sabato 13 aprile 2024

C'è vita lontano da Roma

Buone notizie dal cinema italiano

Italia, anno 2024: in sala ci sono tre film italiani che stanno incassando bene e stanno anche avendo un ottimo riscontro anche dalla critica.


No, non è la trama di un film distopico, ma la realtà: in rigoroso ordine di uscita, Un mondo a parte, di Riccardo Milani (voto 7), Zamora (voto 9), esordio alla regia di Neri Marcoré, e Gloria! (voto 8) esordio alla regia dell'attrice e cantante Margherita Vicario, stanno riscuotendo successo sia tra il pubblico che tra gli addetti ai lavori. Al frequentatore delle sale e conoscitore del cinema italiano degli ultimi decenni salta subito all'occhio un dettaglio, un'anomalia quantistica: nessuno di questi tre film è ambientato a Roma.

Si è spesso discusso del romanocentrismo del cinema italiano, discorso scivoloso che spesso sfocia nel campanilismo se non in una vera e propria discriminazione territoriale. Proprio per questo, il discorso è stato spesso sterile, e si è concentrato su un sintomo anziché sul problema. Il sintomo era la presenza di tantissime maestranze romane, dai registi e gli autori ad attori e attrici, con conseguente prevalenza di una parlata locale e localizzata. Da qui, inutili strali contro gli eccessi di daje, famo, annamo, da una parte, e la difesa della storica centralità di Roma per il cinema italiano dall'altra. 

La serie di sketch "A piedi scarzi", di Emanuela Fanelli, parodizza il romanocentrismo del cinema italiano

Il problema, tuttavia, non erano le maestranze: se ambienti un film a Roma è normale, anzi, sacrosanto che le voci, i volti, e i temi riflettano l'ambientazione stessa. Il problema erano le idee di partenza, una certa ripetitività tematica che tutti riconoscevano, ma che nessuno, nemmeno i critici del romanocentrismo, attribuiva alla poca varianza nelle location. I luoghi, tuttavia, non sono meri sfondi, ambientazioni: sono anche l'ispirazione delle storie, o addirittura co-protagonisti delle stesse. Impossibile pensare a I soliti ignoti al di fuori del contesto romano, o a Chiedimi se sono felice senza lo sfondo milanese, o a È stata la mano di Dio senza Napoli. Il problema era, dunque, che a una ripetitività di location corrispondeva una ripetitività di temi, che però portava a sua volta a perpetuare la ripetitività di location (perché tutti siamo ispirati da ciò che ci vediamo e ci circonda), in un circolo vizioso che a volte produceva comunque grandi successi (C'è ancora domani su tutti) ma nella maggior parte dei casi portava all'ennesima versione della solita minestra.

"Fuggendo" da Roma, affrancandosi da una forma mentis dominante che portava a un omogenizzazione del dove, e dunque del "cosa", Milani, Marcoré, e Vicario sono riusciti a trovare voci e storie nuove, fresche, originali, e al tempo stesso sbugiardare il falso problema dell'origine geografica degli autori: Milani e Vicario sono, infatti, romani, e Marcoré (marchigiano) vive a Roma ormai da otto anni.


Un mondo a parte
inizia proprio come una fuga dalla capitale del protagonista, l'insegnante delle elementari interpretato da Antonio Albanese: una fuga alla ricerca di se stessi, di una vita più vera, di uno sguardo nuovo, che sembra un riflesso di quella operata da Riccardo Milani, che dopo un'intera carriera spesa all'ombra del Cupolone, in Abruzzo ha trovato una storia nuova eppure antica, che parla al passato ma anche al futuro: la storia di un paese a rischio di morte, ma che trova sempre la forza di sopravvivere, tra crisi emotive ed espedienti esilaranti. Un mondo a parte parla del nostro complesso rapporto con la natura e con i luoghi da cui veniamo - un tema ineludibile, fatto di felicità e sofferenza, di gente che parte e gente che resta, e che non troverà mai una facile soluzione. Il film ha un andamento sincopato, con alcuni episodi che sembrano fuori posto e distonici, ma nel complesso funziona e cattura grazie alla sua capacità di parlare all'attualità e alla simpatia dei protagonisti, sia giovani (tutti non attori dei luoghi dove è girato il film, intorno a Pescasseroli) che esperti, con Virginia Raffaele che strappa la maggior parte delle risate. 


Marcoré e Vicario fuggono più lontano, sia nello spazio che nel tempo. Il primo ci porta a Milano (e Vigevano) negli anni Sessanta, con una storia delicata e poetica che si muove tra il primo Pupi Avati ed Ermanno Olmi (gli echi de Il posto sono evidenti) e che racconta l'emancipazione emotiva e sentimentale di un ragazzo che diventa uomo e si apre al mondo, imparando - letteralmente e metaforicamente - a tuffarsi. La storia è divertente e commovente, molto ben scritta, e non scontata, nemmeno nel finale. Offre uno splendido sguardo sulla Milano (e sull'Italia) dell'epoca, tra capitani d'industria con la passione per il calcio e fantozziane partite scapoli-ammogliati, la paura di spostarsi nella grande città, un mostro lontano e quasi mitologico, e il sottobosco umano cantato da Gaber (cui coincidenza vuole che Riccardo Milani abbia dedicato un ottimo documentario) e Jannacci. 
Marcoré azzecca in pieno anche il casting, con un giusto mix tra facce fresche e volti noti della comicità milanese. Tra i primi spiccano il protagonista Alberto Paradossi, perfetto per il ruolo, Anna Ferraioli, splendida nel ruolo di sua sorella, e Marta Gastini, che interpreta uno degli interessi amorosi più interessanti e ben scritti visti al cinema negli ultimi anni. I secondi sfoggiano qualche "gloria di Internet" (due membri de Il terzo segreto di Satira, ambedue perfettamente in parte) e vecchi leoni capitanati da Marcoré stesso e da Ale, Franz, Giovanni (Storti) e Giacomo (Poretti) - quest'ultimo presente solo in un cameo che però vale da solo il prezzo del biglietto.


Vicario invece ci porta a Venezia, a inizio Ottocento, e ci racconta la storia dimenticata degli istituti musicali per giovani orfane, che venivano avviate alla musica e alla composizione, chiusi da Napoleone nel 1807. Anche Vicario racconta una storia di emancipazione e ribellione, un racconto fanta-storico con geniali anacronismi musicali alla Maria Antonietta, che però vengono calati realisticamente nella trama e nella tradizione musicale d'epoca: uno sforzo creativo notevole, che però lascia forse un po' di rammarico pensando a cosa avrebbe potuto essere se Vicario avesse sciolto del tutto le briglie della fantastoria, facendo la sua versione "musicale" del finale di Bastardi senza gloria. Il risultato è comunque splendido, grazie a un fatto storico poco noto ma ricco di spunti, una regia già molto solida e originale (il film era, meritatamente, in concorso all'ultima Berlinale), e soprattutto a personaggi che catturano lo spettatore. Anche Vicario, come Marcoré, sfrutta alla perfezione un mix di volti nuovi - tutte le ragazze, tra cui spiccano Carlotta Gamba, Maria Vittoria Dallasta, e Veronica Lucchesi de La rappresentante di lista, e vecchi leoni della comicità settentrionale, da Elio a Natalino Balasso, passando per un Paolo Rossi perfetto nel ruolo di un prete-compositore viscido e arrogante.

C'è vita, dunque, lontano da Roma: nuovi volti, nuove storie, nuove prospettive. Prospettive che possono aiutare a "rinfrescare il repertorio" anche una volta tornati a girare nella capitale: perché il problema non è il luogo, ma cercare di mantenere lo sguardo aperto verso l'orizzonte del nuovo.

Pier

lunedì 1 aprile 2024

American Fiction

Contro l'ipocrisia


Thelonious Ellison - soprannome: "Monk" - è uno scrittore nero apprezzato dalla critica ma di scarso successo commerciale. Irritato dalla tendenza dei colleghi di colore a scrivere libri stereotipicamente "black", scrive sotto pseudonimo un libro di quel genere, una storia di ghetto, gangster e disperazione. Contro ogni aspettativa, questo cumulo di cliché scritto per provocazione incontra l'entusiasmo delle case editrici e addirittura di Hollywood. Monk, in difficoltà finanziarie a causa della malattia della madre, si trova costretto a scegliere tra l'integrità e il cavalcare l'onda degli stereotipi, senza sapere dove potrebbe trascinarlo.

Sarebbe facile etichettare American Fiction, fresco vincitore dell'Oscar per la miglior sceneggiatura non originale, come un film contro gli eccessi del politicamente corretto. In superficie, il bersaglio della satira sembra effettivamente chiaro: una società e, nello specifico, un'élite editoriale che fanno sì che un autore di colore non riesca a vendere perché non "abbastanza nero", e che un romanzo dozzinale, scritto per pura provocazione, diventi un successo clamoroso perché "molto nero", e quindi da osannare.

In realtà American Fiction mette alla berlina altro, ovvero le radici puramente utilitaristiche della recente esplosione di inclusività nel mondo culturale statunitense. Le aziende non hanno abbracciato i valori "progressisti" (e i relativi eccessi) perché improvvisamente pervase dal sacro fuoco dell'uguaglianza: lo hanno fatto perché, banalmente, pensano che aumenti le vendite - direttamente, attirando una fetta di pubblico che fino a quel momento era rimasta esclusa dai prodotti da loro offerti; e indirettamente, segnalando la propria virtù al pubblico, e quindi acquisendo status e ulteriori vendite. Lo fanno anche per sentirsi "buoni", assolti, come dice l'agente di Monk in uno dei dialoghi centrali del film. 

American Fiction è, in sintesi, una satira dell'ipocrisia, del nascondersi dietro a delle facciate per nascondere la verità. Anche Monk ne cade preda, scegliendo di ergersi sull'altare dell'autorialità senza considerare che "sfruttare il sistema", come fa Sintara Golden, l'autrice che tanto disprezza, è una scelta attiva che le permette di vivere la vita che vorrebbe, anziché continuare a traccheggiare, atteggiandosi a vittima. 

Il tema centrale del film diviene però ancora più evidente una volta che si considera anche la vicenda personale di Monk e della sua famiglia, e non solo quella professionale. Monk non riesce a relazionarsi con il prossimo perché ha paura di essere se stesso. La sua maschera di cinismo e indifferenza lo protegge dal dolore, ma gli impedisce anche di avere dei rapporti autentici - sia famigliari che sentimentali. Anche suo fratello (un come sempre eccezionale Sterling K. Brown) e, in misura minore, sua sorella sono stati per anni intrappolati in maschere, ruoli che la società aveva scelto per loro, e stanno imparando cosa voglia dire vivere in modo più libero e autentico.

American Fiction è una splendida satira della coda di paglia che ancora attanaglia l'élite WASP negli Stati Uniti quando si parla di questioni razziali, ma anche una storia di relazioni, di non detti dolorosi, di maschere indossate nella convinzione di salvaguardare la coesione famigliare, ma che in realtà hanno creato abissi di silenzi - silenzi che allontanano, anziché avvicinare. 

È un film piccolo ma incredibilmente forte, a tratti esilarante, ma in grado di colpire al cuore anche grazie all'ottima prova del cast, capitanato da un Jeffrey Wright indecifrabile, capace di cambiare registro di continuo, alternando ironia, dolcezza, furia, sofferenza in una rapsodia emotiva degna di quelle che il grande jazzista da cui prende il suo personaggio prende il nome improvvisava al pianoforte. 

**** 1/2

Pier