1986, West Coast statunitense. La piccola Adelaide si allontana dalla famiglia in un luna park, e vive un'esperienza talmente inquietante da renderla afasica per molto tempo. Anni dopo, ormai cresciuta, Adelaide torna su quei luoghi con la sua famiglia. Una sera, mentre sono in casa, sul vialetto di casa si materializzano dei misteriosi visitatori: è l'inizio di un incubo che costringerà Adelaide a rivivere il suo passato.
Dopo il fulminate esordio di Get Out!, vincitore dell'Oscar per la miglior sceneggiatura, nel suo secondo film Jordan Peele non rinuncia alla commistione tra horror e critica sociale che era stata la forza del primo. La sua ambizione, però, vola alto, e ci regala un film immensamente più coraggioso ed evocativo, capace di inquietare con la sola forza delle immagini, dimostrando di aver imparato quella lezione impartita da Alfred Hitchcock e che molti registi di genere sembrano costantemente dimenticare.
La scena di apertura è una gioia visiva, in cui il lento incedere della macchina da presa, divisa tra la soggettiva della piccola Adelaide e un occhio esterno e inquietante, riesce a trasformare una passeggiata in un normalissimo luna park in una discesa agli inferi. I suoni si distorcono in maniera impercettibile, ma quel tanto che basta perché un profondo senso di inquietudine si impadronisca dello spettatore. Questa inquietudine pervade tutto il film, svanendo soltanto durante la parte centrale del film, in cui la regia si fa più piatta e convenzionale (con qualche eccezione, come le scene con il personaggio di Elizabeth Moss, eccezionale come sempre), accontentandosi degli stilemi del genere horror e piegandosi alla logica degli jump scares, degli assalti improvvisi, e dello splatter. I venti minuti finali, tuttavia, sono di una potenza visiva immensa, in cui i simboli introdotti nella prima metà del film sembrano prendere vita e diventano il cuore pulsante della storia. Tra balli, conigli, e tunnel sotterranei deserti, il film risorge a nuova vita, raccontando in quei pochi minuti l'America e la nostra psiche come pochi altri hanno saputo fare.
Laddove Noi ha una padronanza del mezzo cinematografico molto migliore di Get Out!, nella sceneggiatura si dimostra invece un passo indietro. La metafora dei cloni per parlare della disparità sociale funziona e convince appieno, ma l'integrazione tra questo elemento e il genere horror è invece malriuscita. In Get Out! il genere diventava un mezzo perfetto per veicolare il messaggio di critica sociale; in Noi, invece, il genere diventa una pastoia, che rallenta il film anziché elevarlo, costringendolo nei suoi stilemi anziché metterli al servizio della storia. Se nella parte iniziale del film il meccanismo classico della casa sotto assedio funziona e si integra alla perfezione nella trama, le ripetute ed estenuanti fughe e combattimenti con i Tethered cessano quasi subito di essere interessanti per diventare una formula trita e ritrita, che oltretutto finisce per distogliere l'attenzione dal tema e dal messaggio del film. Nella parte centrale del film ci sono paradossalmente più momenti pensati per essere spaventosi, ma pochissimi spaventi.
La sceneggiatura zoppica anche in uno di quelli che dovrebbero essere i punti di forza di Peele, ovvero l'umorismo nero. In Get Out! lo humor scaturiva naturalmente dalle vicende narrate, e spesso esplodeva nei momenti più inappropriati, generando un effetto di straniamento che contribuiva all'atmosfera del film. In Noi, invece, i momenti comici sembrano quasi incollati con lo scotch, e scaturiscono quasi sempre dal marito di Adelaide, cui viene inopinatamente assegnato il ruolo di spalla comica e che finisce per non fare quasi mai ridere.
La recitazione è invece un punto di forza del film: Lupita Nyng'o offre una prova superba, eccezionale nella sua caratterizzazione di Adelaide e del suo clone, così diverse eppure così simili. Accanto a lei brillano i due giovani attori che interpretano i suoi figli, anche loro splendidi nella loro capacità di dare vita a due diverse incarnazioni dello stesso personaggio. Shahadi Wright Joseph diventa lentamente la guida spirituale della famiglia, mentre Evan Axel Cole ne è la coscienza silenziosa, cui viene affidata (con successo) la scena forse più importante dell'intero film, quantomeno in termini narrativi.
Noi funziona dunque meglio quando ha il coraggio di staccarsi dal genere cui dice di appartenere, usandone temi e stilemi per parlare di ciò che gli sta a cuore. Non è un caso che il film torni a librarsi altissimo nel finale, che torna sui toni e le atmosfere dei primi venti minuti, concentrandosi sulle immagini e sulle metafore piuttosto che sull'azione, e riuscendo quindi a immergere nuovamente lo spettatore nell'inquietudine e nelle scomode riflessioni sollevati dalla prima parte.
Noi è paradossalmente un horror di media qualità, ma un grandissimo film. La metafora di Peele sembra semplice, ma è in realtà estremamente profonda e stratificata, e si insinua nella mente dello spettatore, mettendovi radici e costringendolo a riflettere su quanto visto anche dopo la visione.
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Pier
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