lunedì 1 aprile 2024

American Fiction

Contro l'ipocrisia


Thelonious Ellison - soprannome: "Monk" - è uno scrittore nero apprezzato dalla critica ma di scarso successo commerciale. Irritato dalla tendenza dei colleghi di colore a scrivere libri stereotipicamente "black", scrive sotto pseudonimo un libro di quel genere, una storia di ghetto, gangster e disperazione. Contro ogni aspettativa, questo cumulo di cliché scritto per provocazione incontra l'entusiasmo delle case editrici e addirittura di Hollywood. Monk, in difficoltà finanziarie a causa della malattia della madre, si trova costretto a scegliere tra l'integrità e il cavalcare l'onda degli stereotipi, senza sapere dove potrebbe trascinarlo.

Sarebbe facile etichettare American Fiction, fresco vincitore dell'Oscar per la miglior sceneggiatura non originale, come un film contro gli eccessi del politicamente corretto. In superficie, il bersaglio della satira sembra effettivamente chiaro: una società e, nello specifico, un'élite editoriale che fanno sì che un autore di colore non riesca a vendere perché non "abbastanza nero", e che un romanzo dozzinale, scritto per pura provocazione, diventi un successo clamoroso perché "molto nero", e quindi da osannare.

In realtà American Fiction mette alla berlina altro, ovvero le radici puramente utilitaristiche della recente esplosione di inclusività nel mondo culturale statunitense. Le aziende non hanno abbracciato i valori "progressisti" (e i relativi eccessi) perché improvvisamente pervase dal sacro fuoco dell'uguaglianza: lo hanno fatto perché, banalmente, pensano che aumenti le vendite - direttamente, attirando una fetta di pubblico che fino a quel momento era rimasta esclusa dai prodotti da loro offerti; e indirettamente, segnalando la propria virtù al pubblico, e quindi acquisendo status e ulteriori vendite. Lo fanno anche per sentirsi "buoni", assolti, come dice l'agente di Monk in uno dei dialoghi centrali del film. 

American Fiction è, in sintesi, una satira dell'ipocrisia, del nascondersi dietro a delle facciate per nascondere la verità. Anche Monk ne cade preda, scegliendo di ergersi sull'altare dell'autorialità senza considerare che "sfruttare il sistema", come fa Sintara Golden, l'autrice che tanto disprezza, è una scelta attiva che le permette di vivere la vita che vorrebbe, anziché continuare a traccheggiare, atteggiandosi a vittima. 

Il tema centrale del film diviene però ancora più evidente una volta che si considera anche la vicenda personale di Monk e della sua famiglia, e non solo quella professionale. Monk non riesce a relazionarsi con il prossimo perché ha paura di essere se stesso. La sua maschera di cinismo e indifferenza lo protegge dal dolore, ma gli impedisce anche di avere dei rapporti autentici - sia famigliari che sentimentali. Anche suo fratello (un come sempre eccezionale Sterling K. Brown) e, in misura minore, sua sorella sono stati per anni intrappolati in maschere, ruoli che la società aveva scelto per loro, e stanno imparando cosa voglia dire vivere in modo più libero e autentico.

American Fiction è una splendida satira della coda di paglia che ancora attanaglia l'élite WASP negli Stati Uniti quando si parla di questioni razziali, ma anche una storia di relazioni, di non detti dolorosi, di maschere indossate nella convinzione di salvaguardare la coesione famigliare, ma che in realtà hanno creato abissi di silenzi - silenzi che allontanano, anziché avvicinare. 

È un film piccolo ma incredibilmente forte, a tratti esilarante, ma in grado di colpire al cuore anche grazie all'ottima prova del cast, capitanato da un Jeffrey Wright indecifrabile, capace di cambiare registro di continuo, alternando ironia, dolcezza, furia, sofferenza in una rapsodia emotiva degna di quelle che il grande jazzista da cui prende il suo personaggio prende il nome improvvisava al pianoforte. 

**** 1/2

Pier

Nessun commento:

Posta un commento