martedì 15 dicembre 2020

Mank

Algido esercizio di stile


California, 1940. Il giovane talento del teatro Orson Welles commissiona a Herman J. Mankiewicz, grande sceneggiatore limitato dal vizio dell'alcool, la sceneggiatura per il suo primo film da regista. Mank, a causa di un incidente, è bloccato a letto, e si isola nel deserto del Mojave per scrivere la storia. Finirà per ispirarsi a quello che, una volta, era stato il suo mecenate: William Randolph Hearst, magnate dell'editoria. La sceneggiatura di Mank e il film di Welles passeranno alla storia del cinema: si tratta, infatti, di Quarto Potere.

David Fincher ha dimostrato un talento particolare nel raccontare storie personali che diventano anche spaccati generazionali e sociologici. Da The Social Network a Zodiac, i suoi film nel campo non sono mai banali, spesso profondi, a volte addirittura profetici. Non sorprende, quindi, che Fincher abbia deciso di confrontarsi con il film biografico più famoso della storia del cinema, raccontando le vicende di uno dei suoi creatori, Herman Mankiewicz. Quarto Potere è infatti la quintessenza della storia personale che si fa storia del paese e addirittura storia universale, una parabola sul lato oscuro del sogno americano e sulla condizione esistenziale umana di rara forza e potenza evocativa. Un film che parla di potere, di etica, di orgoglio, di ambizione, ma anche di comunicazione e del potere dei mass media: tutti temi che non potevano che attirare Fincher, inducendolo a realizzare l'ambiziosa sceneggiatura scritta da suo padre.

Quarto Potere è un film che ancora oggi, a quasi 80 anni dalla sua uscita, stordisce per la sua portata rivoluzionaria a livello narrativo e visivo, con alcune soluzioni che rimangono punto di riferimento imprescindibile, imitate ma mai superate o rielaborate. Si può dire che pochissimi film (forse nessuno) abbiano cambiato il linguaggio cinematografico quanto Quarto Potere, ed è paradossale che Fincher decida di raccontare la genesi delle sue innovazioni narrative decidendo di non parlare di quelle stilistiche al tempo stesso di riprodurle pedissequamente, con citazioni che sono al limite del plagio di cui sfugge completamente il punto. Se l'intento era di dimostrare la replicabilità delle innovazioni di Welles, l'esercizio risulta pedante e inutile, dato che rifare qualcosa nel 2020 non dimostra che fosse poco innovativo nel 1941. Se l'intento era invece omaggiarlo, risulta di difficile comprensione la scelta di sminuire il contributo e la figura di Welles durante tutto il film, abbracciando in modo subdolo la tesi revisionista di Pauline Kael già ampiamente smentita dalle ricerche condotte da critici e storici del cinema (per chi fosse interessato, qui si può trovare un ottimo riassunto).

La sceneggiatura ha dialoghi brillanti e ben ritmati, ma risulta molto superficiale nello sviluppo dei personaggi ed eccessivamente didascalica nella struttura: i cambi scena scanditi dalle battute della macchina da scrivere, come accade nelle sceneggiature, sono un trucco vecchio e trito che uccide il ritmo del racconto e rende i flashback un artificio retorico stanco e frusto anziché un modo di vivacizzare la narrazione e moltiplicarne i punti di vista. La sceneggiatura, insomma, è l'esatto opposto di quella di Mankiewicz (e Welles), caratterizzata da una scrittura vitale, mai noiosa né didascalica, innovativa anche per la capacità di usare i flashback senza bisogno di "segnarli" temporalmente con didascalie o simili. Anche i temi trattati con maggiore efficacia, come quello dell'influenza dei mass media e delle notizie false (già attuale negli anni Quaranta, a riprova che la Storia non è altro che un eterno ritorno dell'uguale), sanno comunque di "già visto", e non aggiungono nulla a quanto già detto da Mankiewicz e Welles e dallo stesso Fincher in The Social Network.

Se non ci si annoia è merito di una regia come sempre sopraffina, ma soprattutto delle grandissime prove degli attori: Gary Oldman giganteggia nella parte di un uomo che è il suo peggior nemico, segnato dalla vita e incapace di fuggire da se stesso, ma accanto a lui offrono ottime prove anche Amanda Seyfried e Charles Dance, semplicemente perfetto nella parte di quel William Randolph Hearst che fu l'ispirazione per Charles Foster Kane.

Fincher realizza una riflessione sul cinema di grande interesse storico e biografico e fattura eccellente, ma di scarso interesse cinematografico. La sensazione è che, nell'ansia di portare avanti una tesi preconfezionata, Fincher sia rimasto in parte prigioniero di forma e contenuto e abbia dimenticato l'anima del film, sia dal punto di vista creativo che narrativo. Mank rimane un'opera realizzata in modo mirabile, ma senza dubbio un passo indietro per un regista che, anche nelle sue opere apparentemente meno autoriali, ci aveva abituati a un'innovazione radicale e mai fine a se stessa.

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Pier

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