giovedì 29 ottobre 2020

Cosa sarà

La forza della fragilità


Dopo il brillante esordio di Scialla! e il convincente e più maturo Tutto quello che vuoi, Bruni torna dietro la macchina da presa per il suo film più personale, sincero, e coinvolgente. Bruni racconta la storia di una malattia, ma lo fa con i toni che gli sono propri, esplorando le relazioni e le solitudini del protagonista e dei personaggi che gli gravitano attorno. La malattia è presente, mai nascosta o negata, con scene in ospedale di grande impatto e una grande attenzione all'aspetto clinico. 

Tuttavia, la malattia non è la protagonista del film, che evita ogni eccesso di spettacolarizzazione, rifuggendo la narrativa della "lotta" per abbracciare quella dei sentimenti, delle relazioni, delle emozioni, sia positive (si ride, tanto) che negative. La maestria di Bruni sta proprio qui, nella capacità di non cedere al facile pietismo ma al tempo stesso di non "censurare" la malattia, nascondendola o relegandola in secondo piano. Un atto di equilibrismo tanto più rimarchevole considerando che Bruni sta raccontando, seppur in versione romanzata, la storia della sua malattia, da cui lo ha salvato un trapianto di midollo donato dal fratello.

La malattia è presente, ma non dominante, e costringe Bruno e i suoi cari a fare i conti con il passato, sempre presente con flashback improvvisi e mai didascalici, con segreti, non detti, frustrazioni espresse ed inespresse. Il passato sembra essere la malattia più grande, una fonte di frustrazioni ma anche di ricordi ed emozioni che aiutano a guardare al futuro con speranza, nonostante le difficoltà. 

Il film è ben scritto e ottimamente interpretato, e trova il suo centro nella splendida prova di Kim Rossi Stuart, camaleontico e verista nella sua interpretazione, con isterismi un po' alla Nanni Moretti intervallati a bellissimi momenti intimi, privati con la moglie, i figli, medici e infermieri. Il suo Bruno è un uomo alla ricerca di se stesso, conscio della sua fragilità ma al tempo stesso restio ad accettarla, costretto dalla malattia a confrontarsi con se stesso e ciò che è ed è stato per chi gli sta intorno. Un personaggio difficile, sfaccettato, complesso, che Kim Rossi Stuart restituisce con grande efficacia e impatto emotivo. 

Cosa sarà è un film che non ha paura di parlare della fragilità umana, che rigetta la metafora del "guerriero" per offrirci un ritratto più realistico di come la malattia stravolge la vita del paziente e di chi gli sta intorno: un ritratto caleidoscopico, che adotta un registro emotivo ampio e diversificato anziché focalizzarsi su un solo tipo di emozione come spesso accade in opere sul tema. Bruni dimostra ancora una volta una grande sensibilità per raccontare vite, persone, relazioni: in una parola, l'umanità.

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Pier

sabato 17 ottobre 2020

La vita straordinaria di David Copperfield

Un classico per i nostri tempi


Inghilterra, età vittoriana. David Copperfield nasce orfano di padre. Allevato dalla madre e dalla governante, vedrà il suo nido idilliaco infranto dall'arrivo di Mur. Murdstone, nuovo marito della madre. Questi, per liberarsene, lo spedisce a Londra a lavorare nella sua fabbrica. Questo è l'inizio di una serie di avventure e disavventure che porteranno il giovane David a scoprire se stesso, passando spesso dalle stelle alle stalle e incontrando una galleria di personaggi memorabili sulla sua strada. 

Poco noto al pubblico italiano, Armando Iannucci (scozzese, anche se di origini italiane) è uno degli autori più geniali e innovativi in attività, specializzato in satira politica. Sue sono le meravigliose serie The thick of it e Veep, dove mette a nudo senza pietà e con un misto di crudeltà e ironia molto british le idiosincrasie di politici e politicanti. Laddove il suo primo film, Morto Stalin se ne fa un altro, proseguiva questo filone, La vita straordinaria di David Copperfield vira in direzione della commedia e della satira sociale. Iannucci riprende le tematiche di denuncia della storia di Dickens ma le spoglia quasi del tutto della loro componente patetico-emotiva per puntare su toni leggeri, ma ugualmente efficaci nel mettere a nudo le contraddizioni del sistema delle classi sociali inglesi. 

Iannucci mette in atto questa visione già nella scelta del cast, un ensemble multietnico dove un indiano ha genitori caucasici e un'afroamericana un padre asiatico, annullando così ogni differenza razziale. Questa scelta, originale, coraggiosa e mai vista al cinema (più frequente a teatro), ha l'effetto di far risaltare ancora di più le assurdità delle distinzioni per ceto: un sistema di classi rigido, ingessato, che Iannucci, da buon inglese, sa essere vivo e rampante ancora ogni giorno. 

Alla rigidità del sistema si oppone la vitalità contagiosa di David, mirabilmente interpretato da Dev Patel, che dà al personaggio un entusiasmo contagioso e fanciullesco, che fa vibrare di vita il film. Accanto a lui, un'indimenticabile galleria di eccentrici, tra cui spiccano Hugh Laurie nella parte dello svampito Mr. Dick, Tilda Swinton in quella dell'eccentrica zia Betsy, e Peter Capaldi nel ruolo del funambolico straccione squattrinato Mr. Micawber.

La sceneggiatura procede per quadri, con i vari episodi della vita di David congiunti solo dalla sua voce narrante. Questa sconnessione a volte rallenta il ritmo del racconto, che però non risulta mai noioso grazie alla brillantezza di dialoghi e personaggi. 
Il comparto visivo riflette la vitalità dei personaggi e della sceneggiatura, amplificandole, con una fotografia ariosa e luminosa, costumi pastello, e abitazioni eccentriche che sembrano uscite da un libro di avventure, piene di oggetti e di vita. Tutto sembra un parto della fantasia esuberante di David, un frutto del suo racconto allo spettatore, un'immagine della realtà trasfigurata dai suoi occhi da sognatore che non si arrende di fronte alle difficoltà.

Dietro questa patina spensierata, tuttavia, Iannucci mette in scena un passato di abusi e ingiustizie che ricorda sinistramente il presente, in cui pochi hanno tantissimo e molti devono arrangiarsi, tirare a campare, vivendo alla giornata e trascinandosi tra debiti e mancanza di cibo, con lo spettro della prigione che aleggia su di loro. La Londra vittoriana di Dickens diviene la Londra multietnica di oggi, e la somiglianza è sconcertante ma innegabile.

Iannucci si conferma un regista che ha sempre qualcosa da dire, ma dimostra anche una capacità di cambiare registro e tono senza rinunciare alla sua voce e alla sua visione del mondo. La vita straordinaria di David Copperfield è un film che diverte e dona gioia, ma che al tempo stesso fa riflettere. Alle risate sonore si mescolano i sorrisi amari, in una commistione tra commedia e satira che funziona e colpisce, e che dimostra che alcuni classici hanno ancora tantissimo da dire.

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Pier

martedì 6 ottobre 2020

Il processo ai Chicago 7

Tutto il mondo ci guarda


USA, 1969. Il Dipartimento della Giustizia del neoeletto presidente Nixon decide di istituire un processo contro vari esponenti della controcultura giovanile e del movimento per i diritti civili, scegliendoli come capri espiatori per le violenze nate in seguito alla repressione delle proteste avvenute durante la convention democratica di Chicago del 1968. Il processo si rivela ben presto una farsa, ma gli avvocati della difesa e gli imputati non intendono darsi per vinti.

Aaron Sorkin, dopo il convincente esordio dietro la macchina da presa con Molly's Game, si conferma regista talentuoso e con visione, capace di giocare con il ritmo, le immagini, i suoni. I tempi filmici si comprimono e si dilatano a piacere, grazie a un'alternanza tra lunghi piani sequenza che abbracciano una folla, l'aula, una stanza, e rapide sequenze di montaggio che mostrano la violenza o la quiete prima della tempesta, interpolati con filmati d'epoca che arrivano come tanti piccoli pugni allo stomaco. Il cambio di ritmo è al servizio del cambio di atmosfera tra i momenti concitati delle proteste e quelli (in apparenza) più compassati dell'aula.
La violenza è volutamente nascosta per larghi tratti del film, ma quando si vede esplode in una violenza sconvolgente, reale, non patinata né spettacolarizzata, che restituisce appieno l'inutile brutalità della polizia.

La sceneggiatura, se mai ci fossero dubbi, è un perfetto meccanismo a orologeria, senza una sbavatura o una battuta fuori posto. Sorkin è un maestro del dialogo e, come sempre, non delude, muovendosi a suo agio in un genere ben codificato come il courtroom drama e scardinandone gli impianti in modo creativo e innovativo. La scena d'apertura, con un'alternanza di walk and talk in pieno stile The West Wing, è un capolavoro di scrittura, recitazione, e montaggio. Sorkin costruisce dei personaggi memorabili e li mette all'interno di un teatro sociale e culturale meticolosamente ricostruito, in cui impariamo a scoprire le diverse anime di un paese in subbuglio, alla ricerca di un equilibrio tra interessi troppo diversi. 

Sorkin mette in scena il processo dapprima con toni farseschi, per sottolinearne le assurdità, ma poi vira decisamente verso il tragico, verso il pathos, in particolare grazie a due episodi reali che non possono non sconvolgere lo spettatore: episodi che si stenta a credere siano accaduti veramente in un'aula di tribunale, tradiscono un totale disprezzo per lo stato di diritto e per quell'ideale di Giustizia che dovrebbe animare ogni procedimento giudiziario.

Al centro di tutto ci sono i personaggi, protagonisti dimenticati di una storia che si fa Storia, di un processo che sembra essere in corso ancora oggi. Tutti gli attori offrono prove magistrali, ma su tutti spiccano Sacha Baron Cohen, meraviglioso hippie, e Yahya Abdul-Mateen II, già visto nella serie di Watchmen, protagonista dei momenti più drammatici del film.

Il processo ai Chicago 7 scava nei problemi della società statunitense, sia storici che contemporanei, restituendo un ritratto degli anni Sessanta che somiglia in modo inquietante ai nostri tempi. Sorkin realizza un film che guarda a ieri per parlare con enorme potenza all'oggi, raccontando una società dilaniata da conflitti razziali, politici, sociali, e generazionali, dove la verità non è più importante. Il processo ai Chicago 7 è un richiamo all'importanza dell'attenzione civile e sociale, perché solo gli occhi attenti del mondo possono evitare che il potere trionfi sulla giustizia. Da non perdere.

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Pier