai cresciuta, Adelaide torna su quei luoghi con la sua famiglia. Una sera, mentre sono in casa, sul vialetto di casa si materializzano dei misteriosi visitatori: è l'inizio di un incubo che costringerà Adelaide a rivivere il suo passato.

Dopo il fulminate esordio di Get Out!, vincitore dell'Oscar per la miglior sceneggiatura, nel suo secondo film Jordan Peele non rinuncia alla commistione tra horror e critica sociale che era stata la forza del primo. La sua ambizione, però, vola alto, e ci regala un film immensamente più coraggioso ed evocativo, capace di inquietare con la sola forza delle immagini, dimostrando di aver imparato quella lezione impartita da Alfred Hitchcock e che molti registi di genere sembrano costantemente dimenticare.

La scena di apertura è una gioia visiva, in cui il lento incedere della macchina da presa, divisa tra la soggettiva della piccola Adelaide e un occhio esterno e inquietante, riesce a trasformare una passeggiata in un normalissimo luna park in una discesa agli inferi. I suoni si distorcono in maniera impercettibile, ma quel tanto che basta perché un profondo senso di inquietudine si impadronisca dello spettatore. Questa inquietudine pervade tutto il film, svanendo soltanto durante la parte centrale del film, in cui la regia si fa più piatta e convenzionale (con qualche eccezione, come le scene con il personaggio di Elizabeth Moss, eccezionale come sempre), accontentandosi degli stilemi del genere horror e piegandosi alla logica degli jump scares, degli assalti improvvisi, e dello splatter. I venti minuti finali, tuttavia, sono di una potenza visiva immensa, in cui i simboli introdotti nella prima metà del film sembrano prendere vita e diventano il cuore pulsante della storia. Tra balli, conigli, e tunnel sotterranei deserti, il film risorge a nuova vita, raccontando in quei pochi minuti l'America e la nostra psiche come pochi altri hanno saputo fare.

Laddove Noi ha una padronanza del mezzo cinematografico molto migliore di Get Out!, nella sceneggiatura si dimostra invece un passo indietro. La metafora dei cloni per parlare della disparità sociale funziona e convince appieno, ma l'integrazione tra questo elemento e il genere horror è invece malriuscita. In Get Out! il genere diventava un mezzo perfetto per veicolare il messaggio di critica sociale; in Noi, invece, il genere diventa una pastoia, che rallenta il film anziché elevarlo, costringendolo nei suoi stilemi anziché metterli al servizio della storia. Se nella parte iniziale del film il meccanismo classico della casa sotto assedio funziona e si integra alla perfezione nella trama, le ripetute ed estenuanti fughe e combattimenti con i Tethered cessano quasi subito di essere interessanti per diventare una formula trita e ritrita, che oltretutto finisce per distogliere l'attenzione dal tema e dal messaggio del film. Nella parte centrale del film ci sono paradossalmente più momenti pensati per essere spaventosi, ma pochissimi spaventi. 


La sceneggiatura zoppica anche in uno di quelli che dovrebbero essere i punti di forza di Peele, ovvero l'umorismo nero. In Get Out! lo humor scaturiva naturalmente dalle vicende narrate, e spesso esplodeva nei momenti più inappropriati, generando un effetto di straniamento che contribuiva all'atmosfera del film. In Noi, invece, i momenti comici sembrano quasi incollati con lo scotch, e scaturiscono quasi sempre dal marito di Adelaide, cui viene inopinatamente assegnato il ruolo di spalla comica e che finisce per non fare quasi mai ridere.

La recitazione è invece un punto di forza del film: Lupita Nyng'o offre una prova superba, eccezionale nella sua caratterizzazione di Adelaide e del suo clone, così diverse eppure così simili. Accanto a lei brillano i due giovani attori che interpretano i suoi figli, anche loro splendidi nella loro capacità di dare vita a due diverse incarnazioni dello stesso personaggio. Shahadi Wright Joseph diventa lentamente la guida spirituale della famiglia, mentre Evan Axel Cole ne è la coscienza silenziosa, cui viene affidata (con successo) la scena forse più importante dell'intero film, quantomeno in termini narrativi.

Noi funziona dunque meglio quando ha il coraggio di staccarsi dal genere cui dice di appartenere, usandone temi e stilemi per parlare di ciò che gli sta a cuore. Non è un caso che il film torni a librarsi altissimo nel finale, che torna sui toni e le atmosfere dei primi venti minuti, concentrandosi sulle immagini e sulle metafore piuttosto che sull'azione, e riuscendo quindi a immergere nuovamente lo spettatore nell'inquietudine e nelle scomode riflessioni sollevati dalla prima parte.
Noi è paradossalmente un horror di media qualità, ma un grandissimo film. La metafora di Peele sembra semplice, ma è in realtà estremamente profonda e stratificata, e si insinua nella mente dello spettatore, mettendovi radici e costringendolo a riflettere su quanto visto anche dopo la visione.

****

Pier