domenica 29 ottobre 2023

Killers of the Flower Moon

La banalità del male


Oklahoma, anni Venti. Ernest Burkhart torna dalla guerra e si reca dallo zio, William Hale, che gli ha promesso un lavoro. Hale è in ottimi rapporti con i nativi che vivono in quella zona, gli Osage, divenuti improvvisamente ricchi perché nella loro terra è stato trovata (inaspettatamente) una grande quantità di petrolio. Quando Ernest si invaghisce di Mollie, un'ereditiera Osage, lo zio non solo approva, ma favorisce la relazione. Il perché diverrà terribilmente chiaro di lì a poco, ed Ernest si troverà di fronte a una scelta.

Dopo l'epico e crepuscolare The Irishman, un inno al potere salvifico della memoria e dei ricordi a fronte di un presente di delusione, Martin Scorsese realizza un altro film che ha al suo cuore l'importanza del ricordo, declinato qui però come testimonianza, come memoria di un passato orribile, di vicende che vorremmo, ma non dobbiamo, dimenticare. In Killers of the Flower Moon, Scorsese continua a raccontare il tema che attraversa tutta la sua cinematografia, le mille manifestazioni del Male nel mondo, e lo fa con un piglio di denucia e quasi documentaristico degno di Michael Moore, regalandoci protagonisti che, per immensa idiozia o ancor più immensa avidità, non si fanno scrupolo nello sterminare un'intera popolazione.

A differenza che in altri suoi film, tuttavia, Scorsese non ammanta di alcun romanticismo i suoi villains e le loro azioni: i killer del titolo si comportano come contabili, e dispongono delle vite altrui come si disporrebbe di un masso che impedisce il passaggio sulla strada. Gli Osage sono de-umanizzati dai protagonisti e, in parte, anche dall'occhio del regista, che sembra voler costringere lo spettatore a "immedesimarsi" con gli omicidi per fargli comprendere appieno gli orrori che si nascondono nel passato degli USA: il West non è stato scoperto o conquistato, ma rubato, e l'indifferenza di oggi nei confronti di quella tragedia non è meno terribile delle atrocità di ieri. 

Ernest, interpretato con magnifica e credibile stolidità da Di Caprio, è il simbolo dell'ignavia di un intero paese, un utile idiota che si fa trascinare dagli eventi ma che, nonostante ne abbia più volte occasione, non sceglie mai la strada della redenzione, minimizzando di continuo la severità delle sue azioni.
Il vero Male è incarnato invece dallo zio Bill, un De Niro mai così spaventoso nonostante non maneggi mai nulla di più pericoloso di un'asse di legno: il  suo personaggio è il Satana biblico, un affascinante tentatore che, come il serpente, si insinua nel giardino dell'Eden fingendosi amico, per poi inquinare le vite di coloro che si sono fidati di lui.

La de-umanizzazione degli Osage, tuttavia, non è totale: Scorsese affida il cuore emotivo del film a Molly, una Osage che - nel bene e nel male - è sempre artefice del suo destino, e che vede il proprio mondo crollare a causa delle azioni abiette di chi aveva giurato di proteggere lei e la sua gente. È lei la vera vittima del Male che si insinua in Oklahoma, distruggendo la sua famiglia e devastandole il corpo e lo spirito. Non è un caso, in tal senso, che le scene della sua malattia siano riprese proprio come quelle di una possessione demoniaca, e che solo un salvifico intervento esterno riesca a liberarla del Male che la stava portando alla morte.

Se l'operazione di Scorsese è vincente a livello cognitivo, è invece parzialmente fallimentare a livello emotivo: l'oggettificazione degli Osage e la banalizzazione del male funzionano a livello di denucia, ma azzoppano il coinvolgimento dello spettatore, che non riesce davvero a empatizzare con protagonisti cui le cose sembrano sempre accadere, anche quando, come nel caso di Mollie, la loro attività nelle decisioni prese è presentata chiaramente sullo schermo. Anche Mollie, dunque, nonostante l'ottima (anche se non stratosferica come si è letto in giro) prova di Lily Gladstone, non riesce a conquistare il cuore dello spettatore dato che ogni coda che le accade sembra inevitabile, ineludibile: non si "tifa" per lei perché non c'è mai davvero un momento in cui sembra che possa sfuggire a quel che le sta succedendo, in cui possa fare una scelta diversa, congegnare un piano di azione per liberarsi del giogo cui è costretta.

Il risultato è un film forse troppo cerebrale, e che finisce quindi per avere un impatto infinitamente inferiore rispetto al potenziale della storia narrata, complice anche una durata che non sembra giustificata dallo svolgimento narrativo, soprattutto nella seconda metà, dove alcune situazioni risultano un po' ripetitive. La bellezza delle immagini e della costruzione bastano a rendere il film eccellente, ma non a elevarlo allo status di capolavoro.

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Pier

giovedì 19 ottobre 2023

Io Capitano (In pillole #27)

Narrami, o Musa...


Raccontare il viaggio di due ragazzi dal Senegal all'Italia, attraverso una delle tante "rotte dei migranti", non è un esercizio semplice. Altissimo il rischio di scadere nella retorica da una parte, e nella pornografia della violenza dall'altra. Garrone sceglie una terza via che evita ambedue questi problemi - la via della fiaba e del racconto epico. Nel farlo, realizza un film vero e onirico al tempo stesso, con personaggi non meno "assurdi" di un ciclope o delle sirene che però sono tristemente reali.

Tra deserti, prigioni, mare, nemici crudeli e insperati dei ex machina, Garrone dimostra di non essere  interessato a fare un film di denuncia, ma a raccontare un'Odissea contemporanea in cui però non si torna a casa, ma se ne cerca una nuova. L'impatto emotivo non è forte quanto avrebbe potuto essere, anche a causa dell'evoluzione psicologica quasi assente dei protagonisti, veri e propri archetipi narrativi. 

Ai protagonisti, tuttavia, ci si affeziona fin da subito, anche grazie alla loro prova straordinaria (in particolare quella di Seydou Sarr), e si fa attivamente il tifo per loro mentre si muovono in scenari in cui assistiamo a tutta la solidarietà e tutta l'atrocità di cui è capace l'uomo, con immagini che brillano di orrore e lirismo. Il finale è un urlo di liberazione, anche se chi guarda sa bene che quel punto di arrivo è solo l'inizio di un altro viaggio appena meno terribile di quello appena concluso.

Io Capitano è fiaba, epica, racconto di formazione: non si fa leva sulle emozioni negative della denuncia, ma su quelle positive dell'empatia e del desiderio di vedere il sogno altrui realizzato. Nonostante qualche passaggio a vuoto, il film funziona e crea un'alleanza tra pubblico e personaggi, umanizzando persone su cui leggiamo solo sterili cronache, e mostrandone tutta l'umanità.

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Pier