Woody, Buzz e gli altri vivono con Bonnie, la bambina cui Andy li ha ceduti alla fine del terzo capitolo, prima di partire per il college. Anche se la bambina non ama Woody quanto Andy, Woody è sempre molto compreso nella sua missione di farla felice. Quando Bonnie affronta il primo giorno di asilo si infila nel suo zaino per starle vicino, e assiste così alla creazione di Forky, una forchetta-cucchiaio trasformata in giocattolo che però rifiuta la sua nuova identità. Nel tentativo di fargli capire l'importanza di poter rendere felice una bambina, Woody si ritrova a inseguire Forky fino a un negozio di antiquariato, dove ritroverà una sua vecchia conoscenza che lo porterà a farsi domande sul suo ruolo nel mondo.
Cosa significa essere un giocattolo?
Questa la domanda quasi filosofica intorno a cui ruota tutta la saga di Toy Story. Nel primo film Woody imparava che l’obiettivo di un giocattolo è fare felice il proprio bambino, il suo Andy, anche a costo di mettere da parte l’orgoglio e la sua posizione di “giocattolo preferito”. Nel secondo, questo tema veniva sviluppato ulteriormente, sottolineando l'importanza di essere utilizzati per giocare al fine di essere realmente vivi, un’idea introdotta dalla struggente canzone di Jessie e reiterata dalla scelta di Woody di lasciare la vita confortevole e “da star” del negozio di collezionismo per tornare da Andy, pur consapevole che un giorno avrebbe smesso di giocare con lui; giorno che, infine, arriva nel terzo capitolo, quando Woody e gli altri si rassegnano a “lasciare andare” un Andy ormai cresciuto e trovano una nuova ragione di vita in Bonnie, una bambina esuberante cui Andy regala i suoi amici di un tempo.
Nel quarto capitolo, la Pixar ribalta completamente la prospettiva. Con uno di quei grandi lampi creativi cui ci ha abituato nel corso degli anni, ci mette di fronte alla possibilità che nella vita di un giocattolo ci sia di più che fare felice uno specifico bambino. Allo stesso tempo, tuttavia, ci viene presentata anche la prospettiva diametralmente opposta, ovvero l’idea che un giocattolo non sia ontologicamente tale, ma divenga tale solo quando un bambino impone tale funzione su un oggetto. Queste prospettive contrapposte mettono in crisi Woody e, con lui, lo spettatore, trasportandoli in un viaggio esistenziale che li porterà a interrogarsi sulla natura della propria esistenza, guardando al passato con occhio diverso per costruire il proprio futuro.
Il regista Josh Cooley gestisce con grande abilità questa tensione degna di un trattato filosofico, inserendola all’interno di una storia efficace, ben ritmata e, a parere di chi scrive, la più divertente della saga. I vari archi narrativi e dei personaggi si intersecano alla perfezione, ciascuno elaborando un aspetto diverso del dilemma che si pone di fronte al cowboy giocattolo.
Le due prospettive sopracitate sono incarnate principalmente da due personaggi: il primo è una vecchia conoscenza, quella Bo Peep, scomparsa durante il terzo film (scopriremo come a inizio film) e rincontrata da Woody e dalla banda durante una road trip al seguito di Bonnie. L’incontro con Bo Peep è decisivo perché ribalta uno dei cliché dei film precedenti, in cui i giocattoli abbandonati e senza padrone venivano dipinti come depressi (Jessie) o talmente disperati da diventare malvagi (Lotso). Bo è invece sicura di sé, indipendente, e trasporta Woody in un viaggio all’interno di un negozio di antiquariato e di un’area gioco in cui altri giocattoli vivono serenamente la propria indipendenza, mettendo in crisi tutte le certezze e i capisaldi della vita di Woody.
Il secondo personaggio chiave è invece la new entry Forky: insicuro di sé e della sua natura, Forky sogna solo di tornare nel cestino, sorta di coperta di Linus in grado di dargli conforto e cui cerca disperatamente di tornare. Woody cerca in ogni modo di convincere la nevrotica posata-giocattolo di quanto lui sia ora importante per Bonnie, e di come la sua missione sia di farla felice: così facendo, comincia a interrogarsi sulla sua funzione e sulla sua inesorabile obsolescenza, pur non ammettendolo nemmeno a se stesso.
Toy Story 4 è il film che consacra definitivamente Woody come il vero protagonista della saga, facendoci vedere ancora una volta il mondo attraverso i suoi occhi e trasportandoci nel suo viaggio alla ricerca di se stesso. Se Toy Story 3 parlava dell’importanza di accettare il cambiamento, il quarto capitolo si interroga su cosa sia il vero cambiamento, e su quanto il passato condizioni la nostra capacità di vedere il futuro e di immaginare un nuovo inizio. Le gag esilaranti e gli irresistibili nuovi personaggi (Duke Caboom e il meraviglioso duo formato da Ducky e Bunny su tutti) accompagnano un’irresistibile malinconia di fondo, che scorre come un fiume carsico lungo tutto il film per poi sbucare in superficie in un finale di rara bellezza e potenza emotiva, che non mancherà di commuovere anche gli spettatori più aridi, e che soprattutto porta a compimento il percorso di Woody, Buzz, e di tutta la banda in maniera del tutto inaspettata, dimostrando ancora una volta la maestria narrativa della Pixar (qui incarnata dagli sceneggiatori Stephany Folsom e Andrew Stanton).
Toy Story 4 chiude il cerchio ancora meglio di quanto avesse già fatto Toy Story 3, spingendoci a interrogarci non sono sul nostro scopo nella vita e sull’importanza di perseguirlo, ma anche su cosa significhi davvero un finale: a volte non basta voltare pagina, ma bisogna avere il coraggio di una rivoluzione che scuote alla radice i nostri convincimenti, al fine di evitare di ricadere nel “cambiare tutto per non cambiare niente” di gattopardiana memoria.
Toy Story 4 è un viaggio della memoria che celebra la magica storia della Pixar e dei suoi protagonisti più amati, ma al tempo stesso la proietta nel futuro, promettendo di portare il ricordo dell’amicizia di Woody, Buzz, e tutta la banda nell’unico luogo possibile: verso l’infinito, e oltre.
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Pier
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