domenica 27 dicembre 2020

Soul

La scintilla della vita


Joe Gardner è un uomo di mezza età con il sogno di diventare un grande pianista jazz. Quando finalmente arriva quella che potrebbe essere la grande occasione, Joe cade in un tombino scoperchiato e la sua anima si ritrova nell'anticamera dell'Aldilà. Determinato a non morire proprio ora che il suo sogno è a portata di mano, Joe fugge e finisce nell'Ante Mondo, dove stringe un patto con una giovane anima, 22, che invece non ha la minima intenzione di andare sulla Terra. 

Perché siamo qui? Qual è il senso della vita? Due domande che attanagliano i filosofi da secoli, e che il cinema ha affrontato raramente, e quasi sempre in forma satirica (Amore e guerra di Woody Allen, Il senso della vita dei Monty Python) vista la loro natura immateriale, intangibile, antifilmica. Due domande che, dunque, sembrerebbero l'ultimo dei temi da scegliere per un film d'animazione destinato al grande pubblico: ma alla Pixar (e in particolare a Pete Docter, già regista di Monsters & Co, Up, e Inside Out) le sfide piacciono da sempre.

Soul parla di noi, di ciò che siamo, di ciò che ci spinge ad andare avanti. È un film che ha un tema, nessuno, e centomila, che si spinge in mille direzioni diverse e inaspettate, per poi tornare al punto di partenza e partire di nuovo in un territorio inesplorato. Soul inizia sulla terra, per poi portarci in un mondo fantastico, con eco di quello della "mente" di Inside Out (un tema familiare) per poi riportarci sulla Terra, nei mille quartieri di una città poliedrica come New York, e poi di nuovo in quel mondo, ma anche ai confini tra l'uno e l'altro (un tema sconosciuto), in spazi indefiniti ma non per questo privi di vita, di colore, di insegnamenti. 


È un film in cui i ruoli dei personaggi cambiano di continuo, in cui si fatica a riconoscere il vero protagonista, chi è l'insegnante e chi lo studente. È, insomma, una sceneggiatura a tempo di jazz, all'apparenza improvvisata ma in realtà dotata di una coerenza interna che non si può descrivere razionalmente, ma viene colta a livello intuitivo, emotivo. Forse questo è dovuto al fatto che l'anima di Soul (perdonate il pessimo gioco di parole), quel quid che pervade tutto il film e ne é bussola e Stella Polare, non è una tesi, ma una domanda - una domanda aperta a numerose interpretazioni e visioni perché, in fondo, non ha una risposta univoca.

Docter realizza un film che funziona come un dialogo platonico, spingendo lo spettatore a interrogarsi sulla domanda posta fin dai primi minuti, presentando numerosi punti di vista in continua evoluzione, per poi arrivare a un finale dove una risposta, forse, arriva, ma nel farlo apre la porta a un migliaio di altre domande. Questo non significa, tuttavia, che il film sia noioso o eccessivamente filosofico: Soul diverte, intrattiene e fa riflettere, offrendo, come quasi sempre nell'opus pixariano, molteplici livello di lettura e interpretazione, che a volte si notano solo a una seconda visione, in una continua scoperta che genera gioia e stupore.


L'animazione è una gioia per gli occhi, un perfetto mix tra lo stile Pixar e animazione tradizionale, in quello che è senza alcun dubbio il film Pixar più sperimentale da almeno dieci anni. Docter aveva già sperimentato l'unione delle due tecniche in Inside Out, nella sequenza del pensiero astratto, ma qui si spinge oltre, pescando a piene mani dalle suggestioni sia di passati lavori della Pixar (il corto Quando il giorno incontra la notte), sia dell'animazione europea (La Linea di Osvaldo Cavandoli) e giapponese (è evidente l'influenza della filosofia filmica di Miyazaki e dello Studio Ghibli), sia della storia dell'arte: i vari Jerry (e Terry) sono chiaramente debitrici di tutte queste tradizioni, e le rielaborano in modo creativo e originale, arricchendo il linguaggio espressivo del film e donandogli quella "diversità" necessaria per rappresentare concetti astratti e oltremondani. Docter cerca di rappresentare l'infinito, il sublime, e ci riesce grazie a un lavoro di sottrazione e semplificazione, che libera lo schermo di inutili fronzoli e lascia lo spettatore colmo di meraviglia di fronte alla perfetta semplicità delle immagini.

La musica, per la prima volta in un film Pixar, è elemento centrale del film, ne influenza la struttura, la trama, il ritmo, lo definisce e lo arricchisce, senza diventare un'ossessione militare come in Whiplash, ma accompagnando dolcemente le vicende, come l'eco di un sogno che non vuole spegnersi e continua a vivere in noi e intorno a noi.

Soul è un film maturo, innovativo, ambizioso; è un film che celebra la forza vitale della creatività e la forza creativa della vita, che ha il coraggio di spingersi in territori inesplorati dal punto di vista sia strutturale che visivo, e ne riemerge con una sicurezza e una certezza nuova, una ricchezza espressiva che rispecchia quella dei suoi protagonisti e la rilancia verso lo spettatore, spingendolo a interrogarsi, stupirsi, e a continuare a cercare. Non perdetelo.

*****

Pier

martedì 15 dicembre 2020

Mank

Algido esercizio di stile


California, 1940. Il giovane talento del teatro Orson Welles commissiona a Herman J. Mankiewicz, grande sceneggiatore limitato dal vizio dell'alcool, la sceneggiatura per il suo primo film da regista. Mank, a causa di un incidente, è bloccato a letto, e si isola nel deserto del Mojave per scrivere la storia. Finirà per ispirarsi a quello che, una volta, era stato il suo mecenate: William Randolph Hearst, magnate dell'editoria. La sceneggiatura di Mank e il film di Welles passeranno alla storia del cinema: si tratta, infatti, di Quarto Potere.

David Fincher ha dimostrato un talento particolare nel raccontare storie personali che diventano anche spaccati generazionali e sociologici. Da The Social Network a Zodiac, i suoi film nel campo non sono mai banali, spesso profondi, a volte addirittura profetici. Non sorprende, quindi, che Fincher abbia deciso di confrontarsi con il film biografico più famoso della storia del cinema, raccontando le vicende di uno dei suoi creatori, Herman Mankiewicz. Quarto Potere è infatti la quintessenza della storia personale che si fa storia del paese e addirittura storia universale, una parabola sul lato oscuro del sogno americano e sulla condizione esistenziale umana di rara forza e potenza evocativa. Un film che parla di potere, di etica, di orgoglio, di ambizione, ma anche di comunicazione e del potere dei mass media: tutti temi che non potevano che attirare Fincher, inducendolo a realizzare l'ambiziosa sceneggiatura scritta da suo padre.

Quarto Potere è un film che ancora oggi, a quasi 80 anni dalla sua uscita, stordisce per la sua portata rivoluzionaria a livello narrativo e visivo, con alcune soluzioni che rimangono punto di riferimento imprescindibile, imitate ma mai superate o rielaborate. Si può dire che pochissimi film (forse nessuno) abbiano cambiato il linguaggio cinematografico quanto Quarto Potere, ed è paradossale che Fincher decida di raccontare la genesi delle sue innovazioni narrative decidendo di non parlare di quelle stilistiche al tempo stesso di riprodurle pedissequamente, con citazioni che sono al limite del plagio di cui sfugge completamente il punto. Se l'intento era di dimostrare la replicabilità delle innovazioni di Welles, l'esercizio risulta pedante e inutile, dato che rifare qualcosa nel 2020 non dimostra che fosse poco innovativo nel 1941. Se l'intento era invece omaggiarlo, risulta di difficile comprensione la scelta di sminuire il contributo e la figura di Welles durante tutto il film, abbracciando in modo subdolo la tesi revisionista di Pauline Kael già ampiamente smentita dalle ricerche condotte da critici e storici del cinema (per chi fosse interessato, qui si può trovare un ottimo riassunto).

La sceneggiatura ha dialoghi brillanti e ben ritmati, ma risulta molto superficiale nello sviluppo dei personaggi ed eccessivamente didascalica nella struttura: i cambi scena scanditi dalle battute della macchina da scrivere, come accade nelle sceneggiature, sono un trucco vecchio e trito che uccide il ritmo del racconto e rende i flashback un artificio retorico stanco e frusto anziché un modo di vivacizzare la narrazione e moltiplicarne i punti di vista. La sceneggiatura, insomma, è l'esatto opposto di quella di Mankiewicz (e Welles), caratterizzata da una scrittura vitale, mai noiosa né didascalica, innovativa anche per la capacità di usare i flashback senza bisogno di "segnarli" temporalmente con didascalie o simili. Anche i temi trattati con maggiore efficacia, come quello dell'influenza dei mass media e delle notizie false (già attuale negli anni Quaranta, a riprova che la Storia non è altro che un eterno ritorno dell'uguale), sanno comunque di "già visto", e non aggiungono nulla a quanto già detto da Mankiewicz e Welles e dallo stesso Fincher in The Social Network.

Se non ci si annoia è merito di una regia come sempre sopraffina, ma soprattutto delle grandissime prove degli attori: Gary Oldman giganteggia nella parte di un uomo che è il suo peggior nemico, segnato dalla vita e incapace di fuggire da se stesso, ma accanto a lui offrono ottime prove anche Amanda Seyfried e Charles Dance, semplicemente perfetto nella parte di quel William Randolph Hearst che fu l'ispirazione per Charles Foster Kane.

Fincher realizza una riflessione sul cinema di grande interesse storico e biografico e fattura eccellente, ma di scarso interesse cinematografico. La sensazione è che, nell'ansia di portare avanti una tesi preconfezionata, Fincher sia rimasto in parte prigioniero di forma e contenuto e abbia dimenticato l'anima del film, sia dal punto di vista creativo che narrativo. Mank rimane un'opera realizzata in modo mirabile, ma senza dubbio un passo indietro per un regista che, anche nelle sue opere apparentemente meno autoriali, ci aveva abituati a un'innovazione radicale e mai fine a se stessa.

***

Pier

sabato 12 dicembre 2020

Nuovo Cinema Paravirus - Christmas Special

Torna Nuovo Cinema Paravirus, la rubrica nata durante questa pandemia che sembra non voler andare più via (speriamo che, come per le feste, ci pensi l'Epifania), con uno speciale dedicato al cinema natalizio.


I tre film segnalati (un grande classico, un film da riscoprire, e un film per ragazzi) di oggi sono:

1) Love Actually (Netflix, Prime Video, Now TV, Sky). Un classico moderno, che ha fatto breccia nel cuore degli spettatori grazie al perfetto mix di commedia e dramma, risate e commozione. Cast e personaggi memorabili, tra cui spiccano il primo ministro di Hugh Grant, il marito fedifrago di Alan Rickman, e soprattutto il vecchio rocker di Bill Nighy alle prese con un'esilarante cover natalizia.

2) Una promessa è una promessa (disponibile a noleggio su vari servizi). Meno conosciuto di altri film di Schwarzenegger, questo film è in realtà una piccola perla natalizia, un film d'azione per ragazzi che racconta l'odissea di un padre per regalare al figlio il regalo che desidera e non perderne l'affetto. Da rivedere.

3) Mamma ho perso l'aereo (Disney+). Un classico immortale, che ha segnato l'infanzia di un'intera generazione e funziona benissimo ancora oggi, grazie a una sceneggiatura perfetta, a un'irresistibile coppia di ladri, e alla straordinaria naturalezza di Macaulay Culkin. 

Al prossimo Speciale di Nuovo Cinema Paravirus! Nel frattempo, continuate a seguire Film Ora per articoli e recensioni.

Pier


giovedì 10 dicembre 2020

Tesori Nascosti - #7: Edizione Natale

Torna "Tesori nascosti", la rubrica che segnala film meritevoli di recupero passati inosservati o quasi in Italia. Vista la vicinanza con il Natale, la puntata di oggi è dedicata ai film ambientati nel periodo delle feste di Natale.

Ogni film è corredato di voto, informazioni su dove reperire il film, e di un breve commento o un link alla nostra recensione.


1. Le 5 leggende, voto 7.5
Generefantasy
Anno: 2012
Regista
DVD: sì, edizione italiana
Streaming: Netflix, Infinity
Commento: Babbo Natale, la Fatina dei Denti, il Coniglio di Pasqua e Sandman non sono solo leggende: sono i Guardiani che proteggono li sogni dei bambini di tutto il mondo. Quando Pitch Black, l'Uomo Nero, decide di scacciarli e farli precipitare nell'oblio, i Guardiani hanno bisogno d'aiuto. Uno splendido film di Natale, una delle vette dell'animazione Dreamworks, in grado di far sognare bambini e adulti. Qui la recensione completa.

2. Klaus - I segreti del Natale, voto 9.
Genere: fantasy
Anno: 2018
RegistaDavid Lowery
DVD: no
Streaming: Netflix
Commento: Un postino assegnato a una località sperduta nel Nord Europa ravviva l'attività epistolare della zona grazie all'aiuto di Klaus, burbero creatore di bellissimi giocattoli artigianali. Una splendida favola, una storia di amicizia, ma soprattutto un film che sperimenta nuove, magnifiche tecniche di animazione, aprendo nuove possibilità per il futuro di un mezzo in continua evoluzione.

3. Kiss Kiss Bang Bang, voto 8.
Genere: azione, commedia
Anno: 2005
Regista: Shane Black
DVD: sì, edizione italiana
Streaming: Infinity
Commento: Un ladruncolo e un investigatore privato senza lavoro sono costretti a collaborare e a indagare sulle misteriose morti di due ragazzi. Buddy cop movie abbastanza sui generis, ambientato a Natale (come spesso accade con Shane Black): geniale, stralunato, vivace, un film d'azione che ammicca al noir e che diverte e tiene con il fiato sospeso. Robert Downey Jr. e Val Kilmer semplicemente perfetti.

4. SOS Fantasmi, voto 7.
Genere: commedia drammatica
Anno: 1988
Regista: Richard Donner
DVD: sì, edizione italiana
Streaming: NowTV, Sky
Commento: Rivisitazione in chiave moderna de Il canto di Natale, con un Bill Murray in gran forma nella parte del direttore di network televisivo che deve produrre un musical proprio ispirato all'opera di Dickens. Racconto e meta-racconto si intersecano, dando vita a una storia surreale che permette a Bill Murray di esibire tutte le sue doti di mattatore.

5. Ogni Maledetto Natale, voto 7.
Genere: commedia, satira
Anno: 2016
Regista: Giacomo Ciarrapico , Luca Vendruscolo , Mattia Torre
DVDsì, edizione italiana
Streaming: Netflix
CommentoDagli autori di Boris, una satira sociale in salsa natalizia, in cui due ragazzi di diversa estrazione sociale si trovano a trascorrere il Natale con le famiglie dell'altro. Il film, pur peccando a tratti di retorica, diverte e intrattiene senza aver paura del politicamente scorretto (il personaggio di Corrado Guzzanti), con la satira resa più efficace dallo stratagemma di avere gli stessi attori che interpretano ambedue le famiglie, a sottolineare come l'una non sia altro che lo specchio deformato dell'altra.

6. Elf - Un elfo di nome buddy, voto 7.
Genere: commedia fantastica
Anno: 2003
Regista: Jon Favreau
DVDsì, edizione italiana
Streaming: Sky, Infinity
Commento: Per un caso del destino, un bambino viene cresciuto da Babbo Natale e dagli elfi. Quando diventa troppo grande per restare con loro, sarà costretto ad andare in cerca dei suoi veri genitori. Un Will Ferrell in formissima è protagonista di un film che unisce alla perfezione i toni da commedia per famiglie con quelli più demenziali e satirici del suo cinema.

Pier


lunedì 7 dicembre 2020

The gentlemen

La spettacolarità del già visto


Fletcher, un investigatore privato, si intrufola nella casa di Raymond Smith, un gangster e sua vecchia conoscenza, per raccontargli una storia che vede coinvolto il suo capo, il trafficante di droga Mickey Pearson. Raymond sta al gioco, dando il via a una serie di rivelazioni ed eventi che coinvolgono strambi gangster di quartiere, spie, politici, e una serie di doppi giochi.

Dopo anni di lontananza e qualche passo falso, Guy Ritchie torna al genere che lo ha reso famoso, quel mix di gangster movie, commedia e azione che costituiscono il suo marchio di fabbrica. Lo fa con una storia scoppiettante e ritmata, interpretata da attori divertiti e divertenti, che giocano e si mettono in gioco, aiutando Ritchie a creare un gioco di specchi che tiene alta la suspense fino al finale.

Ritchie sembra ispirarsi a Rashomon per la struttura narrativa, con una serie di narratori inattendibili che offrono la loro prospettiva sugli eventi, riempiendo i buchi lasciati dagli altri e ribaltando intere situazioni. L'alternanza tra passato e presente funziona e fa sì che il film non cali mai di ritmo, sorretto ora dalla brillantezza dei dialoghi, ora dalle scene d'azione, ora dalle rivelazioni inaspettate. Ritchie costruisce un gioco di scatole cinesi ben architettato, in cui ogni pezzo cade al suo posto con precisione, lasciando sempre lo spettatore mezzo passo indietro, abbastanza vicino da incuriosirlo e interessarlo a risolvere l'enigma, ma non abbastanza da rivelargli la soluzione.

Il cast è superlativo e perfetto per i personaggi disegnati da Ritchie, la solita galleria umana di soggetti improbabili, eccentrici, sopra le righe.Tra tutti, spiccano uno Hugh Grant in un ruolo inedito che però sembra scritto apposta per lui, e un Colin Farrell stralunato gangster guidato da rigidi principi pedagogici. 

Nonostante il film funzioni, tuttavia, resta una sensazione di già visto, come se The Gentlemen fosse semplicemente una rivisitazione di temi, situazioni, e tecniche già utilizzate in passato da Ritchie. Manca un tentativo di fare qualcosa di diverso, come se Ritchie, dopo essersi avventurato "lontano da casa" con progetti come Aladdin, volesse tornare in fretta in un porto sicuro e conosciuto.

Il risultato è un film che intrattiene, ma solo in modo superficiale, senza risultare memorabile come The Snatch o Lock & Stock. Forse è anche ingiusto chiedere di più a Ritchie, un regista che ha sempre fatto dell'intrattenimento il suo principale obiettivo. Tuttavia, nel suo intento "commerciale", Ritchie aveva anche creato un suo linguaggio espressivo che, nonostante gli evidenti debiti tarantiniani, era riuscito a ritagliarsi una sua identità distintiva. In The Gentlemen ritroviamo quel linguaggio, e scopriamo che, nonostante non sia cambiato in nulla, funziona ancora egregiamente. E, forse, alla fine va bene così.

*** 1/2

Pier

Nota: The Gentlemen, a lungo posticipato per via della pandemia, è uscito in streaming su Amazon Prime Video.

martedì 17 novembre 2020

Tesori Nascosti - #6

Torna "Tesori nascosti", la rubrica che segnala film meritevoli di recupero passati inosservati o quasi in Italia.

Ogni film è corredato di voto, informazioni su dove reperire il film, e di un breve commento o un link alla nostra recensione.


1. Alice e il sindaco, voto 7.5
Generecommedia drammatica
Anno: 2019
RegistaNicolas Parisier
DVD: sì, edizione italiana
Streaming: Prime Video
Commento: Un sindaco in crisi di idee assume una giovane laureata in filosofia per aiutarlo a pensare. L'assunzione della ragazza scatena una catena di invidie, incomprensioni, ed equivoci che hanno un impatto sulla carriera politica di lui e sulla vita personale e professionale di lei. La premessa un po' surreale è vincente e fa sì che il film, pur rimanendo leggero nei toni, offra un'interessante analisi della nostra politica e della nostra società.

2. The Old Man & The Gun, voto 8.
Generecommedia drammatica
Anno: 2018
RegistaDavid Lowery
DVD: sì, edizione italiana
Streaming: Prime Video
Commento: Un testamento cinematografico e personale, un racconto divertito, elegante, e malinconico, che arriva dritto al cuore dello spettatore. Robert Redford fa i conti con il passato interpretando un anziano rapinatore gentiluomo, una versione invecchiata dei personaggi che lo hanno reso celebre, tra La stangata e di Butch Cassidy. Il film è anche il saluto, senza inutile retorica, a un sistema di valori, sia umani che produttivi, uno sguardo triste ma soddisfatto a un passato che non tornerà più.

3. Veloce come il vento, voto 7.5.
Genere: dramma sportivo
Anno: 2016
Regista: Matteo Rovere
DVD: sì, edizione italiana
Streaming: Netflix, Timvision, RaiPlay
Commento: ispirato a una storia vera, un dramma sportivo ben scritto e ben recitato, che miscela efficacemente legami famigliari, adrenalina e dramma, con le scene delle corse fotografate con grande precisione e impatto emotivo. Il cast è guidato da un Accorsi raramente così convincente, ma soprattutto da un'ottima Matilda De Angelis, qui all'esordio.

4. Un re allo sbando, voto 7.
Genere: commedia drammatica, satira
Anno: 2016
Regista: Jessica Hope Woodworth , Peter Brosens
DVD: sì, edizione italiana
Streaming: NowTV, Sky
CommentoCreativo mockumentary che racconta con toni comici e grotteschi l'immaginario tentativo del re del Belgio di tornare al suo paese sull'orlo di una secessione. Impossibilitato a lasciare la Turchia in aereo per via dell'eruzione di un vulcano islandese, il re affronterà un'odissea attraverso i Balcani, usando i mezzi più improbabili nel tentativo di tornare a casa.

5. Brimstone, voto 7.
Genere: drammatico, western
Anno: 2016
Regista: Martin Koolhoven
DVDsì, edizione italiana
Streaming: Prime Video, RaiPlay
CommentoUn western dal sapore apocalittico che indaga la condizione femminile all'interno di un contesto iperreligioso e mascolino come quello del selvaggio West. Il film, nonostante alcune sbavature di stile, convince e avvince, trainato anche dalla forza ipnotica del villain Guy Pearce, un predicatore carismatico e luciferino.

6. Il viaggio (The journey), voto 7.
Genere: commedia drammatica, politica
Anno: 2017
Regista: Nick Hamm
DVDsì, edizione italiana
Streaming: Prime Video, Now TV, Sky
Commento: . Interessante ed esilarante racconto (immaginario) del viaggio (reale) da Glasgow a Dublino dei leader dei partiti indipendentista e unionista dell'Irlanda del Nord, che favorì la pace tra i due paesi. In un periodo in cui l'intesa raggiunta allora sembra a rischio per via di Brexit, uno spaccato storico importante per capire con quante difficoltà si raggiunse quel risultato. Splendida prova di Timothy Spall.

7. Funeral party, voto 8.5.
Genere: commedia dark
Anno: 2007
Regista: Frank Oz
DVDsì, edizione italiana
Streaming: Prime Video
CommentoUna delle commedie più esilaranti degli anni Duemila, passata abbastanza in sordina in Italia. Una famiglia si ritrova per il funerale del patriarca. Tra nani misteriosi, ambizioni letterarie represse, e allucinogeni, le loro frustrazioni e i loro segreti daranno vita a una girandola di rivelazioni, momenti comici e drammatici semplicemente irresistibili.

Pier


mercoledì 11 novembre 2020

Palm Springs - Vivi come se non ci fosse un domani

Il matrimonio della marmotta


9 Novembre: Nyles si sveglia a fianco della fidanzata Misty. La giornata prevede il matrimonio della migliore amica di lei. Un momento speciale, che Nyles vive però in modo disinteressato, quasi annoiato. Sarah, sorella della sposa, viene salvata da Nyles da un discorso che non voleva fare e, suo malgrado, scoprirà la verità: Nyles è bloccato da tempo in un loop temporale che lo costringe a rivivere sempre quella giornata. E ora, in quel loop, ci è finita anche Sarah.

Groundhog Day, tradotto in Italia con Ricomincio da capo, è uno dei film culto degli Anni Novanta. Vanta numerosi tentativi di imitazione, quasi tutti di scarso successo e nessuno in grado di aggiungere qualcosa di originale. Coniugare commedia, romanticismo e loop temporali in modo innovativo sembrava un'impresa improba, ma Palm Springs ci riesce alla grande grazie a tre ingredienti fondamentali.

Il primo è una sceneggiatura a orologeria, sia nella trama che nei dialoghi, che dosa sapientemente ripetizioni e accelerazione e sfrutta la ripetitività data dal loop per cambiare continuamente ritmo, emozioni e angolazioni: scene che raccontano lo stesso momento cambiano di tono di continuo, offrendo diversi livelli di lettura; alcune giornate durano lo spazio di un secondo, altre vengono rallentate, per focalizzarsi su un momento importante.

Il secondo sono gli attori. Samberg e Milioti sono semplicemente perfetti nelle rispettive parti e riescono a conferire ai loro personaggi quel giusto mix di ironia e malinconia che non stupirà chi li ha già ammirati in Brooklyn 99 e How I met your mother. Accanto a loro si muove un ottimo cast di caratteristi, su cui domina un J.K. Simmons in forma smagliante, in grado di trasformare un personaggio a rischio macchietta in una personalità a tutto tondo, che regala alcune delle scene più riuscite del film.

Il terzo elemento è più intangibile, una "chimica" che fa sì che ogni elemento si incastri alla perfezione, dalla musica alla recitazione, dalle immagini al montaggio. Il regista, Max Barbakow, compie un lavoro certosino che fa sì che ogni elemento esalti l'altro, senza sbavature, e realizza un film che cattura lo spettatore e non lo lascia andare fino ai titoli di coda.

Palm Springs è uno di quei piccoli gioielli che ogni tanto emergono dal cinema indipendente statunitense, una dramedy che non ha paura di confrontarsi con la "scienza" di "fantascienza" e allo stesso tempo non si vergogna di mostrare la sua anima fantastica, romantica e sognatrice. Un film che intrattiene e arriva al cuore, riuscendo a replicare e a rinnovare la formula magica del suo illustre predecessore, portandoci dal Giorno della Marmotta a un matrimonio infinito, ripetuto, e proprio per questo speciale.

*** 1/2

Pier

giovedì 29 ottobre 2020

Cosa sarà

La forza della fragilità


Dopo il brillante esordio di Scialla! e il convincente e più maturo Tutto quello che vuoi, Bruni torna dietro la macchina da presa per il suo film più personale, sincero, e coinvolgente. Bruni racconta la storia di una malattia, ma lo fa con i toni che gli sono propri, esplorando le relazioni e le solitudini del protagonista e dei personaggi che gli gravitano attorno. La malattia è presente, mai nascosta o negata, con scene in ospedale di grande impatto e una grande attenzione all'aspetto clinico. 

Tuttavia, la malattia non è la protagonista del film, che evita ogni eccesso di spettacolarizzazione, rifuggendo la narrativa della "lotta" per abbracciare quella dei sentimenti, delle relazioni, delle emozioni, sia positive (si ride, tanto) che negative. La maestria di Bruni sta proprio qui, nella capacità di non cedere al facile pietismo ma al tempo stesso di non "censurare" la malattia, nascondendola o relegandola in secondo piano. Un atto di equilibrismo tanto più rimarchevole considerando che Bruni sta raccontando, seppur in versione romanzata, la storia della sua malattia, da cui lo ha salvato un trapianto di midollo donato dal fratello.

La malattia è presente, ma non dominante, e costringe Bruno e i suoi cari a fare i conti con il passato, sempre presente con flashback improvvisi e mai didascalici, con segreti, non detti, frustrazioni espresse ed inespresse. Il passato sembra essere la malattia più grande, una fonte di frustrazioni ma anche di ricordi ed emozioni che aiutano a guardare al futuro con speranza, nonostante le difficoltà. 

Il film è ben scritto e ottimamente interpretato, e trova il suo centro nella splendida prova di Kim Rossi Stuart, camaleontico e verista nella sua interpretazione, con isterismi un po' alla Nanni Moretti intervallati a bellissimi momenti intimi, privati con la moglie, i figli, medici e infermieri. Il suo Bruno è un uomo alla ricerca di se stesso, conscio della sua fragilità ma al tempo stesso restio ad accettarla, costretto dalla malattia a confrontarsi con se stesso e ciò che è ed è stato per chi gli sta intorno. Un personaggio difficile, sfaccettato, complesso, che Kim Rossi Stuart restituisce con grande efficacia e impatto emotivo. 

Cosa sarà è un film che non ha paura di parlare della fragilità umana, che rigetta la metafora del "guerriero" per offrirci un ritratto più realistico di come la malattia stravolge la vita del paziente e di chi gli sta intorno: un ritratto caleidoscopico, che adotta un registro emotivo ampio e diversificato anziché focalizzarsi su un solo tipo di emozione come spesso accade in opere sul tema. Bruni dimostra ancora una volta una grande sensibilità per raccontare vite, persone, relazioni: in una parola, l'umanità.

****

Pier

sabato 17 ottobre 2020

La vita straordinaria di David Copperfield

Un classico per i nostri tempi


Inghilterra, età vittoriana. David Copperfield nasce orfano di padre. Allevato dalla madre e dalla governante, vedrà il suo nido idilliaco infranto dall'arrivo di Mur. Murdstone, nuovo marito della madre. Questi, per liberarsene, lo spedisce a Londra a lavorare nella sua fabbrica. Questo è l'inizio di una serie di avventure e disavventure che porteranno il giovane David a scoprire se stesso, passando spesso dalle stelle alle stalle e incontrando una galleria di personaggi memorabili sulla sua strada. 

Poco noto al pubblico italiano, Armando Iannucci (scozzese, anche se di origini italiane) è uno degli autori più geniali e innovativi in attività, specializzato in satira politica. Sue sono le meravigliose serie The thick of it e Veep, dove mette a nudo senza pietà e con un misto di crudeltà e ironia molto british le idiosincrasie di politici e politicanti. Laddove il suo primo film, Morto Stalin se ne fa un altro, proseguiva questo filone, La vita straordinaria di David Copperfield vira in direzione della commedia e della satira sociale. Iannucci riprende le tematiche di denuncia della storia di Dickens ma le spoglia quasi del tutto della loro componente patetico-emotiva per puntare su toni leggeri, ma ugualmente efficaci nel mettere a nudo le contraddizioni del sistema delle classi sociali inglesi. 

Iannucci mette in atto questa visione già nella scelta del cast, un ensemble multietnico dove un indiano ha genitori caucasici e un'afroamericana un padre asiatico, annullando così ogni differenza razziale. Questa scelta, originale, coraggiosa e mai vista al cinema (più frequente a teatro), ha l'effetto di far risaltare ancora di più le assurdità delle distinzioni per ceto: un sistema di classi rigido, ingessato, che Iannucci, da buon inglese, sa essere vivo e rampante ancora ogni giorno. 

Alla rigidità del sistema si oppone la vitalità contagiosa di David, mirabilmente interpretato da Dev Patel, che dà al personaggio un entusiasmo contagioso e fanciullesco, che fa vibrare di vita il film. Accanto a lui, un'indimenticabile galleria di eccentrici, tra cui spiccano Hugh Laurie nella parte dello svampito Mr. Dick, Tilda Swinton in quella dell'eccentrica zia Betsy, e Peter Capaldi nel ruolo del funambolico straccione squattrinato Mr. Micawber.

La sceneggiatura procede per quadri, con i vari episodi della vita di David congiunti solo dalla sua voce narrante. Questa sconnessione a volte rallenta il ritmo del racconto, che però non risulta mai noioso grazie alla brillantezza di dialoghi e personaggi. 
Il comparto visivo riflette la vitalità dei personaggi e della sceneggiatura, amplificandole, con una fotografia ariosa e luminosa, costumi pastello, e abitazioni eccentriche che sembrano uscite da un libro di avventure, piene di oggetti e di vita. Tutto sembra un parto della fantasia esuberante di David, un frutto del suo racconto allo spettatore, un'immagine della realtà trasfigurata dai suoi occhi da sognatore che non si arrende di fronte alle difficoltà.

Dietro questa patina spensierata, tuttavia, Iannucci mette in scena un passato di abusi e ingiustizie che ricorda sinistramente il presente, in cui pochi hanno tantissimo e molti devono arrangiarsi, tirare a campare, vivendo alla giornata e trascinandosi tra debiti e mancanza di cibo, con lo spettro della prigione che aleggia su di loro. La Londra vittoriana di Dickens diviene la Londra multietnica di oggi, e la somiglianza è sconcertante ma innegabile.

Iannucci si conferma un regista che ha sempre qualcosa da dire, ma dimostra anche una capacità di cambiare registro e tono senza rinunciare alla sua voce e alla sua visione del mondo. La vita straordinaria di David Copperfield è un film che diverte e dona gioia, ma che al tempo stesso fa riflettere. Alle risate sonore si mescolano i sorrisi amari, in una commistione tra commedia e satira che funziona e colpisce, e che dimostra che alcuni classici hanno ancora tantissimo da dire.

****

Pier

martedì 6 ottobre 2020

Il processo ai Chicago 7

Tutto il mondo ci guarda


USA, 1969. Il Dipartimento della Giustizia del neoeletto presidente Nixon decide di istituire un processo contro vari esponenti della controcultura giovanile e del movimento per i diritti civili, scegliendoli come capri espiatori per le violenze nate in seguito alla repressione delle proteste avvenute durante la convention democratica di Chicago del 1968. Il processo si rivela ben presto una farsa, ma gli avvocati della difesa e gli imputati non intendono darsi per vinti.

Aaron Sorkin, dopo il convincente esordio dietro la macchina da presa con Molly's Game, si conferma regista talentuoso e con visione, capace di giocare con il ritmo, le immagini, i suoni. I tempi filmici si comprimono e si dilatano a piacere, grazie a un'alternanza tra lunghi piani sequenza che abbracciano una folla, l'aula, una stanza, e rapide sequenze di montaggio che mostrano la violenza o la quiete prima della tempesta, interpolati con filmati d'epoca che arrivano come tanti piccoli pugni allo stomaco. Il cambio di ritmo è al servizio del cambio di atmosfera tra i momenti concitati delle proteste e quelli (in apparenza) più compassati dell'aula.
La violenza è volutamente nascosta per larghi tratti del film, ma quando si vede esplode in una violenza sconvolgente, reale, non patinata né spettacolarizzata, che restituisce appieno l'inutile brutalità della polizia.

La sceneggiatura, se mai ci fossero dubbi, è un perfetto meccanismo a orologeria, senza una sbavatura o una battuta fuori posto. Sorkin è un maestro del dialogo e, come sempre, non delude, muovendosi a suo agio in un genere ben codificato come il courtroom drama e scardinandone gli impianti in modo creativo e innovativo. La scena d'apertura, con un'alternanza di walk and talk in pieno stile The West Wing, è un capolavoro di scrittura, recitazione, e montaggio. Sorkin costruisce dei personaggi memorabili e li mette all'interno di un teatro sociale e culturale meticolosamente ricostruito, in cui impariamo a scoprire le diverse anime di un paese in subbuglio, alla ricerca di un equilibrio tra interessi troppo diversi. 

Sorkin mette in scena il processo dapprima con toni farseschi, per sottolinearne le assurdità, ma poi vira decisamente verso il tragico, verso il pathos, in particolare grazie a due episodi reali che non possono non sconvolgere lo spettatore: episodi che si stenta a credere siano accaduti veramente in un'aula di tribunale, tradiscono un totale disprezzo per lo stato di diritto e per quell'ideale di Giustizia che dovrebbe animare ogni procedimento giudiziario.

Al centro di tutto ci sono i personaggi, protagonisti dimenticati di una storia che si fa Storia, di un processo che sembra essere in corso ancora oggi. Tutti gli attori offrono prove magistrali, ma su tutti spiccano Sacha Baron Cohen, meraviglioso hippie, e Yahya Abdul-Mateen II, già visto nella serie di Watchmen, protagonista dei momenti più drammatici del film.

Il processo ai Chicago 7 scava nei problemi della società statunitense, sia storici che contemporanei, restituendo un ritratto degli anni Sessanta che somiglia in modo inquietante ai nostri tempi. Sorkin realizza un film che guarda a ieri per parlare con enorme potenza all'oggi, raccontando una società dilaniata da conflitti razziali, politici, sociali, e generazionali, dove la verità non è più importante. Il processo ai Chicago 7 è un richiamo all'importanza dell'attenzione civile e sociale, perché solo gli occhi attenti del mondo possono evitare che il potere trionfi sulla giustizia. Da non perdere.

**** 1/2

Pier

mercoledì 23 settembre 2020

La candidata ideale

Politica e identità


Nell’Arabia Saudita che ha appena legalizzato il fatto che le donne lavorino insieme agli uomini, Maryam è una giovane dottoressa ambiziosa che lavora in una piccola clinica. La strada che porta alla clinica non è asfaltata, e questo genera grandi difficoltà nel tempestivo trasporto dei pazienti. Maryam cerca di sbloccare la situazione, ma per un fraintendimento finisce per candidarsi come consigliere municipale: inizialmente riluttante alla prospettiva di dover gestire una campagna elettorale, Maryam decide di sfruttare l’occasione per far asfaltare la strada, ma anche per sfidare il maschilismo ancora imperante nel paese. 

È difficile trovare una regista più adatta di Haifaa Al-Mansour per raccontare l’odissea elettorale di Maryam, donna decisa ad affermare la propria identità in un paese che ha appena (e con molte resistenze) iniziato ad accettarla: prima regista donna dell’Arabia Saudita, Al-Mansour ha guadagnato l’attenzione di critica e pubblico con il suo film di debutto, Wadjda, girato in un periodo in cui le sale cinematografiche nel paese erano ancora illegali. Al-Mansour ha vissuto sulla sua pelle tutto ciò che vive la sua protagonista, e lo traspone su schermo con grande efficacia. La regista riesce sia a evitare (con poche eccezioni) la trappola del retorico, sia a raccontare con tono leggero temi molto complessi, senza però sacrificare la profondità dell’analisi. 

La scelta di ambientare il racconto in un periodo successivo alle recenti aperture in termini di diritti femminili è vincente, in quanto permette di vedere come la parità di diritti sia ancora una chimera nonostante queste concessioni. Le barriere sono quasi più culturali che politiche, con un governo che viene ritratto come tutto sommato aperto a una maggiore integrazione, anche (soprattutto?) per ragioni di immagine, e una società che non sembra ancora pronta a superare stereotipi e strutture di genere stratificate da centinaia di anni.

Il film non è però solo il racconto della condizione femminile in Arabia Saudita, ma uno spaccato della società araba di cui Al-Mansour presenta le mille sfumature e contraddizioni, dall’amore/rigetto per la musica (co-protagonista occulta del film) al contrasto tra la modernità delle città e la povertà delle aree rurali. Pur senza alcuna pretesa di verismo o “documentarismo”, la regista restituisce un ritratto vivo e vibrante della sua società, anche se a volte sembra troppo ansiosa di risolverne i contrasti, con alcune scene all’insegna del volemose bene che appaiono poco realistiche. 

The Perfect Candidate pecca di scarsa originalità, e la messa in scena e l’uso delle immagini non sono particolarmente memorabili. Tuttavia, il film è senza dubbio efficace e convincente, e dimostra come sia possibile trattare temi complessi e vitali in modo accessibile a tutti, aiutando così la causa meglio di molti polpettoni pseudo-impegnati.

*** 1/2

Pier

Nota: questa recensione è stata originariamente pubblicata su Nonsolocinema.

sabato 12 settembre 2020

Venezia 2020 - Il Totoleone

Anche quest'anno siamo giunti al termine della Mostra del Cinema: una Mostra giocoforza anomala, nell'anno del Coronavirus, ma portata a compimento in sicurezza grazie a un'organizzazione certosina e perfetta, con norme di sicurezza rispettate grazie a controlli puntuali e un pubblico attento. Non si possono che fare i complimenti ad Alberto Barbera, che ha fortemente voluto questa Mostra in presenza, e alla Biennale tutta, dai dirigenti alle maschere di sala, per l'organizzazione.

È stata una Mostra diversa, meno hollywoodiana e più internazionale, con pochi picchi, sia in positivo che in negativo, con tre fils rouges che hanno attraversato tutto il Concorso: il primo è quello del guardare alla Storia, vera o presunta, e del suo impatto sul presente (Quo vadis, Aida?, Wife of a Spy, Dear Comrades, Nuevo Orden, Miss Marx); il secondo quello del vuoto e delle sperequazioni create dal sistema economico dominante (Nomadland, Never Gonna Snow Again, Notturno); e il terzo quello dell'emancipazione e dell'emergere delle voci femminili (The World to Come, Pieces of a Woman, Le Sorelle Macaluso). Una Mostra, dunque, che ha toccato molti temi che stanno segnando la nostra contemporaneità.

Di seguito i pronostici, quasi sicuramente sbagliati, per il Leone d'Oro e gli altri premi, corredati come sempre dalle mie preferenze personali.


Premio Mastroianni per il miglior attore emergente
Molti protagonisti "giovani" nei film in Mostra, da Padrenostro a Le Sorelle Macaluso. Tuttavia, nessuno di loro raggiunge la freschezza e l'energia del cast di Khorshid, tutto composto da attori non professionisti, ma dotati di un'espressività e di una vitalità che sono il cuore pulsante del film. Su di loro ricadono sia il mio pronostico e la mia scelta personale.
Pronostico: Il cast di Khorshid
Scelta personaleIl cast di Khorshid

Coppa Volpi maschile
Dopo un'edizione 2019 segnata dalla splendida prestazione di Joaquin Phoenix in Joker, un'edizione 2020 segnata da una sorprendente assenza di ruoli memorabili per gli attori di sesso maschile (ne contiamo appena quattro). Tra tutti, sembra spiccare Alec Utgoff, protagonista di Never Gonna Snow Again, che si aggiudica sia il mio pronostico che la mia scelta personale.
PronosticoAlec Utgoff, Never Gonna Snow Again
Scelta personaleAlec Utgoff, Never Gonna Snow Again

Coppa Volpi femminile 
Sfida molto agguerrita, con moltissime prestazioni memorabili. Tra queste ne spiccano tre: Jasna Đuričić per Quo Vadis, Aida?, Vanessa Kirby per Pieces of a Woman, e Frances McDormand per Nomadland. Tutte e tre meriterebbero, ma la Kirby sembra favorita. La mia scelta personale cade invece su Frances McDormand, semplicemente perfetta.
Pronostico: Vanessa Kirby, Pieces of a Woman
Scelta personale: Frances McDormand, Nomadland

Gran Premio della Giuria 
Qui il favorito sembra Notturno di Gianfranco Rosi, sia per la bellezza delle immagini e l'originalità del racconto, sia per il tema affrontato, capace di parlare ai cuori di giurati di tutto il mondo. La mia scelta ricade invece su Never Gonna Snow Again, bella favola surreale.
PronosticoNotturno
Scelta personaleNever Gonna Snow Again

Leone d'Argento (Miglior Regia) 
Da questo premio potrebbe arrivare la grande sorpresa della Mostra, ovvero un riconoscimento all'oscuro ma meritevole film azero In Between Dying, racconto esistenzialista di un killer in fuga da se stesso e inseguito dalla Morte. La mia scelta ricade invece su Pieces of a Woman per il meraviglioso primo atto.
Pronostico: Hilal Baydarov, In  Between Dying
Scelta personale: Kornél Mundruzcò, Pieces of a Woman

Leone d'Oro 
Sfida davvero accesa e incerta: come l'anno scorso, manca un chiaro favorito, e letteralmente qualunque film del concorso potrebbe aggiudicarsi l'ambito premio. La mia scelta personale ricade su Nomadland, il mio pronostico su quello splendido pugno allo stomaco che è Nuevo Orden, capace di accontentare sia i cinefili che gli amanti del cinema commerciale.
Pronostico: Nuevo Orden
Scelta personale: Nomadland

È tutto anche per quest'anno, ci risentiamo per l'edizione 2021, speriamo in condizioni sanitarie più tranquille.

Pier

Telegrammi da Venezia 2020 - #5

Ultimo telegramma dalla Mostra del Cinema di Venezia, in attesa del Totoleone, con i due film migliori visti fin qui alla Mostra.

I Predatori (Orizzonti), voto 7. Ottimo esordio alla regia per Pietro Castellitto, che racconta due famiglie di "nuovi mostri" con sguardo originale e autoriale, dando vita a una satira sociale dove si ride e ci si dispera, e dove nessuno ottiene, né merita, redenzione.

In Between Dying (Concorso), voto 7. Sulle orme di Béla Tarr, un film dai connotati esistenzialisti, in cui un uomo sembra inseguito dalla Morte mentre va alla ricerca di se stesso. Qui la recensione estesa scritta per Nonsolocinema.

Nomadland (Concorso), voto 9. Uno struggente viaggio nel cuore dimenticato dell'America, tra crisi economica e tentativi di riscoprire i veri valori: un incontro di solitudini che è però fugace, perché la solitudine, forse, non è una costrizione, ma una scelta. Chloé Zhao realizza un film tra il road movie e Ken Loach, che colpisce dritto al cuore grazie anche alla prestazione sublime di Frances McDormand, nomade volitiva che fa del suo minivan una casa con la C maiuscola. Da tenere d'occhio anche in ottica Oscar.

Nowhere Special (Orizzonti), voto 9. Dopo quel piccolo capolavoro di Still Life, Uberto Pasolini torna a Venezia, e fa di nuovo centro con un film semplice, ma potente, in grado di parlare al cuore dello spettatore senza scivolare nei facili pietismi cui la storia (un padre morente cerca una nuova famiglia per il figlioletto) pur si presterebbe. Nowhere Special arriva dritto al cuore perché racconta senza fronzoli una storia autentica, e lo fa attraverso la scrittura e i personaggi, splendidamente tratteggiati e interpretati.

Genus Pan (Orizzonti), voto 7. Dopo il Leone d'Oro del 2016, Lav Diaz torna alla Mostra con un film che indaga la natura umana, e in particolare l'homo homini lupus di hobbesiana memoria: il buono soccombe alla disperazione, all'assenza di speranza, alla corruzione. Il film inizia con un'anabasi, un ritorno a casa che culmina in tragedia, per poi trasformarsi in un thriller politico. Il ritmo è lento, ma non rarefatto, con dialoghi frequenti e fitti, una peculiarità nel cinema di Diaz. Proprio i dialoghi, però, risultano in alcuni momenti superflui, un inutile ciarlare che va a perturbare la struggente bellezza delle immagini.

Per ora è tutto, appuntamento a più tardi per il Totoleone.

Pier


giovedì 10 settembre 2020

Telegrammi da Venezia 2020 - #4

 Quarto telegramma dalla Mostra del Cinema, che conferma la sua vocazione cosmopolita presentando opere dalle cinematografie di ogni angolo del mondo: Polonia, Hong Kong, USA, Giappone, Kazakhstan, Messico e, ovviamente Italia. 

Never Gonna Snow Again (Concorso), voto 7.5. Un film che si muove tra il teatro dell'assurdo e Lanthimos, che con tono ironico e paradossale esplora la vuota vita di un villaggio di super ricchi. Qui la recensione estesa scritta per Nonsolocinema.

Love After Love (Fuori Concorso), voto 6.5. Un ottimo melò, che non brilla per originalità ma per efficacia nell'esecuzione:  ben scritto, recitato, e fotografato. Da Ann Hui, però, già regista del magnifico A simple life, era forse legittimo aspettarsi a qualcosa di meglio, soprattutto sul piano delle emozioni.

Topside (Settimana della Critica), voto 8. Una madre e una figlia vivono nei tunnel abbandonati della metropolitana di New York: la bambina non ha mai visto la superficie, e ai suoi occhi i tunnel decrepiti e lerci sono ricchi di magia. Un racconto struggente, con una sceneggiatura eccellente e una regia magistrale, che ci accompagna in una risalita dai tunnel che ha il sapore della catabasi, dove l'inferno è in superficie e il paradiso giace nell'oscurità.

Wife of a Spy (Concorso), voto 4. Un film di spionaggio noioso, poco emozionante, con un solo colpo di scena interessante e scarsissima tensione. La fotografia e la ricostruzione del periodo pre Seconda Guerra Mondiale in Giappone sono scolastiche, e i bravi attori non bastano a salvare un film scialbo e senz'anima.

Le Sorelle Macaluso (Concorso), voto 7. Emma Dante torna alla Mostra, e lo fa con un adattamento della sua piece teatrale. Il film racconta la storia di una famiglia attraverso la memoria degli oggetti, dei gesti, dei segni del tempo: una caduta dalla grazia che arriva al termine di una giornata perfetta, e non cessa di manifestare i suoi effetti anche ad anni di distanza. Pur gravato da molti manierismi e artifici retorici superflui, il film arriva dritto al cuore, emoziona, e commuove.

Yellow Cat (Orizzonti), voto 7. Il film racconta le assurde avventure di un moderno Don Chisciotte che, inseguito dalla malavita locale, insegue a sua volta un sogno: aprire un cinema sulle montagne del Kazakhstan. Il film ha una prima metà fulminante, tra esilaranti imitazioni di Alain Delon e splendide situazioni surreali. Perde un po' di energia sul finale, ma riesce comunque a divertire e far riflettere.

Nuevo Orden (Concorso), voto 8. Un pugno allo stomaco, il film più emotivamente di impatto visto finora alla Mostra, che racconta un nuovo ordine politico che somiglia tremendamente al vecchio, e che forse era già lì, sotto la superficie, nascosto sotto un'apparenza di presentabilità che celava un mostro pronto a mordere, mutilare, e uccidere. La tensione rimane altissima per tutta la durata del film, la distopia è reale, troppo reale, terribilmente vicina al vero.

Pier 



martedì 8 settembre 2020

Telegrammi da Venezia 2020 - #3

 Terzo telegramma dalla Mostra del Cinema 2020. Molti film che si focalizzano sul tema del racconto e della narrazione - orale, visiva, scritta - altri che affrontano la quotidianità di persone comuni e uno, infine, che racconta una notte eccezionale nella vita di alcuni grandissimi personaggi.

Mainstream (Orizzonti), voto 6. La ricerca sfrenata della celebrità nel mondo dei social media e degli youtuber: il film intrattiene e offre una splendida prova di Andrew Garfield e alcune trovate visive interessanti, ma per il resto racconta temi e situazioni già visti e stravisti. Qui la recensione estesa scritta per Nonsolocinema.

The World to Come (Concorso), voto 6.5. Due donne nel New England di fine Ottocento, una vita spartana in cui non sembra esserci spazio per amore, poesia e sogno, che invece trovano nella compagnia reciproca. Un film che racconta un incontro di solitudini, con una fotografia pittorica in luce naturale che viene troppo spesso soffocata da un'invadente voce fuori campo.

La Nuit des Rois (Orizzonti), voto 8.5. Costa d'Avorio: un carcere in mezzo al nulla è controllato dai detenuti, organizzati con un sistema di gerarchie da principato rinascimentale. Quando sorge una luna rossa, inizia la Notte del Romanzo, in cui un prigioniero - detto Romanzo -  deve raccontare una storia. Durante la notte, si tessono intrighi per detronizzare l'attuale capo, mentre il racconto del Romanzo diventa un'esperienza catartica collettiva. Ispirato alla reale situazione di una prigione in Costa d'Avorio, il film è uno splendido inno alla potenza del racconto, alla sua natura condivisa e quasi magica, capace di esorcizzare paure ed evocare demoni, toccando le corde emotive più profonde e potenti dell'animo umano. Un'esperienza unica.

One Night in Miami (Fuori Concorso), voto 7. La notte in cui Cassius Clay ha appena conquistato il titolo dei pesi massimi contro Sonny Liston, in un hotel di Miami si svolge una riunione che cambierà il corso della storia dei diritti civili, e della vita di Clay in particolare: presenti, oltre al pugile, Malcolm X, Jim Brown, uno dei più grandi campioni della storia della NFL, e Sam Cooke, padre della musica soul. Si parla di diritti degli afroamericani, ma soprattutto di come ottenerli, con posizioni spesso conflittuali. Un film che, è triste dirlo, racconta una storia terribilmente attuale. Nonostante l'impianto forse eccessivamente statico e teatrale (il testo ha la sua origine come spettacolo teatrale, e si vede), il film risulta comunque efficace e di grande impatto, soprattutto grazie alla qualità della scrittura e alle ottime prove dei protagonisti, tra cui spicca Eli Goree, splendidamente gigione e perfetto interprete di Clay-Alì.

Haylaletler - Ghosts (Settimana della Critica), voto 5.5. Un blackout unisce temporaneamente i destini di cinque persone nella Istanbul di oggi. Una premessa interessante, ma sviluppata senza un'idea chiara, con scarso equilibrio tra i vari personaggi e un messaggio che, se c'era, non traspare affatto.

Notturno (Concorso), voto 8. Dopo il Leone d'oro ottenuto con Sacro GRA, Rosi torna alla Mostra con un ritratto delle zone di guerra in Medio Oriente, raccontate attraverso le vite dei cittadini comuni, catturati nella loro quotidianità. Teso, forte, quasi mai retorico, il film di Rosi cattura, avvince, e fa riflettere, sorretto anche dalla bellezza abbacinante di alcune immagini.

Pier e Simone

domenica 6 settembre 2020

Telegrammi da Venezia 2020 - #2

Secondo telegramma da Venezia, con una selezione dalle varie sezioni. Una Mostra che, complice forse lo stop alle produzioni causato dalla pandemia, è più internazionale che mai, con voci da ogni paese.


The Furnace (Orizzonti), voto 8. Uno splendido film d'avventura sullo sfondo dell'Australia di fine Ottocento, un incontro di diverse culture che imparano a collaborare per sognare e sopravvivere. Qui la recensione estesa scritta per Nonsolocinema.

The Duke (Fuori Concorso), voto 8. Splendida commedia dolceamara che racconta la storia vera di un uomo che rubò un dipinto di Goya dalla National Gallery per chiedere in cambio il canone televisivo gratuito per i pensionati. Una storia di ribellione sociale raccontata con humor, ottima scrittura, e una coppia di interpreti strepitosi, Jim Broadbent e Helen Mirren.

Pieces of a Woman (Concorso), voto 7.5. Una storia potente, attuale, che affronta un tema potenzialmente ostico come la perdita di un figlio con grande vitalità sia visiva che narrativa, evitando la pesantezza che spesso caratterizza film del genere e raccontando con efficacia la storia di una donna che vuole trovare il suo modo di vivere il lutto e raccontare la sua storia, senza accettare le narrative e prescrizioni che chi sta intorno cerca di imporle. Vanessa Kirby offre un'interpretazione eccezionale.

Kitoboy - The Whaler Boy (Giornate degli Autori), voto 7. Un film che racconta il passaggio da adolescenza ad età adulta: un ragazzo russo che vive nei pressi dello stretto di Bering, in un villaggio isolato che vive della caccia alle balene. L'unica distrazione dei ragazzi del villaggio è una chat erotica, ma il giovane protagonista si innamora di una delle ragazze. Il suo viaggio per conoscerla è un'odissea che lo porterà a conoscere infinite genti, e soprattutto a conoscere se stesso.

Khorshid - Sun Children (Concorso), voto 8.5. Dei ragazzi di strada in Iran tirano a campare con piccoli furti e lavoretti. Vengono ingaggiati da un piccolo malvivente locale per recuperare un tesoro, nascosto nelle viscere di una scuola. Per raggiungere il loro obiettivo, dovranno andare tra i banchi. La caccia al tesoro diventa uno splendido percorso di maturazione, una riflessione sull'importanza dell'educazione, dell'amicizia, e di trovare qualcuno che creda nel tuo potenziale. Il film non sfocia mai nella banalità o nella retorica, e alterna alla perfezione avventura, risate, e commozione, fino allo splendido crescendo del finale.

Pier

giovedì 3 settembre 2020

Telegrammi da Venezia 2020 - #1

Come ogni anno, Film Ora è a Venezia, e vi accompagnerà per tutta la Mostra del Cinema con i suoi telegrammi, recensioni brevi dei film visti nelle varie sezioni. Una Mostra giocoforza particolare, nell'anno di una pandemia, ma organizzata con passione artistico e un rigore logistico finora impeccabile.



Ecco i film visti nel primo giorno e mezzo di Mostra:

Lacci (Fuori Concorso), voto 4.5. Un film che sembra realizzato al solo scopo di corroborare la tesi di chi sostiene che il cinema italiano sia moribondo e sempre uguale a se stesso. La solita storia di infedeltà coniugale, con il solito campionario di ripicche, rimproveri, nevrosi, paturnie, e patemi recitata dai soliti attori e attrici con le solite nevrosi, paturnie, e patemi. Spiace che venga da Daniele Luchetti, che ci aveva abituato a ben altro.

Mila - Apples (Orizzonti), voto 7.5. Una pandemia che cancella la memoria, e un protagonista che, nel cercare di ritrovare se stesso si infila in una serie di situazioni paradossali. Un'idea di partenza brillante, sviluppata forse al di sotto del suo potenziale, ma comunque efficace, sempre in sospeso tra farsa e dramma, commedia e tragedia.

The Book of Vision (Settimana della Critica), voto 6.5. Un esordio ambizioso per il regista italiano Carlo S. Hintermann: un libro che collega due storie a secoli di distanza, due approcci alla medicina diversi, uno scientifico, l'altro più spirituale. Un film in costume che sfocia a tratti nel fantasy, mescolando generi, piani temporali, e suggestioni. Sorretto da un cast in ottima forma, il film pecca di eccessi, cercando di unire troppi messaggi, linee narrative, e tematiche. Tuttavia, non si può che applaudire al coraggio di osare, persino di eccedere, soprattutto all'interno di una cinematografia nazionale che sembra spesso una triste fiera del già visto.

Quo Vadis, Aida (Concorso), voto 8. La storia del massacro di Srebrenica, raccontata dalla prospettiva di un'interprete bosniaca che lavora per le Nazioni Unite. Un film che è un pugno allo stomaco, una denuncia di impatto devastante sull'inerzia della Nato, girato con rigore e forza espressiva, senza sconti, e sorretto dallo sguardo stralunato e dalla grinta della bravissima protagonista, Jasna Đuričić. 

Final Account (Fuori Concorso), voto 7.5. Un documentario sul nazismo costruito sulle memorie di chi il nazismo lo ha vissuto in prima persona: ex ufficiali delle SS, della Wehrmacht, guardie dei campi di concentramento, contabili. Persone che non hanno commesso in prima persona le efferatezze del regime, ma che sono costretti, ognuno a modo suo, a fare i conti con ciò che è accaduto intorno a loro senza che facessero niente. Un film potente, che mette i suoi protagonisti e, quindi, lo spettatore di fronte a dilemmi etici di difficile risoluzione, costringendoci a chiederci quanto sia facile essere "cattivi", e quando sia difficile eroi.

Amants (Concorso), voto 4.5. Un melodramma classico, troppo classico, con una sceneggiatura pigra e prevedibile e due protagonisti con scarsa chimica. Resta la bellezza di qualche immagine, ma è davvero troppo poco.

Pier e Simone

sabato 29 agosto 2020

Tenet

 Tempus fugit

Un agente della CIA senza nome partecipa a un'azione per sventare un attentato terroristico all'Opera di Kiev. Viene catturato, ma scopre che questa operazione era in realtà un test per ammetterlo in un programma misterioso, dove dovrà sventare una "guerra temporale", con agenti in grado di muoversi contro il flusso dello spaziotempo.

Il tempo, e l'effetto che la sua percezione ha sull'agire e il sentire umano, è indubbiamente uno dei temi centrali della cinematografia di Christopher Nolan. Da Memento a Inception, passando per Interstellar e un film più "classico" come Dunkirk, il regista britannico gioca con il tempo per esplorare la psicologia dei personaggi, ma anche per esplorare nuovi linguaggi espressivi all'interno di un'arte che con il tempo ha sempre avuto un rapporto molto lineare, soprattutto nel comparto visivo: se a livello narrativo la manipolazione spaziotemporale non è certo un'invenzione di Nolan, è altrettanto indubbio che a lui si devono alcune delle più ardite esplorazioni e manipolazioni visive del tempo cinematografico (qui il nostro speciale sul regista).

In Tenet, questa esplorazione viene portata alle sue estreme conseguenze, al punto da sopravanzare persino la costruzione narrativa, quel meccanismo di scatole cinesi che caratterizzava altri film come Memento, Inception o The Prestige, costringendo lo spettatore a cambiare di continuo le sue convinzioni e ciò che credeva di sapere. I colpi di scena ci sono, chiariamoci, ma l'impianto narrativo è nel suo complesso più semplice, e chi abbia dimestichezza con show televisivi come Dark e Doctor Who, pur disorientato durante lo svolgimento, non avrà eccessive difficoltà a tirare le fila della trama a film terminato (se vi foste persi, qui un efficace riassunto, da leggersi rigorosamente dopo la visione). La stessa scelta di affrontare un genere come la spy story permette a Nolan di muoversi in strade ben definite e battute, tra James Bond e Mission Impossible, e concentrare la sua attenzione e la sua creatività su come il complotto e il tentativo di sventarlo vengono raccontati - sul linguaggio, anziché sul contenuto.

Nel comparto visivo si concentra quindi tutta l'innovazione del film, e Nolan come sempre non delude: sorretto come sempre dalla splendida fotografia di Hoyte van Hoytema, Nolan sovverte ogni regola del cinema di azione e del cinema in generale, mettendo in scena uno spettacolo e il suo esatto opposto, lo svolgimento e il riavvolgimento, facendo incontrare piani temporali che non dovrebbero incontrarsi e creando così un effetto visivo magnificamente straniante. Gli espedienti visivi di Tenet creano gli stessi effetti di tensione di quelli sonori di Dunkirk, giocando con la percezione di chi guarda e sfidandola a entrare in un mondo diverso, in cui nulla di quanto conosce si applica più. Il punto di vista dell'anonimo protagonista è quello dello spettatore, che con lui viene disorientato nel vedere sovvertite le leggi della fisica e della messinscena cinematografica. 

Non tutti gli spettatori, però, avranno necessariamente la pazienza e il fatalismo del personaggio di John David Washington (ottima la sua prova, così come quella di Robert Pattinson, suo partner in crime): la sfida può risultare ostica, e non sarebbe sorprendente se questo risultasse il film più divisivo di Nolan (già regista divisivo di suo), dato che mette alla prova la pazienza dello spettatore e la sua capacità di accettare delle regole del gioco completamente nuove, che possono a volte sembrare fini a se stesse. A parere di chi scrive non lo sono, in quanto proseguono un discorso che Nolan porta avanti da decenni, un percorso di ricerca che vuole sposare spettacolarità e ricerca, successo commerciale ed esplorazione stilistica: un esercizio di equilibrismo difficilissimo, da cui Nolan esce ancora una volta vincitore, portando a casa un film d'azione adrenalinico anche nei momenti più "classici" (magistrale, in tal senso, la scena d'apertura) e che lascia letteralmente a bocca aperta in alcuni dei suoi momenti più innovativi.

Tenet non è certamente il miglior film di Nolan: è imperfetto, ha un ritmo sincopato, irregolare, che dà una sensazione di incompletezza, e l'effetto straniante e quasi respingente di alcune scene è innegabile anche per chi le ha enormemente apprezzate. Tuttavia, Tenet è probabilmente il film che meglio riflette il percorso di ricerca del regista, il tentativo quasi unico di innovare il linguaggio cinematografico senza abbandonarsi allo sperimentalismo fine a se stesso ma riuscendo comunque a intrattenere e tenere incollato alla sedia lo spettatore. 

Tenet, in sintesi, è un film coraggioso, ambizioso, che non ha paura di rischiare, di sovvertire stilemi di regia e messa in scena ormai dati per acquisiti, di sfidare lo spettatore non più solo sul piano dell'attenzione e della narrazione ma anche su quello visivo e della percezione, proponendo novità che mettono in crisi il nostro modo di intendere il cinema perché alterano l'elemento che ne costituisce il DNA nascosto: il tempo. 

****

Pier

mercoledì 26 agosto 2020

Onward - Oltre la magia

Un viaggio magico


Ian è un elfo adolescente, timido e impacciato. Vive in un mondo abitato da creature fantasy, ma per il resto del tutto identico al nostro. Una volta esisteva la magia, ma ormai è stata soppiantata dalla tecnologia. Ian è rimasto orfano di padre ancora piccolo, e soffre molto per non averlo mai conosciuto, nonostante il fratello maggiore Barley e la madre Laurel si facciano in quattro per colmare quel vuoto. Quando compie sedici anni, Ian riceve in regalo un bastone magico che può riportare in vita il padre, anche se solo per ventiquattro ore. Tuttavia, qualcosa non va come previsto, e Ian e Barley dovranno imbarcarsi in un viaggio alla ricerca della magia perduta per coronare il sogno di rivedere il padre.

"Qualunque tecnologia sufficientemente avanzata è indistinguibile dalla magia." Queste parole di Arthur C. Clarke risuonano potenti in Onward, dove la tecnologia e le comodità che essa porta sono riuscite a spazzare via la magia, rendendola obsoleta, persino in un mondo abitato da creature che noi definiremmo magiche: elfi, centauri, manticore, unicorni. Come sempre, la Pixar non fa nulla per caso: quello che sembra semplicemente un espediente narrativo è in realtà la chiave di lettura del film, che aggiunge livelli di complessità alla ormai conosciuta metafora del viaggio, elemento centrale di ogni road movie che si rispetti.

Il viaggio di Barley e Ian alla ricerca del padre e della speranza di rivederlo anche solo per un attimo è ovviamente un viaggio alla scoperta di se stessi, sia a livello individuale che di coppia, ma non solo: è il viaggio di un intero mondo alla riscoperta delle proprie radici dimenticate, sacrificate sull'altare di una modernità che tranquillizza e conforta ma in modo narcotico, sedando le emozioni e le passioni. La riscoperta delle radici, delle passioni dimenticate, degli affetti, della capacità di sognare a occhi aperti sono elementi centrali della poetica della Pixar, e vengono qui declinate in un film all'apparenza semplice, ma che acquisisce crescente complessità dopo che si è usciti dalla sala e si ripensa a quanto visto. La vera missione è quella di ritrovare il passato, e solo chi ha il cuore puro di un paladino delle leggende può sperare di farlo: non è un caso che la "chiave" per questa conoscenza del passato sia nascosta in un gioco di carte fantasy, passatempo da sognatori per eccellenza. Il passato non viene visto solo in chiave nostalgica, ma come un sistema di valori abbandonato forse troppo in fretta, sacrificato sull'altare di un progresso che non pare però in grado di colmare alcuni vuoti interiori. Un messaggio quanto mai attuale in un'era dove la tecnologia è sempre più radicata nelle nostre vite, paradossalmente rafforzato proprio da quella pandemia che ha finora impedito di vedere Onward in sala. 

Questi elementi, questi molteplici livelli di lettura non vengono presentati in modo didascalico, come spesso accade nei film per ragazzi, ma nascosti con delicatezza nella trama, come tante piccole gemme che lo spettatore cattura quasi inconsciamente, per poi rivelarsi nel loro splendore al termine del percorso. Un percorso fatto, come sempre nei film Pixar, di humor, trovate geniali, ma anche lacrime, dilemmi interiori, e riflessioni sulle difficoltà della crescita.

I personaggi sono delineati con grande delicatezza e precisioni: Ian e Barley (splendidamente doppiati in originale da Tom Holland e Chris Pratt) sono dei novelli Narciso e Boccadoro, ragione e passione, ma sono anche due fratelli cresciuti senza un padre, insicuri (ciascuno a suo modo) e in cerca di un affetto che non sanno di possedere già. La crescita di Ian, in particolare, è il cuore emotivo del film, che porta ai momenti più spettacolari ma anche più emozionanti, culminanti nel finale dove sarà difficile anche ai cuori più aridi non versare nemmeno una lacrima. 

Onward è un film Pixar solo in apparenza minore, ma che in realtà, proprio come una ricerca nei romanzi cavallereschi, ci accompagna in luoghi nascosti e preziosi, facendoci divertire ma anche riflettere sul senso della vita e sull'importanza dei rapporti personali. Si arriva al premio finale? Certo: ma ciò che conta, in fondo, è il viaggio.

****

Pier


lunedì 13 luglio 2020

Eurovision Song Contest - La storia dei Fire Saga

Canzoni e risate



Lars e Sigrit si conoscono fin da piccoli, e formano un duo musicale molto affiatato, ma di scarso successo in patria: i Fire Saga. Il sogno di Lars è di partecipare all'Eurovision Song Contest, la più grande competizione del mondo, come rappresentanti del loro paese, l'Islanda. Il destino riserverà loro molte sorprese.

La storia dei Fire Saga fa parte di un genere, quello comico con tocchi di demenziale, tra i più difficili da affrontare: il confine tra "comico" e "grottesco" è molto labile, e la critica (soprattutto italiana) tende a stroncare film di questo genere. Lo sa bene Will Ferrell, che in questo genere si è costruito una carriera; e lo sa bene anche il regista David Dobkin, regista di uno degli esempi più riusciti del genere, Due single a nozze.

Non sorprende, quindi, che La storia dei Fire Saga abbia riscosso poco successo con i critici più paludati, ma gli amanti del genere lo apprezzeranno per la sua capacità di offrire ciò che promette, senza fronzoli e senza eccessive innovazioni nell'intreccio, ma con una buona dose di coraggio e "follia" nella messa in scena. Il film è riuscito proprio per la sua "onestà", per la sua capacità di non prendersi sul serio e concentrarsi solo sugli ingredienti più riusciti: attori, musiche, e costumi e coreografie. Se Will Ferrell non è una sorpresa ed è  come sempre irresistibile con la sua mimica, Rachel McAdams è una rivelazione per la sua capacità di unire un genuino entusiasmo, che si trasmette allo spettatore, e tempi comici perfetti: se in Due single a nozze il suo ruolo si riduceva a quello di interesse amoroso del protagonista, qui è una coprotagonista e spalla comica a tutti gli effetti. Al loro fianco, brilla il poliedrico Dan Stevens, capace di passare da Downton Abbey a Legion a un personaggio puramente comico con una disinvoltura assolutamente stupefacente.



Il punto più riuscito del film sono però le canzoni e il comparto visivo. Tutte le canzoni sono orecchiabili e rimangono in testa a lungo, con un mix tra pop e dance pienamente adeguato al contesto e che non ha nulla da invidiare a musical ben più ambiziosi. Costumi e coreografie sono semplicemente esilaranti, e offrono alcuni dei momenti comici più riusciti del film. In generale, Dobkin e soci catturano alla perfezione lo spirito "sopra le righe" e un po' kitsch dell'Eurovision, anche se appiattiscono un po' la diversità regionale per rendere le canzoni più accessibili al grande pubblico.

La storia dei Fire Saga è un film senza pretese, concepito e realizzato con lo scopo di intrattenere e far sorridere lo spettatore, e centra ambedue gli obiettivi alla perfezione, arricchendoli con una colonna sonora strepitosa e che rimane in testa a lungo. Non è - ma non vuole nemmeno essere - un capolavoro, ma fa il suo dovere fino in fondo, divertendo ed emozionando con una storia di passione e musica che lascerà lo spettatore con un sorriso stampato sul volto: di questi tempi, non è poco.

*** 1/2

Pier