domenica 20 giugno 2021

Luca

E il naufragar m'è dolce in questo mare


Luca Paguro è una giovane creatura marina. Vive nelle profondità del mare a pochi passi dalla cittadina Ligure di Portorosso e trascorre le sue giornate pascolando pesci-pecore. La sua specie ha il potere di trasformarsi in umani fuori dall'acqua, ma i suoi genitori non vogliono che si avvicini alla superficie. Quando incontra Alberto Scorfano, un suo coetaneo che va e viene dalla superficie senza problemi, Luca si convince a fare il passo che non aveva mai osato fare e va a vivere in superficie. Insieme ad Alberto conoscerà Giulia, figlia di un pescatore di Portorosso, e insieme a lei si iscriveranno a una gara per vincere il denaro necessario a coronare il loro sogno: comprare una Vespa per girare il mondo.

Sono pochi i film in grado di trasportarti fisicamente nel luogo e nel tempo in cui sono ambientati, al punto che ti sembra di vedere i colori, sentire gli odori, i sapori. Luca è uno di quelli, una madeleine continua che riporta in superficie il bambino-quasi-adolescente che ancora alberga, sopito, in ognuno di noi e gli fa sussurrare: questi sono i miei ricordi. Lo spettatore viene travolto da un'esperienza sinestetica, in cui vede, sente il mare che sciaborda, annusa e assapora le trenette, ascolta le musiche che risuonano in piazza in mezzo alle urla dei bambini che giocano a calcio. Non importa che le musiche non siano le sue, che i poster dei film (La strada, Vacanze romane) non siano quelli della sua epoca, o che i suoi ricordi d'infanzia non siano legati alle Cinque Terre: la sua memoria li rimpiazzerà, rendendoli i suoi ricordi. 

Come altri grandi film del genere, come Stand by me e I Goonies, Luca racconta quelle estati infinite che sono proprie dell'adolescenza, in cui tutto sembra destinato a durare in eterno e ogni impresa da scavezzacollo diventa una questione di vita o di morte. Luca profuma di prime amicizie, della nuova ed eccitante sensazione di poter essere finalmente indipendenti, di avere una vita che va al di là di quella dei propri genitori; ma anche le primi liti, i primi tradimenti, le prime vere incertezze emotive. Il tema della diversità, della paura di essere esclusi e del desiderio quasi feroce di integrazione viene declinato in modo delicato ma proprio per questo efficace. Il film evita inutili tirate retoriche, affidandosi semplicemente alla forza della storia e dei personaggi, facendoci soffrire con loro di fronte alle scelte che si trovano costretti a fare, con echi di un capolavoro come Sciuscià in alcune scene.


Sullo sfondo, una Liguria luminosa, calda, un'esplosione di colore e luce che riflette un luogo della memoria (come nei racconti di Big Fish o, per restare in casa Pixar, nel meraviglioso flashback di Ratatouille, o la struggente canzone di Jessie in Toy Story 2) più che un luogo reale - un luogo filtrato dal ricordo, e reso per questo meraviglioso e indimenticabile. Al tempo stesso, il regista Enrico Casarosa racconta la sua terra con l'amore di un figlio che ne ha nostalgia, arricchendola di dettagli tanto precisi quanto meravigliosi, disseminati qua e là per il film come tanti piccoli tesori da scoprire in più visioni. L'amore per la Liguria e l'Italia traspare in ogni inquadratura e in ogni battuta, con espliciti omaggi a Calvino (dalla piazza al cognome di Giulia), Fellini, e tanti altri.

Se la struttura narrativa è relativamente semplice e punta a toccare le corde emotive più che quelle "cerebrali", quella visiva è una delle più innovative viste negli ultimi anni in casa Pixar. Casarosa sperimenta in modo coraggioso, ibridando le forme delicate e rotondeggianti della Pixar con i linguaggi di altre tradizioni di animazione: il design dei personaggi che ricorda quello delle animazioni in stop-motion della Aardman; quello dei paesaggi e degli elementi naturalistici cita e rielabora lo stile "acquarellato" dello studio Ghibli di Hayao Miyazaki (la cui influenza si sente anche nella storia e nel suo messaggio); quello degli animali ricorda lo stile di Enzo d'Alò ne La gabbianella e il gatto; e quello delle scene oniriche porta avanti il discorso iniziato dallo stesso Casarosa nel suo splendido corto, La Luna.  Il risultato è un film visivamente unico (che, nota a margine, avrebbe meritato la magia della sala e invece è stato inopinatamente confinato allo schermo di casa), diverso dai precedenti film Pixar così come diverso è il taglio dato alla storia, che punta tutto sulle emozioni senza però rinunciare al "doppio binario" per ragazzi e adulti: se i ragazzi si divertiranno di fronte a una comicità più slapstick e fisica del solito, la nostalgia è senza dubbio un'emozione da e per adulti.


Luca è un film ingannevole: apparentemente semplice e lineare, cresce lentamente dentro lo spettatore, facendosi strada nel suo cuore e nella sua memoria fino a scatenare un'esplosione di emozioni incontrollabile, che colpisce dritto al cuore nel terzo atto e non lo abbandona mai fino ai titoli di coda. Come l'interminabile scalata in bici del finale, Luca sale, supera ostacoli, matura insieme ai suoi spettatori, rivelandosi infine al mondo come i suoi protagonisti: un film pieno di cuore, coraggio, emozioni, che evoca quell'intensa malinconia che si prova solo alla fine di un'estate (poco importa se di oggi o di tanto tempo fa) e invita lo spettatore a lasciarsi andare e naufragare dolcemente nel mare dei ricordi.

**** 1/2

Pier


PS: suggerisco la visione in originale. I personaggi fanno ampio uso dell'italiano e la commistione delle due lingue, ovviamente, viene persa con il doppiaggio.


sabato 19 giugno 2021

Il divin codino

La (troppa) normalità del divino


Il film racconta la vita di Roberto Baggio, dagli inizi nelle giovanili del Vicenza fino a fine carriera, focalizzandosi sul suo rapporto con la Nazionale, e in particolare sul Mondiale del 1994.

Poche carriere sportive si prestano al racconto filmico come quella di Roberto Baggio: un talento purissimo frenato da continui infortuni e capace di rialzarsi da ciascuno di essi in tempi record, grazie a una volontà di ferro; amato dal pubblico di tutta Italia nonostante i suoi numerosi cambi di casacca, e altrettanto osteggiato da quasi tutti gli allenatori, messi in difficoltà dalla sua difficile collocazione tattica e (forse, probabilmente) anche dalla sua popolarità. Il materiale, insomma, era sopraffino e poteva essere affrontato con mille angolazioni, focalizzandosi sul rapporto tra talento e ragione, sulla benedizione/maledizione dell'affetto nazionalpopolare, e chi più ne ha, più ne metta.

Il divin codino sceglie la strada del rapporto di Baggio con il padre e con la Nazionale, intesa sia come traguardo personale che come incarnazione di un'intera nazione che gli ha dato quell'amore che non trovava nelle figure autoritarie della sua vita (padre e allenatori). La scelta potrebbe funzionare, se non fosse che il film non imbocca mai veramente questa strada, focalizzandosi su momenti non pertinenti e saltando momenti cruciali: mancano il Mondiale del 1990, il primo in cui fu convocato, e poi quello del 1998, in cui fu inaspettato protagonista, e l'esclusione inaspettata dall'Europeo del 2000. 

Queste scelte appaiono bizzarre e poco coerenti, soprattutto se poi si decide di raccontare in dettaglio alcuni momenti della sua carriera nei club, come il passaggio alla Fiorentina e quello al Brescia: nulla di male, se non fosse che poi si ignorano del tutto i suoi anni alla Juventus, al Milan, all'Inter, al Bologna, e persino la vittoria del Pallone d'Oro, nominata solo di striscio. 
Anche la fede buddista di Baggio, centrale per la sua carriera e la sua maturazione, sembra quasi un'intrusa, comparendo in alcuni momenti del film senza aggiungere nulla di più al messaggio e al significato.
La sensazione che resta è quella di una visione poco coerente, che ha cercato di raccontare troppo in troppo poco tempo, offrendo quindi un ritratto superficiale e poco riuscito che non può essere salvato dai pochi momenti azzeccati, come quello di mostrare le vere immagini dell'addio di Baggio al calcio, o i siparietti con Carletto Mazzone.

La regia è scialba quanto la sceneggiatura, ma più focalizzata e coerente nelle scelte di musica,  fotografia e montaggio: Letizia Lamartire sceglie di raccontare il Baggio intimo, personale, concentrandosi sui personaggi più che sulle partite, e porta avanti questa scelta con frequenti primi piani, numerosi dialoghi, e pochissimo campo che, anche quando viene rappresentato, rimane sempre distante, un palcoscenico freddo e quasi irreale.

Si salvano, nella mediocrità generale, gli interpreti: Andrea Arcangeli è perfetto nel ruolo del protagonista, di cui riesce a catturare la dolente malinconia che sembrava accompagnarlo, antitesi e  contrappunto alla gioia che riusciva a trasmettere con il suo gioco. Accanto a lui si distinguono un ottimo Andrea Pennacchi nel ruolo del padre, e un sorprendente Martufello nel ruolo di Mazzone: la sua presenza è un vero e proprio raggio di sole in uno dei momenti più nebulosi e noiosi del film, e la sua prova avrebbe meritato indubbiamente più spazio.

Il divin codino è, in sintesi, un'opera superficiale, con alcuni momenti indovinati ma un generale senso di scarsa fantasia e coraggio: un peccato mortale per un film che dovrebbe raccontare un personaggio segnato dalla sua eccezionalità, della sua diversità, con una vita da romanzo che finisce invece per somigliare a quella di un prete di campagna di uno sceneggiato Rai, con tanto di volemose bene finale. Peccato: il Divin Codino si sarebbe meritato di meglio.

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Pier