martedì 25 giugno 2019

Toy Story 4

Filosofia e giocattoli



Woody, Buzz e gli altri vivono con Bonnie, la bambina cui Andy li ha ceduti alla fine del terzo capitolo, prima di partire per il college. Anche se la bambina non ama Woody quanto Andy, Woody è sempre molto compreso nella sua missione di farla felice. Quando Bonnie affronta il primo giorno di asilo si infila nel suo zaino per starle vicino, e assiste così alla creazione di Forky, una forchetta-cucchiaio trasformata in giocattolo che però rifiuta la sua nuova identità. Nel tentativo di fargli capire l'importanza di poter rendere felice una bambina, Woody si ritrova a inseguire Forky fino a un negozio di antiquariato, dove ritroverà una sua vecchia conoscenza che lo porterà a farsi domande sul suo ruolo nel mondo.

Cosa significa essere un giocattolo?
Questa la domanda quasi filosofica intorno a cui ruota tutta la saga di Toy Story. Nel primo film Woody imparava che l’obiettivo di un giocattolo è fare felice il proprio bambino, il suo Andy, anche a costo di mettere da parte l’orgoglio e la sua posizione di “giocattolo preferito”. Nel secondo, questo tema veniva sviluppato ulteriormente, sottolineando l'importanza di essere utilizzati per giocare al fine di essere realmente vivi, un’idea introdotta dalla struggente canzone di Jessie e reiterata dalla scelta di Woody di lasciare la vita confortevole e “da star” del negozio di collezionismo per tornare da Andy, pur consapevole che un giorno avrebbe smesso di giocare con lui; giorno che, infine, arriva nel terzo capitolo, quando Woody e gli altri si rassegnano a “lasciare andare” un Andy ormai cresciuto e trovano una nuova ragione di vita in Bonnie, una bambina esuberante cui Andy regala i suoi amici di un tempo.

Nel quarto capitolo, la Pixar ribalta completamente la prospettiva. Con uno di quei grandi lampi creativi cui ci ha abituato nel corso degli anni, ci mette di fronte alla possibilità che nella vita di un giocattolo ci sia di più che fare felice uno specifico bambino. Allo stesso tempo, tuttavia, ci viene presentata anche la prospettiva diametralmente opposta, ovvero l’idea che un giocattolo non sia ontologicamente tale, ma divenga tale solo quando un bambino impone tale funzione su un oggetto. Queste prospettive contrapposte mettono in crisi Woody e, con lui, lo spettatore, trasportandoli in un viaggio esistenziale che li porterà a interrogarsi sulla natura della propria esistenza, guardando al passato con occhio diverso per costruire il proprio futuro.
Il regista Josh Cooley gestisce con grande abilità questa tensione degna di un trattato filosofico, inserendola all’interno di una storia efficace, ben ritmata e, a parere di chi scrive, la più divertente della saga. I vari archi narrativi e dei personaggi si intersecano alla perfezione, ciascuno elaborando un aspetto diverso del dilemma che si pone di fronte al cowboy giocattolo.


Le due prospettive sopracitate sono incarnate principalmente da due personaggi: il primo è una vecchia conoscenza, quella Bo Peep, scomparsa durante il terzo film (scopriremo come a inizio film) e rincontrata da Woody e dalla banda durante una road trip al seguito di Bonnie. L’incontro con Bo Peep è decisivo perché ribalta uno dei cliché dei film precedenti, in cui i giocattoli abbandonati e senza padrone venivano dipinti come depressi (Jessie) o talmente disperati da diventare malvagi (Lotso). Bo è invece sicura di sé, indipendente, e trasporta Woody in un viaggio all’interno di un negozio di antiquariato e di un’area gioco in cui altri giocattoli vivono serenamente la propria indipendenza, mettendo in crisi tutte le certezze e i capisaldi della vita di Woody.
Il secondo personaggio chiave è invece la new entry Forky: insicuro di sé e della sua natura, Forky sogna solo di tornare nel cestino, sorta di coperta di Linus in grado di dargli conforto e cui cerca disperatamente di tornare. Woody cerca in ogni modo di convincere la nevrotica posata-giocattolo di quanto lui sia ora importante per Bonnie, e di come la sua missione sia di farla felice: così facendo, comincia a interrogarsi sulla sua funzione e sulla sua inesorabile obsolescenza, pur non ammettendolo nemmeno a se stesso.

Toy Story 4 è il film che consacra definitivamente Woody come il vero protagonista della saga, facendoci vedere ancora una volta il mondo attraverso i suoi occhi e trasportandoci nel suo viaggio alla ricerca di se stesso. Se Toy Story 3 parlava dell’importanza di accettare il cambiamento, il quarto capitolo si interroga su cosa sia il vero cambiamento, e su quanto il passato condizioni la nostra capacità di vedere il futuro e di immaginare un nuovo inizio. Le gag esilaranti e gli irresistibili nuovi personaggi (Duke Caboom e il meraviglioso duo formato da Ducky e Bunny su tutti) accompagnano un’irresistibile malinconia di fondo, che scorre come un fiume carsico lungo tutto il film per poi sbucare in superficie in un finale di rara bellezza e potenza emotiva, che non mancherà di commuovere anche gli spettatori più aridi, e che soprattutto porta a compimento il percorso di Woody, Buzz, e di tutta la banda in maniera del tutto inaspettata, dimostrando ancora una volta la maestria narrativa della Pixar (qui incarnata dagli sceneggiatori Stephany Folsom e Andrew Stanton).

Toy Story 4 chiude il cerchio ancora meglio di quanto avesse già fatto Toy Story 3, spingendoci a interrogarci non sono sul nostro scopo nella vita e sull’importanza di perseguirlo, ma anche su cosa significhi davvero un finale: a volte non basta voltare pagina, ma bisogna avere il coraggio di una rivoluzione che scuote alla radice i nostri convincimenti, al fine di evitare di ricadere nel “cambiare tutto per non cambiare niente” di gattopardiana memoria.
Toy Story 4 è un viaggio della memoria che celebra la magica storia della Pixar e dei suoi protagonisti più amati, ma al tempo stesso la proietta nel futuro, promettendo di portare il ricordo dell’amicizia di Woody, Buzz, e tutta la banda nell’unico luogo possibile: verso l’infinito, e oltre.

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Pier

giovedì 6 giugno 2019

John Wick 3 - Parabellum

Si vis actionem, para Keanu



La saga di John Wick piomba nel mondo cinematografico nel 2014. L'arrivo è quasi silenzioso, in sordina, e nessuno può sospettare che un film diretto da un ex stuntman e con un protagonista l'amabile ma non esattamente di primo pelo come Keanu Reeves sarebbe diventato il primo capitolo di una delle saghe action migliori degli ultimi anni, nonché uno dei pochi franchise originali prodotti da quella fabbrica di remake e affini che è diventata Hollywood. Il motivo del successo è semplice: una storia semplice (semplicissima), ma girata con un sincero amore per il genere, coreografie e riprese spettacolari e degni dei grandi film di genere asiatici, e dei personaggi ben costruiti e ben interpretati. A questo si aggiunga la creazione di un'intrigante società parallela degli assassini, solo accennata nel primo capitolo ma sviluppata appieno nel secondo e ulteriormente approfondita nel film appena uscito.

Anche questo capitolo, come il secondo, riparte subito dopo la fine del precedente; e anche questo capitolo, come il secondo, alza l'asticella dell'azione a un livello che sembrava semplicemente impossibile. Abbandonando fin da subito ogni pretesa di veridicità, il film si concentra sulla spettacolarità delle scene, e fa centro a ogni singolo minuto: John viene scaraventato in mezzo a un combattimento con un gigante in biblioteca, un inseguimento a cavallo per le strade di Manhattan, una scuola di danza classica che non è quello che sembra, un'odissea solitaria nel deserto, una sparatoria spettacolare a Marrakesh, e chi più ne ha, più ne metta.

Ogni combattimento è ripreso con grande dovizia di particolari, facendo largo uso di piani sequenza e inquadrature larghe al fine di immergere gli spettatori nell'azione e permettere loro di vedere ogni dettaglio, di sentire ogni pugno, ogni calcio, ogni sparo. La precisione di coreografie e riprese è lontana anni luce dai montaggi forsennati di certi film americani, che fanno intuire l'azione e le botte senza mai farle vedere veramente.

Al centro di tutto questo c'è lui, Keanu Reeves, la perfetta incarnazione di quell'assassino travolto dalla vita che è John Wick, il volto scorato e la voce ridotta a un ringhio. Keanu si presta anima e corpo (è proprio il caso di dirlo) al personaggio, creando un'empatia ineludibile con lo spettatore nonostante l'assurdità delle vicende narrate, come ogni buon film d'azione dovrebbe fare. Keanu si diverte nella parte e si vede, sia nei combattimenti corpo a corpo affrontati senza stunt, sia nelle gustose citazioni di Matrix, la saga che lo ha reso famoso.

Attorno a lui gravitano personaggi dal carisma fumettistico, ma allo stesso tempo dotati di una backstory che conferisce alle loro azioni una gravitas e una motivazione che li rendono più reali, e di portare in vita in modo credibile quel sottobosco criminale che è uno dei punti di forza della saga.

John Wick - Parabellum è un piccolo capolavoro nel genere, e il degno terzo capitolo di una saga che finora, come il suo protagonista, non ha sbagliato un colpo; una saga che ha imparato la lezione di Mad Max: Fury Road, capendo che il segreto di un buon film d'azione sono personaggi ben costruiti, un mondo credibile e dotato di profondità e le immagini - immagini realistiche, fatte di sudore, sangue, e lividi, e non di tonnellate di computer grafica. John Wick funziona perché vediamo il personaggio soffrire, combattere, e sopravvivere quasi per miracolo, senza mollare mai, immerso in un mondo affascinante e ostile che è solo la versione romanzata ed estrema di quello in cui ci troviamo a vivere.

**** 1/2

Pier