venerdì 26 luglio 2024

Fuga in Normandia (In pillole #28)

Fare i conti con il passato


La storia (vera) della rocambolesca fuga in Normandia di un veterano inglese del D-day residente in casa di riposo è in realtà un pretesto per parlare di uno dei temi più presenti e, evidentemente, pressanti del cinema contemporaneo: la memoria. Il racconto del viaggio si interseca infatti con i ricordi di Bernard, che in Normandia ci andò ben due volte, e di Rene, che ricorda il loro incontro, il dolore nel vederlo partire, e la loro vita insieme. Ma si interseca anche con la memoria di interi popoli e nazioni, rappresentati dalle persone che Bernard incontra durante il suo viaggio: altri reduci, tormentati da ricordi indelebili, da colpe irrimediabili per cui l'unica speranza sono l'assoluzione e il dolce balsamo dell'oblio.

Fuga in Normandia è anche un film che parla di pace, di dialogo, dell'orrore della guerra che travolge persone che si trovano per puro caso dalle due parti opposte della barricata, e che in tempi normali potrebbero condividere una birra, e che sono unite da un dolore immenso, che può però divenire occasione di riconciliazione, come suggerito in una delle scene più riuscite del film.

Il grande merito di William Ivory (sceneggiatore) e Oliver Parker (regista) è quello di riuscire ad affrontare questi temi senza retorica e senza indulgere nello sdolcinato, ma alternando sapientemente momenti divertenti a momenti di grande potenza emotiva. A sostenerli ci sono le superbe prove di Michael Caine e Glenda Jackson, che si offrono alla macchina da presa senza aver paura di mostrare i segni della vecchiaia, regalandoci una coppia memorabile per complicità e realismo, e mostrando al pubblico il vero significato della parola "amore." 

Questo film, che sarà per entrambi il loro ultimo lavoro, (Caine ha annunciato il ritiro dalle scene, mentre Jackson è morta poco dopo la fine delle riprese) è un testamento perfetto a due carriere esemplari, e a una storia finora sconosciuta ma che invece ha tanto da insegnarci sui lati più oscuri e più brillanti della natura umana.

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Pier

sabato 20 luglio 2024

Fremont

Poesia della solitudine


Costretta a lasciare l'Afghanistan, dove lavorava come interprete per l'esercito USA, dopo il ritorno al potere dei Talebani, Donya ora vive a Fremont e lavora a San Francisco in un'azienda che produce biscotti della fortuna. La ragazza cerca di ricostruirsi una vita, facendosi strada tra i traumi del passato che le impediscono di dormire e personaggi bizzarri ma ricchi di cuore.

Ci sono film che ti fanno uscire dal cinema con il cuore pieno di bellezza e poesia, un sorriso stampato sul volto. Fremont è uno di quei film: un film all'apparenza semplice, senza pretese, che però entra sotto pelle per la sua capacità di trattare temi complessi senza pietismo né retorica, ma semplicemente attraverso immagini, dialoghi, e personaggi cui è impossibile non affezionarsi. 

Babak Jalali, coadiuvato alla scrittura dalla milanese Carolina Cavalli, firma un'opera che ricorda il Jarmush delle origini, sia per lo splendido bianco e nero con cui viene fotografata, sia per una storia i cui ingredienti sono una spolverata di humor dell'assurdo e tante solitudini che si incontrano quasi per caso e si riconoscono, rispettando i dolori e i non detti l'uno dell'altra e trovando una connessione umana ed emotiva.

Donya è straniata, fa parte di più mondi senza appartenere davvero a nessuno: alcuni afghani della sua comunità la respingono perché ha collaborato con il nemico, la moglie del suo capo non si fida di lei perché non è cinese, e non riesce (e forse non vuole) a integrarsi nella società statunitense. Il suo passato è fatto di traumi, e solo nelle sedute psicologiche con l'eccentrico dottor Anthony riesce a far emergere ciò che ha a lungo sopito, i mostri che intuiamo dai suoi lunghi ma eloquentissimi silenzi. Jalali tuttavia non indulge nel dramma, ma si focalizza sulle relazioni, sui legami sottili e poi sempre più spessi che portano Donya a uscire dal suo isolamento, a ritrovare la sua socialità, come lo Zanna Bianca spesso citato dal dottor Anthony durante le sedute. 

Oltre al dottore, ad aiutarla ci sono un capo cinese dallo humor particolare che vede la produzione di biscotti della fortuna come un'arte che va affinata e coltivata, e ha imparato nel tempo a leggere il cuore delle persone; una collega in cerca di amore e dalla voce d'angelo; un conterraneo generoso; e un meccanico intrappolato in una solitudine malinconica, ancora più inesorabile di quella di Donya. Quest'ultimo, interpretato magistralmente da Jeremy Allen White (il Carmy Berzatto di The Bear), con poche scene ci fa intuire un mondo fatto di isolamento, lavoro, e disperato desiderio di una connessione umana.

Fremont è una piccola perla poetica, dolce, esistenzialista, che racconta con efficacia la solitudine e la battaglia invisibile che molti affrontano per sconfiggerla: parla di temi drammatici senza essere un dramma e, anzi, flirtando a tratti con la commedia. È un film pieno di silenzi, ma parla con forza al cuore. È un film fatto di niente, ma racconta tutto. Non perdetelo. 

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Pier






mercoledì 19 giugno 2024

Inside Out 2

La complessità del Sé


La vita di Riley scorre tranquilla, fino a quando, un giorno, non diventa ufficialmente una teenager. Nuove emozioni affollano la sala di controllo, e il passaggio al liceo e un camp estivo di hockey mettono in crisi il concetto di Sé di Riley e, con essa, anche Gioia e la sua visione del mondo, travolta dalla forza dirompente di Ansia, decisa a far sì che Riley si integri nel suo nuovo ambiente - a qualunque costo.

Chi siamo? La domanda delle domande, che cominciamo a porci davvero durante l'adolescenza e cui, man mano che si cresce, diviene sempre più complesso rispondere. Dall'immagine chiara, bidimensionale, ben definita dell'infanzia passiamo gradualmente a un poligono a più facce, una miscela in continua evoluzione che può essere tutto e il contrario di tutto: l'essere umano, in fondo, è fatto di contraddizione.

Intorno a questa domanda e a questo passaggio ruota il seguito di Inside Out: se il primo capitolo si concentrava sull'importanza di accettare la complessità emotiva (anche la tristezza è importante per crescere e essere persone complete), il secondo punta sull'importanza di accettare la complessità del Sé, in tutte le sue sfaccettature. Riley cresce, e con la crescita arrivano le prime pressioni sociali, i primi traumi, e le prime ansie: ansia di essere inadeguata, ansia di deludere le persone care, ansia di rimanere sola. 

Non è un caso che Ansia sia la nuova emozione che domina la scena e che prende il controllo della "console" che guida le azioni e reazioni di Riley, strappandola a Gioia. Accanto a lei ci sono Imbarazzo, Invidia, ed Ennui/Noia: emozioni più complesse, adulte, e "sociali" rispetto a quelle basilari che caratterizzavano il primo film. Inside Out 2 è anche un film sulla socialità adolescenziale, e su come possa mettere in crisi ragazzi e ragazze ancora fragili e insicure: nessuna delle potenziali compagne di hockey di Riley ha atteggiamenti da bullo, eppure Riley va comunque in crisi, stretta com'è tra il desiderio di essere accettata e la paura paralizzante di non essere all'altezza. 

Kelsey Mann (che sostituisce Pete Docter alla regia), Meg LeFauve (già sceneggiatrice del primo capitolo) e Dave Holstein non tremano di fronte alla titanica impresa di dare un seguito a uno dei capolavori della Casa della Lampadina, anzi: danno sfogo a tutta la loro creatività per restituire a livello narrativo e visivo concetti complessi come l'attacco di panico, il sarcasmo (battuta eccezionale che si perde nella traduzione italiana), il concetto di sè, l'inconscio, la soppressione di emozioni e ricordi, dando vita a un caleidoscopio inventivo che non ha nulla da invidiare a quanto fatto nel primo film, cui però ovviamente resta debitore. 


La trama scorre che è un piacere, e il percorso di (ri)costruzione e accettazione del Sè di Riley tocca tutte le corde emotive giuste, commuovendo e facendo riflettere lo spettatore, culminando in una scena finale semplice ma tremendamente efficace. Il film ha anche un altissimo valore pedagogico, sia per i ragazzi che per i genitori, in quanto racconta efficacemente le pressioni sociali e l'ansia che attanagliano la nostra epoca, e i giovani (e ormai non più giovani, come direbbe Zerocalcare) in particolare, e insegnano l'importanza di accettare chi si è in modo completo, senza cercare forzatamente di nascondere i nostri lati meno nobili: un messaggio universale che, nell'era dell'apparire e del mito della performance esibita ed esaltata, risuona ancora più forte.

Le nuove emozioni si inseriscono alla perfezione senza sacrificare quelle che già conosciamo. Se Ansia fa la parte del leone e ha probabilmente la scena più potente e di impatto del film, Imbarazzo conquista per la sua dolcezza e spirito di iniziativa, ed Ennui è la perfetta rappresentazione del tedio adolescenziale, persino nel modo in cui interagisce con la console. Tra le vecchie conoscenze, a brillare questa volta è Gioia, finalmente liberata da quell'aspetto da "prima della classe" e costretta ad affrontare le sue insicurezze e a mettere in discussione la sua visione del mondo.

Il comparto tecnico supera ancora una volta se stesso: la fluidità di movimenti e inseguimenti è perfetta, e la resa delle emozioni come un insieme di particelle brillanti ed evanescenti, in continuo movimento, stupisce per pulizia e realismo della texture. Tuttavia, Inside Out 2 non si limita alla ormai abituale eccellenza visiva e cromatica nell'uso della computer grafica. Come nel primo film, ci sono scene realizzate con tecniche di animazioni differenti, dall'animazione tradizionale alla stop motion con la tecnica del paper cut, che si inseriscono perfettamente nella narrazione e restituiscono una diversità creativa che eleva valore artistico del film. 

Inside Out 2 conquista la palma di miglior secondo capitolo Pixar dai tempi di Toy Story 2, e lo fa grazie a una storia che segue naturalmente e fluidamente quella del primo capitolo, arricchendolo di complessità senza tradirne lo spirito. Non può, ovviamente, raggiungere la dirompente originalità dell'originale, ma non ci va lontano, e racconta una storia che intratterrà i più piccoli e lascerà i più grandi con gli occhi aperti e gonfi di emozioni: gioia, tristezza, ansia, e stupore e, perché no, nostalgia.

**** 1/2

Pier

lunedì 3 giugno 2024

Furiosa - A Mad Max Saga

Dall'ira funesta al multiforme ingegno


Da qualche parte nel deserto postatomico c'è un luogo verde. Una bambina viene strappata da questo piccolo Eden, e trascinata nelle Terre Desolate dagli uomini di Dementus, un signore della guerra dal fare teatrale dotato di quella crudeltà che deriva dal nichilismo. La bambina inizia così una lotta pluriennale per tornare a casa. Il suo nome: Furiosa.

Sono passati nove anni dall'uscita di Mad Max: Fury Road, eppure sembrano passati pochi mesi, tanto forte è stata la presa di quel film sull'immaginario collettivo. Miller tornava a girare un film della saga che lo aveva reso famoso con un film di puro Cinema, fatto di immagini  che raccontavano una storia senza bisogno delle parole: il sogno di Alfred Hitchcock, ma traslato in un futuro postapocalittico steampunk dai colori ipersaturati (ma anche la versione in bianco e nero era memorabile) e dal ritmo ipercinetico, un inno al movimento che avrebbe fatto la gioia dei futuristi. Il cinema d'autore che incontra il genere, lo stravolge, e ne ridefinisce canoni e immaginario, creando un'epica.

Ma di che epica parliamo? Miller con Mad Max: Fury Road realizzava la sua personale Iliade, la storia di una battaglia furiosa che si svolgeva sulla strada anziché intorno alle mura di una città. Fury Road raccontava una storia fatta di urla, strepidi, grida, ire funeste, e ratti di fanciulle; una storia fatta di sangue, forza, armi e morti nobili e meno nobili. Con Furiosa Miller cambia poema omerico, e passa all'Odissea, narrando una storia di sopravvivenza, resilienza, astuzia; la storia di un travagliato ritorno a casa, fatto di qualche passo avanti e tanti passi indietro, un ritorno che si concluderà solo nell'ultimo capitolo che costituisce una delle sottotrame di Fury Road.


Prima e dopo

Che Miller veda i suoi racconti come dei poemi epici del futuro è evidente non solo dalle sue parole (qui trovate una bella intervista), ma anche dalle scelte narrative: uno dei personaggi chiave di Furiosa è un aedo aborigeno, un cantastorie che conserva la memoria di ciò che fu e plasma quella di ciò che sarà. La sua Odisseo è Furiosa, che vediamo strappata alla sua casa e, attraverso gli anni e i capitoli, cercare più volte di ritornarci, i suoi tentativi ogni volta frustrati da mostri terribilmente umani. Alyla Browne prima e Anya Taylor-Joy la incarnano alla perfezione, ritratto dello stoicismo e dell'astuta determinazione a sopravvivere, guidate da un sogno e da una vendetta. 

Al posto di Scilla e Cariddi, Furiosa incontra tempeste di sabbia; al posto del mare, il deserto; al posto di Polifemo, il mostruoso figlio di Immortan Joe. Al posto di Poseidone, il villain principale dell'Odissea, troviamo Dementus, che ricompare regolarmente ogni volta che Furiosa sembra aver trovato un minimo di serenità. Dementus è uno specchio distorto della protagonista, segnato da traumi simili che però lo portano a scelte completamente diverse. È un agente del caos, un fool shakespeariano fattosi re, destinato a portare devastazione in terre già desolate a causa del suo fatale mix di crudeltà e incompetenza, perfettamente incarnate da un Chris Hemsworth gigione ma terrificante. Il contrasto tra Dementus e Immortan Joe è forse uno dei punti più interessanti di un film che, come Fury Road, ne contiene almeno altri cinque - storie che ci piacerebbe esplorare, conoscere, ma che vengono solo accennate, contribuendo alla profondità del mondo immaginato da Miller. Dementus e Immortan Joe, dicevamo: due tiranni crudeli, così simili nei metodi ma così diversi sotto una dimensione, quella della competenza. Laddove Dementus manda in malora tutto quello che tocca, Immortan Joe riesce a mantenere ordine nella Cittadella: un caveat su come l'incompetenza, oltre alla crudeltà, sia ciò che può causare guerre e la morte dell'umanità.


Il cambio di modello epico si riflette in un ritmo del racconto più riflessivo, per quanto nella seconda metà raggiunga i livelli cinetici del suo predecessore. Questo non vuol dire, tuttavia, che ci sia maggior spazio per le parole: Furiosa dice 35 battute in tutto il film. A parlare sono sempre le immagini, e ancora una volta, nonostante le fiamme in CGI, sono uno spettacolo per gli occhi. Ogni inquadratura offre una cornucopia di dettagli, tra bighe-motocicletta, alianti che sembrano enormi polipi volanti, e poveri coltivatori di vermi. Ogni combattimento e inseguimento è una masterclass di come si dovrebbe girare un film d'azione per immergere lo spettatore nella vicenda, senza fargli perdere nemmeno un dettaglio. 

Miller sa quello che vuole raccontare, e lo racconta con una sicurezza e un'inventiva incredibili, senza indulgere mai nel citazionismo (il film è pienamente godibile anche da chi non avesse mai visto un film della saga) ma arricchendo ulteriormente un universo che è già iconico ma continua a rinnovarsi e a espandersi, creando nuovi riferimenti e nuove icone. Quella di Miller, come quella di Omero, è di fatto un'unica storia, che dietro personaggi formidabili e avventure incredibili cela un messaggio ben chiaro su quanto gli uomini siano la causa della propria rovina con la loro sete di potere e incapacità di collaborare. Sopravvive solo chi riesce a sacrificarsi per gli altri, a trovare una causa in cui credere per diventare protagonista di una storia che le Muse canteranno per l'eternità, nel Valhalla e oltre.

Ancora una volta: ammiratelo.


**** 1/2

Pier

venerdì 3 maggio 2024

Challengers

Luca, spostati e fammi vedere il film


Challengers è un piatto con ingredienti di altissima qualità (con un'eccezione, ci torneremo). La fotografia è scultorea, vibrante, e unisce la vitalità delle statue greche a un dinamismo futurista, ritraendo corpi in movimento, sensuali, plastici, inafferrabili. Gli interpreti sono semplicemente perfetti, semidei sportivi che trasudano competizione, erotismo, vita. Josh O' Connor ruba la scena con un perfetto cialtrone di talento, Zendaya ci rivela come sarebbe una Lady Macbeth con l'ossessione per il tennis, anziché per il potere, e Mike Faist è ottimo nella parte di un finto cerebrale in balia delle proprie emozioni. La colonna sonora di Trent Reznor e Atticus Ross è un capolavoro, un incedere inesorabile di ritmi elettronici che fa battere il cuore del film e lo trascina in avanti, accompagnato da un montaggio insistente, visibile e creativo a opera di Marco Costa.

Eppure. Eppure qualcosa, nella cucina, non funziona. In primo luogo, la sceneggiatura, l'unico ingrediente fuori posto, come l'ananas sulla pizza: troppo ellittica, che costringe il montatore agli straordinari, con continui taglio di montaggio che, pur ben gestiti a livello tecnico, sono talmente abbondanti che a tratti sembra di assistere alla parodia di un film di Christopher Nolan. I continui saltabecchi temporali finiscono per confondere lo spettatore e, ancor peggio, allontanarlo emotivamente dalla vicenda narrata. I personaggi sembrano sballottati da una scena all'altra e, spesso, mancano di reali motivazioni: se non fosse per la bravura degli interpreti, le loro azioni risulterebbero forzate o addirittura insensate, soprattutto per quanto riguarda il personaggio interpretato da Mike Faist: un tennista vincente che non vediamo mai vincere, un innamorato che non vediamo mai palpitare di passione. La scena finale, che molti hanno trovato commovente (e potrebbe esserlo, se solo percepissimo una vera tensione tra i protagonisti) è semplicemente insensata dal punto di vista sportivo.

In secondo luogo, la regia. Guadagnino perde completamente il controllo del dosaggio degli ingredienti, a partire dalla fotografia. Guadagnino, che con Chiamami col tuo nome e Bones and all sembrava aver imparato a tenere sotto controllo gli eccessi estetizzanti degli esordi (le api impollinatrici di Io sono l'amore infestano ancora gli incubi dei cinefili di mezzo mondo), mettendo il suo ottimo occhio al servizio della storia, anziché il contrario, ricade nell'antico vizio come un alcolista recidivo, esibendosi in una prova di sorrentinismo deteriore, dove l'estetica prevale sul contenuto al punto di strozzarlo e ucciderlo (e, aggiungiamo, senza raggiungere le vette estetiche di cui è comunque capace Sorrentino). Le sequenze di tennis sono a tratti splendide, olimpiche, ma a tratti tremendamente confuse a causa di un uso sconsiderato della soggettiva - sia dei personaggi, sia della pallina stessa: un puro esercizio di stile, che però distrugge il pathos costruito in altri momenti.

La fotografia non è l'unico ingrediente che Guadagnino sbaglia a dosare. La musica è onnipresente, sparata a tutto volume a coprire anche i dialoghi: una scelta ben precisa, ma di cui si fatica a capire il senso, e che contribuisce ancora una volta a eliminare ogni parvenza di realismo e, di conseguenza, a non percepire la tensione che dovrebbe divorare i personaggi.

Challengers è comunque un film soddisfacente. È cinetico, plastico, ha un buon ritmo e intrattiene. È forse il film più "commerciale" (in senso buono) della cinematografia di Guadagnino. Eppure lascia una sensazione di occasione sprecata, di un potenziale capolavoro travolto da un peccato di hubris che fa sì che l'aggregato sia inferiore alla somma delle parti, e che lo spettatore voglia rivolgere al regista la richiesta che Dino Risi rivolgeva al Nanni Moretti regista agli esordi: "Nanni, bravo, ma ora spostati e fammi vedere il film."

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Pier 

sabato 13 aprile 2024

C'è vita lontano da Roma

Buone notizie dal cinema italiano

Italia, anno 2024: in sala ci sono tre film italiani che stanno incassando bene e stanno anche avendo un ottimo riscontro anche dalla critica.


No, non è la trama di un film distopico, ma la realtà: in rigoroso ordine di uscita, Un mondo a parte, di Riccardo Milani (voto 7), Zamora (voto 9), esordio alla regia di Neri Marcoré, e Gloria! (voto 8) esordio alla regia dell'attrice e cantante Margherita Vicario, stanno riscuotendo successo sia tra il pubblico che tra gli addetti ai lavori. Al frequentatore delle sale e conoscitore del cinema italiano degli ultimi decenni salta subito all'occhio un dettaglio, un'anomalia quantistica: nessuno di questi tre film è ambientato a Roma.

Si è spesso discusso del romanocentrismo del cinema italiano, discorso scivoloso che spesso sfocia nel campanilismo se non in una vera e propria discriminazione territoriale. Proprio per questo, il discorso è stato spesso sterile, e si è concentrato su un sintomo anziché sul problema. Il sintomo era la presenza di tantissime maestranze romane, dai registi e gli autori ad attori e attrici, con conseguente prevalenza di una parlata locale e localizzata. Da qui, inutili strali contro gli eccessi di daje, famo, annamo, da una parte, e la difesa della storica centralità di Roma per il cinema italiano dall'altra. 

La serie di sketch "A piedi scarzi", di Emanuela Fanelli, parodizza il romanocentrismo del cinema italiano

Il problema, tuttavia, non erano le maestranze: se ambienti un film a Roma è normale, anzi, sacrosanto che le voci, i volti, e i temi riflettano l'ambientazione stessa. Il problema erano le idee di partenza, una certa ripetitività tematica che tutti riconoscevano, ma che nessuno, nemmeno i critici del romanocentrismo, attribuiva alla poca varianza nelle location. I luoghi, tuttavia, non sono meri sfondi, ambientazioni: sono anche l'ispirazione delle storie, o addirittura co-protagonisti delle stesse. Impossibile pensare a I soliti ignoti al di fuori del contesto romano, o a Chiedimi se sono felice senza lo sfondo milanese, o a È stata la mano di Dio senza Napoli. Il problema era, dunque, che a una ripetitività di location corrispondeva una ripetitività di temi, che però portava a sua volta a perpetuare la ripetitività di location (perché tutti siamo ispirati da ciò che ci vediamo e ci circonda), in un circolo vizioso che a volte produceva comunque grandi successi (C'è ancora domani su tutti) ma nella maggior parte dei casi portava all'ennesima versione della solita minestra.

"Fuggendo" da Roma, affrancandosi da una forma mentis dominante che portava a un omogenizzazione del dove, e dunque del "cosa", Milani, Marcoré, e Vicario sono riusciti a trovare voci e storie nuove, fresche, originali, e al tempo stesso sbugiardare il falso problema dell'origine geografica degli autori: Milani e Vicario sono, infatti, romani, e Marcoré (marchigiano) vive a Roma ormai da otto anni.


Un mondo a parte
inizia proprio come una fuga dalla capitale del protagonista, l'insegnante delle elementari interpretato da Antonio Albanese: una fuga alla ricerca di se stessi, di una vita più vera, di uno sguardo nuovo, che sembra un riflesso di quella operata da Riccardo Milani, che dopo un'intera carriera spesa all'ombra del Cupolone, in Abruzzo ha trovato una storia nuova eppure antica, che parla al passato ma anche al futuro: la storia di un paese a rischio di morte, ma che trova sempre la forza di sopravvivere, tra crisi emotive ed espedienti esilaranti. Un mondo a parte parla del nostro complesso rapporto con la natura e con i luoghi da cui veniamo - un tema ineludibile, fatto di felicità e sofferenza, di gente che parte e gente che resta, e che non troverà mai una facile soluzione. Il film ha un andamento sincopato, con alcuni episodi che sembrano fuori posto e distonici, ma nel complesso funziona e cattura grazie alla sua capacità di parlare all'attualità e alla simpatia dei protagonisti, sia giovani (tutti non attori dei luoghi dove è girato il film, intorno a Pescasseroli) che esperti, con Virginia Raffaele che strappa la maggior parte delle risate. 


Marcoré e Vicario fuggono più lontano, sia nello spazio che nel tempo. Il primo ci porta a Milano (e Vigevano) negli anni Sessanta, con una storia delicata e poetica che si muove tra il primo Pupi Avati ed Ermanno Olmi (gli echi de Il posto sono evidenti) e che racconta l'emancipazione emotiva e sentimentale di un ragazzo che diventa uomo e si apre al mondo, imparando - letteralmente e metaforicamente - a tuffarsi. La storia è divertente e commovente, molto ben scritta, e non scontata, nemmeno nel finale. Offre uno splendido sguardo sulla Milano (e sull'Italia) dell'epoca, tra capitani d'industria con la passione per il calcio e fantozziane partite scapoli-ammogliati, la paura di spostarsi nella grande città, un mostro lontano e quasi mitologico, e il sottobosco umano cantato da Gaber (cui coincidenza vuole che Riccardo Milani abbia dedicato un ottimo documentario) e Jannacci. 
Marcoré azzecca in pieno anche il casting, con un giusto mix tra facce fresche e volti noti della comicità milanese. Tra i primi spiccano il protagonista Alberto Paradossi, perfetto per il ruolo, Anna Ferraioli, splendida nel ruolo di sua sorella, e Marta Gastini, che interpreta uno degli interessi amorosi più interessanti e ben scritti visti al cinema negli ultimi anni. I secondi sfoggiano qualche "gloria di Internet" (due membri de Il terzo segreto di Satira, ambedue perfettamente in parte) e vecchi leoni capitanati da Marcoré stesso e da Ale, Franz, Giovanni (Storti) e Giacomo (Poretti) - quest'ultimo presente solo in un cameo che però vale da solo il prezzo del biglietto.


Vicario invece ci porta a Venezia, a inizio Ottocento, e ci racconta la storia dimenticata degli istituti musicali per giovani orfane, che venivano avviate alla musica e alla composizione, chiusi da Napoleone nel 1807. Anche Vicario racconta una storia di emancipazione e ribellione, un racconto fanta-storico con geniali anacronismi musicali alla Maria Antonietta, che però vengono calati realisticamente nella trama e nella tradizione musicale d'epoca: uno sforzo creativo notevole, che però lascia forse un po' di rammarico pensando a cosa avrebbe potuto essere se Vicario avesse sciolto del tutto le briglie della fantastoria, facendo la sua versione "musicale" del finale di Bastardi senza gloria. Il risultato è comunque splendido, grazie a un fatto storico poco noto ma ricco di spunti, una regia già molto solida e originale (il film era, meritatamente, in concorso all'ultima Berlinale), e soprattutto a personaggi che catturano lo spettatore. Anche Vicario, come Marcoré, sfrutta alla perfezione un mix di volti nuovi - tutte le ragazze, tra cui spiccano Carlotta Gamba, Maria Vittoria Dallasta, e Veronica Lucchesi de La rappresentante di lista, e vecchi leoni della comicità settentrionale, da Elio a Natalino Balasso, passando per un Paolo Rossi perfetto nel ruolo di un prete-compositore viscido e arrogante.

C'è vita, dunque, lontano da Roma: nuovi volti, nuove storie, nuove prospettive. Prospettive che possono aiutare a "rinfrescare il repertorio" anche una volta tornati a girare nella capitale: perché il problema non è il luogo, ma cercare di mantenere lo sguardo aperto verso l'orizzonte del nuovo.

Pier

lunedì 1 aprile 2024

American Fiction

Contro l'ipocrisia


Thelonious Ellison - soprannome: "Monk" - è uno scrittore nero apprezzato dalla critica ma di scarso successo commerciale. Irritato dalla tendenza dei colleghi di colore a scrivere libri stereotipicamente "black", scrive sotto pseudonimo un libro di quel genere, una storia di ghetto, gangster e disperazione. Contro ogni aspettativa, questo cumulo di cliché scritto per provocazione incontra l'entusiasmo delle case editrici e addirittura di Hollywood. Monk, in difficoltà finanziarie a causa della malattia della madre, si trova costretto a scegliere tra l'integrità e il cavalcare l'onda degli stereotipi, senza sapere dove potrebbe trascinarlo.

Sarebbe facile etichettare American Fiction, fresco vincitore dell'Oscar per la miglior sceneggiatura non originale, come un film contro gli eccessi del politicamente corretto. In superficie, il bersaglio della satira sembra effettivamente chiaro: una società e, nello specifico, un'élite editoriale che fanno sì che un autore di colore non riesca a vendere perché non "abbastanza nero", e che un romanzo dozzinale, scritto per pura provocazione, diventi un successo clamoroso perché "molto nero", e quindi da osannare.

In realtà American Fiction mette alla berlina altro, ovvero le radici puramente utilitaristiche della recente esplosione di inclusività nel mondo culturale statunitense. Le aziende non hanno abbracciato i valori "progressisti" (e i relativi eccessi) perché improvvisamente pervase dal sacro fuoco dell'uguaglianza: lo hanno fatto perché, banalmente, pensano che aumenti le vendite - direttamente, attirando una fetta di pubblico che fino a quel momento era rimasta esclusa dai prodotti da loro offerti; e indirettamente, segnalando la propria virtù al pubblico, e quindi acquisendo status e ulteriori vendite. Lo fanno anche per sentirsi "buoni", assolti, come dice l'agente di Monk in uno dei dialoghi centrali del film. 

American Fiction è, in sintesi, una satira dell'ipocrisia, del nascondersi dietro a delle facciate per nascondere la verità. Anche Monk ne cade preda, scegliendo di ergersi sull'altare dell'autorialità senza considerare che "sfruttare il sistema", come fa Sintara Golden, l'autrice che tanto disprezza, è una scelta attiva che le permette di vivere la vita che vorrebbe, anziché continuare a traccheggiare, atteggiandosi a vittima. 

Il tema centrale del film diviene però ancora più evidente una volta che si considera anche la vicenda personale di Monk e della sua famiglia, e non solo quella professionale. Monk non riesce a relazionarsi con il prossimo perché ha paura di essere se stesso. La sua maschera di cinismo e indifferenza lo protegge dal dolore, ma gli impedisce anche di avere dei rapporti autentici - sia famigliari che sentimentali. Anche suo fratello (un come sempre eccezionale Sterling K. Brown) e, in misura minore, sua sorella sono stati per anni intrappolati in maschere, ruoli che la società aveva scelto per loro, e stanno imparando cosa voglia dire vivere in modo più libero e autentico.

American Fiction è una splendida satira della coda di paglia che ancora attanaglia l'élite WASP negli Stati Uniti quando si parla di questioni razziali, ma anche una storia di relazioni, di non detti dolorosi, di maschere indossate nella convinzione di salvaguardare la coesione famigliare, ma che in realtà hanno creato abissi di silenzi - silenzi che allontanano, anziché avvicinare. 

È un film piccolo ma incredibilmente forte, a tratti esilarante, ma in grado di colpire al cuore anche grazie all'ottima prova del cast, capitanato da un Jeffrey Wright indecifrabile, capace di cambiare registro di continuo, alternando ironia, dolcezza, furia, sofferenza in una rapsodia emotiva degna di quelle che il grande jazzista da cui prende il suo personaggio prende il nome improvvisava al pianoforte. 

**** 1/2

Pier