La (troppa) normalità del divino
Il film racconta la vita di Roberto Baggio, dagli inizi nelle giovanili del Vicenza fino a fine carriera, focalizzandosi sul suo rapporto con la Nazionale, e in particolare sul Mondiale del 1994.
Poche carriere sportive si prestano al racconto filmico come quella di Roberto Baggio: un talento purissimo frenato da continui infortuni e capace di rialzarsi da ciascuno di essi in tempi record, grazie a una volontà di ferro; amato dal pubblico di tutta Italia nonostante i suoi numerosi cambi di casacca, e altrettanto osteggiato da quasi tutti gli allenatori, messi in difficoltà dalla sua difficile collocazione tattica e (forse, probabilmente) anche dalla sua popolarità. Il materiale, insomma, era sopraffino e poteva essere affrontato con mille angolazioni, focalizzandosi sul rapporto tra talento e ragione, sulla benedizione/maledizione dell'affetto nazionalpopolare, e chi più ne ha, più ne metta.
Il divin codino sceglie la strada del rapporto di Baggio con il padre e con la Nazionale, intesa sia come traguardo personale che come incarnazione di un'intera nazione che gli ha dato quell'amore che non trovava nelle figure autoritarie della sua vita (padre e allenatori). La scelta potrebbe funzionare, se non fosse che il film non imbocca mai veramente questa strada, focalizzandosi su momenti non pertinenti e saltando momenti cruciali: mancano il Mondiale del 1990, il primo in cui fu convocato, e poi quello del 1998, in cui fu inaspettato protagonista, e l'esclusione inaspettata dall'Europeo del 2000.
Queste scelte appaiono bizzarre e poco coerenti, soprattutto se poi si decide di raccontare in dettaglio alcuni momenti della sua carriera nei club, come il passaggio alla Fiorentina e quello al Brescia: nulla di male, se non fosse che poi si ignorano del tutto i suoi anni alla Juventus, al Milan, all'Inter, al Bologna, e persino la vittoria del Pallone d'Oro, nominata solo di striscio.
Anche la fede buddista di Baggio, centrale per la sua carriera e la sua maturazione, sembra quasi un'intrusa, comparendo in alcuni momenti del film senza aggiungere nulla di più al messaggio e al significato.
La sensazione che resta è quella di una visione poco coerente, che ha cercato di raccontare troppo in troppo poco tempo, offrendo quindi un ritratto superficiale e poco riuscito che non può essere salvato dai pochi momenti azzeccati, come quello di mostrare le vere immagini dell'addio di Baggio al calcio, o i siparietti con Carletto Mazzone.
La regia è scialba quanto la sceneggiatura, ma più focalizzata e coerente nelle scelte di musica, fotografia e montaggio: Letizia Lamartire sceglie di raccontare il Baggio intimo, personale, concentrandosi sui personaggi più che sulle partite, e porta avanti questa scelta con frequenti primi piani, numerosi dialoghi, e pochissimo campo che, anche quando viene rappresentato, rimane sempre distante, un palcoscenico freddo e quasi irreale.
Si salvano, nella mediocrità generale, gli interpreti: Andrea Arcangeli è perfetto nel ruolo del protagonista, di cui riesce a catturare la dolente malinconia che sembrava accompagnarlo, antitesi e contrappunto alla gioia che riusciva a trasmettere con il suo gioco. Accanto a lui si distinguono un ottimo Andrea Pennacchi nel ruolo del padre, e un sorprendente Martufello nel ruolo di Mazzone: la sua presenza è un vero e proprio raggio di sole in uno dei momenti più nebulosi e noiosi del film, e la sua prova avrebbe meritato indubbiamente più spazio.
Il divin codino è, in sintesi, un'opera superficiale, con alcuni momenti indovinati ma un generale senso di scarsa fantasia e coraggio: un peccato mortale per un film che dovrebbe raccontare un personaggio segnato dalla sua eccezionalità, della sua diversità, con una vita da romanzo che finisce invece per somigliare a quella di un prete di campagna di uno sceneggiato Rai, con tanto di volemose bene finale. Peccato: il Divin Codino si sarebbe meritato di meglio.
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Pier
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