sabato 26 dicembre 2015

Irrational Man

Uccidereste l'uomo grasso?



Abe Lucas è un professore di filosofia all'università. Costretto a lasciare il college dove insegnava, si trasferisce in un'altra cittadina per ricominciare in un'istituzione più piccola e meno prestigiosa. Nonostante sia una celebrità, nel suo campo, Lucas ha ormai perso ogni desiderio di vivere e relazionarsi agli altri. Il suo nichilismo non impedisce però che diventi l'oggetto del desiderio di colleghe e studentesse, che però respinge in modo più o meno deciso. La sua vita, tuttavia, ha un sussulto quando viene posto di fronte a un dilemma etico: sarebbe giusto uccidere un uomo cattivo?

Uno dei più famosi dilemmi della filosofia, riassunto alla perfezione in un libro di David Edmonds e da un celebre monologo della serie Doctor Who, riguarda la correttezza e l'eticità di un'azione immorale (uccidere una persona) a fini morali (salvarne altre). In altre parole, è moralmente accettabile uccidere una persona malvagia? A questa domanda cerca di dare risposta Woody Allen in questa commedia nera di grande profondità e spessore, in cui i tormenti esistenziali del protagonista lo portano a confrontarsi con un dilemma etico che risveglia il suo interesse per la vita e l'amore. Il rapporto tra Eros e Thanatos non è mai stato così diretto ed evidente, e Woody lo sviscera con il cinismo e lo humor che lo hanno reso celebre, regalandoci un film vitale e interessante che perde incisività solo nel finale. Qui Allen cerca di imporre un'ulteriore riflessione sul tema del film, ma finisce per scivolare in una parodia di uno dei suoi finali più celebri, quello di Match Point.

Abe Lucas è un personaggio tipicamente alleniano, con il suo bagaglio di nevrosi, depressione e insicurezze. Si distingue però dai suoi illustri precedenti per la sua capacità di azione, di porre in essere i suoi pensieri e le sue riflessioni, anziché tormentarsi ed elucubrare su di esse. Joaquin Phoenix è a dir poco perfetto nella parte, ed è affiancato da una deliziosa Emma Stone, radiosa e vitale, un'iniezione di energia nella vita di Lucas e nello svolgimento del film.
Allen dirige con l'abilità e la furbizia di chi conosce questo genere e questa materia, e realizza un film non memorabile, ma comunque divertente e interessante, che induce alla riflessione e al dibattito.

Pier

*** 1/2

mercoledì 16 dicembre 2015

Star Wars: Episodio VII - Il Risveglio della Forza

Tanto tempo fa, in una galassia lontana lontana… 



Sono passati molti anni dalla battaglia di Endor. L’Impero è stato sconfitto, ma alcuni lealisti, riunitisi sotto il nome di Primo Ordine, cercano ancora di riportare in auge la dittatura, conquistando alcuni sistemi esterni per poi puntare al cuore della Repubblica. Nonostante la presenza di una Resistenza, il Primo Ordine sembra sempre più vicino al successo.

Dopo anni d’attesa, e tre prequel generalmente considerati deludenti non tanto nel contenuto quanto nello spirito e nella realizzazione, Star Wars è finalmente tornato. Fin dalle prime sequenze (ai titoli in formato “classico”, lo confesso è scappata la lacrimuccia), J.J. Abrams mostra la ferma volontà di tornare ai toni e alle atmosfere della prima trilogia, tra inseguimenti spaziali e nemici misteriosi, giovani che sognano ad occhi aperti e droidi spaziali, nuovi volti e vecchie conoscenze. Il regista approccia Star Wars come una leggenda dei tempi antichi, costruendo una nuova epopea a partire da dove si era conclusa quella vecchia, creando un legame indissolubile che non diviene però legaccio né costrizione creativa. Il materiale originale viene rielaborato in modo rispettoso ma originale, creando collegamenti con la vecchia saga ma aprendo la strada a una nuova storia in grado di reggersi sulle proprie gambe.

I vecchi personaggi vengono usati in modo intelligente e realistico, senza fare finta che il tempo non sia passato ed evitando così di ibernarli in un eterno, statico presente. Il passare degli anni ha avuto degli effetti sui loro caratteri, modificandone alcuni tratti ma lasciandone immutati altri. Il nuovo episodio ci restituisce così dei personaggi più maturi, diversi eppure riconoscibili, come vecchi amici che si rincontrano dopo tanto tempo. I “grandi vecchi” vengono affiancati da giovani protagonisti carismatici e ben costruiti, con il loro carico di origini misteriose e traumi irrisolti, che si dimostrano all’altezza dei loro predecessori. Tra tutti spiccano la giovane protagonista, Rey, (una convincente Daisy Ridley) e l’antagonista, Kylo Ren, magistralmente interpretato da Adam Driver, che dimostra una volta di più quanto sarebbero stati migliori i film della nuova trilogia se a interpretare Anakin Skywalker ci fosse stato un attore migliore del termosifonesco Hayden Christensen.

Proprio nell'equilibrio tra personaggi nuovi e storici il film ha la sua pecca più grande, in quanto Abrams sembra sentirsi quasi obbligato a dare spazio ad Han, Leia e altre vecchie conoscenze, quando è evidente che il loro arco narrativo è ormai agli sgoccioli, e dunque assolutamente secondario e meno interessante rispetto a quello dei nuovi personaggi. I primi venti minuti, interamente dedicati alle "nuove reclute", sono quindi i migliori del film, in quanto la trama sembra guardare in avanti (l'inizio in medias res è da sempre un marchio di fabbrica di Guerre Stellari) anziché voltarsi faticosamente indietro come accade in altri punti.

Nonostante i rallentamenti di cui sopra, la storia in generale procede veloce, tra colpi di scena, inseguimenti mozzafiato e momenti intimi e toccanti, che non mancheranno di emozionare lo spettatore. La regia di Abrams è solida e sicura, senza quei fronzoli stilistici che avevano caratterizzato la sua versione di Star Trek, e con un impianto visivo che rispecchia quello dei film originali sia nella fotografia che nelle scene e nei costumi. Grazie alla scelta di ricostruirli dal vivo anziché in computer grafica, alieni e ambienti sono veri, realistici e coinvolgenti, lontani dalle fredde e artificiali atmosfere di alcuni episodi della seconda trilogia.

Star Wars: Il Risveglio della Forza è un ottimo primo capitolo per la nuova trilogia, in quanto riesce a soddisfare gli storici fan della saga senza estraniare potenziali nuovi spettatori, ma anzi accompagnandoli in modo elegante e rispettoso all’interno di una storia che è iniziata tanto tempo fa, in una galassia lontana lontana, e non accenna a voler finire.

 *** ½ 

Pier

lunedì 14 dicembre 2015

Minions (In pillole #3)

Merchandising: the Movie

Questa recensione sarà affidata alle parole di questo Honest Trailer (se non sapete cos'è un honest trailer, pentitevi e rimediate qui).

No, non è pigrizia: è che non potevo sperare di fare di meglio di loro. Concordo con ogni singola parola.



Per i veri pigri, ecco il riassunto: un film inutile, in cui delle spalle diventano protagonisti, con effetti disastrosi. Alcune gag sono divertenti, ma il loro eccesso e la totale mancanza di logica nella trama rendono il film difficilmente tollerabile a chi abbia passato l'età dei denti da latte.

* 1/2

Pier

mercoledì 25 novembre 2015

Il viaggio di Arlo

Paura e Natura




Siamo nella preistoria, e la Terra non è mai stata colpita da un asteroide. I dinosauri non si sono dunque estinti, ma si sono evoluti e sviluppati accanto all’uomo, dedicandosi all’agricoltura e alla pastorizia. Arlo è un giovane Apatosauro, gracile e pauroso, che vuole a tutti i costi dimostrare al padre il suo valore. A seguito di un evento traumatico, Arlo si ritrova sperduto chissà dove, e deve cercare di tornare a casa. Farà amicizia con un cucciolo d’uomo, selvaggio ma temprato alle difficoltà, e scoprirà il suo vero valore.

Cosa significa superare le proprie paure?
Questo, tra tanti, il tema centrale del nuovo film Pixar, un western on the road in cui tutto è rovesciato: i dinosauri sono "umani", gli umani sono animali. Attraverso il suo viaggio in questo mondo ignoto e sottosopra, topos del percorso di formazione dell'eroe, Arlo scoprirà se stesso e imparerà ad accettare le sue paure e a conviverci, senza pretendere di eliminarle.

Attorno a questo tema ruotano quelli della famiglia e della perdita, centrali nella narrativa disneyana, che vengono trattati con maturità e delicatezza, facendo leva sulle emozioni e i rapporti dei personaggi, attraverso scene intime e coinvolgenti, in cui le parole vengono meno e tutto viene lasciato a immagini e suoni. L’azione, e non la parola, è al centro della vicenda, soprattutto nei suoi momenti più toccanti e "umani", e Arlo troverà se stesso e il suo ruolo nel mondo grazie ai suoi atti e alle sue decisioni.
La grande forza del film è quella di saper creare un’identificazione immediata con il protagonista: lo spettatore cresce e matura con Arlo, si stupisce e si spaventa con lui di fronte a una natura mai così realistica, la cui realizzazione segna una nuova vetta nel campo dell’animazione in computer grafica, con la Pixar che si dimostra ancora una volta un passo avanti ai concorrenti. I paesaggi sono stordenti nella loro bellezza, e fanno da contraltare al disegno volutamente più stilizzato adottato per i protagonisti, in ossequio alla scelta Pixar di mantenere un look "cartonesco" per i propri personaggi.

La natura è attiva coprotagonista del film, matrigna e madre, stupenda e terribile al tempo stesso, un personaggio volubile che segna inesorabilmente i destini dei personaggi. Quando la natura non colpisce direttamente, con fragorose tempeste e possenti inondazioni, lo fa attraverso le sue creature. Nel mondo ribaltato creato dagli sceneggiatori, i predatori tradizionali come i T-Rex sono diventati cowboy dediti all’allevamento, ma restano alcuni animali che vivono da fuorilegge, squali che attaccano dal cielo anziché dall’acqua, incapaci di evolversi e trovare il loro posto nel mondo.

Il viaggio di Arlo, nonostante alcune trovate geniali e coraggiose (i frutti allucinogeni, l'attaco degli pterodattili) non ha la geniale freschezza di Inside Out e non brilla per l’originalità della trama, che riprende temi di grandi classici Disney e Pixar come Il Re Leone, Il libro della giungla e Alla ricerca di Nemo. Il film, tuttavia, risulta riuscito per la sua capacità di emozionare e stupire, i due marchi di fabbrica della casa di Emeryville, che dimostra di saper far riflettere spingere le frontiere dell’immaginazione anche quando realizza film per un pubblico più giovanile.

***

Pier

Nota: articolo originalmente pubblicato su Nonsolocinema.

mercoledì 21 ottobre 2015

Sopravvissuto - The Martian

Robinson Crusoe in Space


Durante una missione su Marte, una tempesta di sabbia costringe l'equipaggio ad andarsene per evitare il peggio. Durante la fuga, l'esperto di botanica Watney viene colpito da un detrito, e si accascia a terra. Credendolo morto, il capitano dà ordine di abbandonarlo. Watney, però, è vivo, e riesce a sopravvivere alla tempesta. Da quel momento inizierà una personale lotta per la sopravvivenza in un mondo ostile, in attesa che la NASA trovi il modo di riportarlo sulla Terra.

Ridley Scott torna alla fantascienza dopo il capolavoro mancato (grazie, Lindelof) di Prometheus, e lo fa con un film apparentemente lontano dalle sue corde, in cui la scienza predomina sulla fantasia, e Marte diviene solo il pretesto per raccontare la sopravvivenza in condizioni estreme. Watney è una sorta di Robinson Crusoe, un McGyver con la soluzione sempre pronta e deciso a non arrendersi, a continuare a vivere in un pianeta che sembra l'antitesi stessa della vita. Scott segue le vicissitudini del suo protagonista - un Matt Damon convincente, con il giusto equilibrio di ironia e umanità che rende impossibile non affezionarsi a lui - con occhio da documentarista, tra video-confessione e paesaggi desolati inquadrati in campo lungo, che richiamano le atmosfere dei grandi western classici, con un uomo solo di fronte a un deserto foriero di sventura e morte, un nemico passivo, che non attacca direttamente ma sa attendere, che logora anziché ferire, consuma anziché aggredire. Il film riesce così ad avere un occhio "scientifico" e distaccato, come quello di uno studioso che sta osservando un soggetto, insieme alla personalità e vitalità garantite dai vari personaggi, tratteggiati rapidamente, ma in modo molto definito e vivace.

La trama riprende alcuni cliché della fantascienza, ma senza quello stucchevole patriottismo che spesso permea questo genere di film, con un'inaspettata apertura verso la possibilità che altri paesi offrano in aiuto nella corsa per lo spazio. Scott dirige un film che, pur non memorabile, diverte e intrattiene, mostrando una rinnovata abilità per il racconto che sembrava aver perso nelle sue ultime prove. Sopravvissuto non passerà alla storia, ma le due ore del film volano veloci nonostante l'abbondanza di dettagli scientifici (più o meno accurati), lasciando lo spettatore con la sempre più rara sensazione di aver visto qualcosa di divertente e interessante.

***

Pier

giovedì 17 settembre 2015

Inside Out

Tu chiamale, se vuoi, emozioni



Riley è una bambina felice e spensierata, con genitori premurosi, amici fidati e una passione per l'hockey su ghiaccio. Le sue azioni sono regolate da cinque emozioni che vivono nella sua testa all'intero del Quartier Generale, guidate da Gioia, che ha molto a cuore la felicità della bambina. Insieme a lei ci sono Paura, Disgusto, Rabbia e Tristezza, goffa e pasticciona. Quando la famiglia deve trasferirsi a San Francisco, Riley e le sue emozioni saranno messe a dura prova, e dovranno affrontare un'odissea emotiva per ritrovare la serenità.

Geniale: questo è ciò che tutti abbiamo pensato dopo aver visto i primi trailer di Inside Out, e il film non delude le attese, portandoci davvero all'interno della mente della protagonista con una genialità visiva e narrativa senza precedenti. Docter, che si conferma come il miglior regista della casa di Emeryville, riesce a bilanciare perfettamente i momenti in cui vediamo Riley e quelli in cui assistiamo a ciò che accade nella sua testa, creando un meccanismo narrativo innovativo e avvincente che chiunque altro faticherebbe a sostenere per la durata di un lungometraggio.

E se è vero che, dopo un inizio scoppiettante, pieno di trovate tanto ingegnose quanto esilaranti, il film nella parte centrale diviene più "standard" a livello narrativo, con la classica odissea dell'eroe (in questo caso, gli "eroi" Gioia e Tristezza) nel tentativo di tornare a casa, è innegabile che il modo in cui questo viaggio viene raccontato è una vera gioia per gli occhi. Il mondo delle emozioni e della mente viene raccontato con dovizia di particolari, che riescono a essere sia visivamente stimolanti, sia scientificamente (quasi) accurati. La scena del pensiero astratto è allo stesso tempo divertente e rivoluzionaria per un film in computer grafica, e in generale tutta la mente di Riley viene raffigurata con una serie continua di trovate che ha pochissimi precedenti nella storia dell'animazione. Il finale, poi, torna al livello dell'inizio, toccando vette di commozione e coinvolgimento emotivo degne di quelle dei primi minuti di Up o del finale di Monsters & Co. (non a caso, sempre di Docter), e presenta un messaggio educativo non banale. Il personaggio di Bing Bong, fanciullesco ibrido tra delfino, gatto ed elefante con la goffa grazia di Charlot, è la perfetta metafora dell'infanzia che se ne va, del bambino che continua a vivere dentro di noi anche quando cresciamo.

Inside Out è un capolavoro, in grado di emozionare, divertire e far riflettere, con cui la Pixar torna finalmente ai livelli di creatività e innovatività che la hanno resa famosa, dopo alcuni passi falsi fatti di recente. Non perdetelo.

*****

Pier

sabato 12 settembre 2015

Venezia 2015 - Il Totoleone

Come ogni anno, Venezia giunge alla fine. E' stata un'edizione di buon livello, con pochi picchi ma anche con pochi film veramente brutti.

Stasera la giuria guidata da Alfonso Cuaròn assegnerà i premi. Filmora prova ad indovinarli, aggiungendo come sempre la preferenza personale.



Premio Mastroianni
Pronostico: Abraham Attah (Beasts of No Nation)
Scelta Personale: Abraham Attah (Beasts of No Nation)

Coppa Volpi Maschile
Pronostico: Christopher Plummer (Remember)
Scelta Personale: Christopher Plummer (Remember)

Coppa Volpi Femminile
Pronostico: Valeria Golino (Per Amor Vostro)
Scelta Personale: Catherine Frot (Marguerite)

Miglior Film "Orizzonti"
Pronostico: Wednesday, May 9
Scelta Personale: Childhood of a Leader

Premio della Giuria
Pronostico: Beixi moshuo (Behemoth)
Scelta Personale: Anomalisa

Leone d'Argento (Miglior Regia)
Pronostico: Amos Gitai, Rabin, the Last Day
Scelta Personale: Cary Fukunaga, Beasts of No Nation

Leone d'Oro
Pronostico: Anomalisa
Scelta Personale: Beixi moshuo (Behemoth)

Al prossimo anno!

Pier

venerdì 11 settembre 2015

Telegrammi da Venezia 2015 - #4

Ultimo telegramma da Venezia, domani il Totoleone!



Light Years (Settimana della Critica), voto 8.5. Una famiglia divisa dalla malattia della madre ritrova l'unità grazie alla determinazione della figlia più piccola. Delicato, personale, visivamente poetico, il film racconta una storia drammatica con la leggerezza che solo l'occhio di un bambino può conferire. Un esordio eccellente.

Remember (Concorso), voto 9. Due anziani ebrei ricoverati in una casa di riposo negli USA scoprono che il loro aguzzino ad Auschwitz è riuscito a rifugiarsi negli USA sotto falsa identità. Dato che uno di loro è costretto in sedia a rotelle, toccherà all'altro, Zev, affetto da demenza senile, imbarcarsi in un'odissea per trovarlo e vendicarsi. Splendido e commovente thriller che esplora i meccanismi della memoria, individuale e collettiva, attraverso la cronaca di una vendetta attesa troppo a lungo. Cast di grandi vecchi in splendida forma, con Christopher Plummer che si candida di prepotenza per la Coppa Volpi.

Beixi Moshuo - Behemoth (Concorso), voto 9.5. La Divina Commedia di Dante per raccontare il dramma della modernizzazione in Cina, dalla devastazione del paesaggio al lavoro inumano in miniera, passando per le città fantasma costruite nel mezzo del nulla. Un documentario potente, poetico ed evocativo, che non esito a definire un capolavoro.

De Palma (Fuori Concorso), voto 6. Qui la recensione fatta per NonSoloCinema.

La Calle de la Amargura (Fuori Concorso), voto 8. Qui la recensione fatta per NonSoloCinema.

Tempête, voto 8 (Orizzonti), voto 8. Qui la recensione fatta per NonSoloCinema.

In Jackson Heights (Fuori Concorso), voto 8.5. Qui la recensione fatta per NonSoloCinema.

Pier


mercoledì 9 settembre 2015

Telegrammi da Venezia 2015 - #3


Terzo telegramma da Venezia.



Man Down (Orizzonti), voto 5.5. In un'alternanza tra flashback e narrazione del presente, il film racconta l'odissea di un marine che deve ritrovare la famiglia in uno scenario post-apocalittico. La storia, soprattutto all'inizio, non brilla per originalità, ma ha alcune idee interessanti e offre numerosi spunti visivi. Shia LaBeouf, pur bravo, sembra un po' fuori parte.

The Fits (Biennale College), voto 7. Il film racconta il passaggio alla pubertà di un gruppo di ballerine hip-hop attraverso un'intelligente metafora che dona al tutto un delicato tocco di soprannaturale. Un bell'esordio.

Sangue del mio Sangue (Concorso), voto 4. Bellocchio realizza un film sconnesso, con due parti che non c'entrano niente l'una con l'altra, la prima pessima per banalità e messa in scena, la seconda sorretta dal vampiresco Roberto Herlitzka (che vale al film un voto in più) e da una buona idea di fondo, ma che naufraga comunque nel finale. Mal scritto e mal recitato (la recitazione di Piergiorgio Bellocchio dovrebbe essere proibita dalla Convenzione di Ginevra, e il cast di contorno è penoso, con l'eccezione di Alba Rohrwacher), il film finisce inspiegabilmente in concorso a Venezia, e alcuni critici prezzolati inneggiano pure al capolavoro. Da evitare come la peste.

Anomalisa (Concorso), voto 8. Kaufman (autore, tra gli altri, di Essere John Malkovich e Se mi lasci ti cancello) realizza un (altro) intelligente racconto psicoanalitico, che in alcuni punti tocca vette di genialità. L'uso dell'animazione in stop motion fa guadagnare all'opera in incisività e forza visiva.

11 Minutes (Concorso), voto 8.5. Dopo aver vinto il Premio della Giuria nel 2010, Jerzy Skolimowski torna al Lido con un film sulla forza irresistibile del caso. Ritmato, incalzante, teso e capace di grande ironia (il finale è volutamente esilarante), 11 Minutes si candida come uno dei favoriti per il Leone d'Oro.

Heart of a Dog (Concorso), voto 7. Laurie Anderson, storica compagna di Lou Reed, realizza un film poetico e fortemente visivo, fatto di suggestioni, immagini e ricordi più che di una narrazione unitaria e strutturata. L'esperimento funziona, e la vita di Laurie raccontata attraverso gli occhi del suo cane assume connotazioni ora comiche, ora tragiche, ora poetiche, ora grottesche, in un'alternanza di musiche, luci e colori che suggestionano, pur senza convincere fino in fondo.

The Endless River (Concorso), voto 2. Qui la recensione fatta per NonSoloCinema.

Pier

domenica 6 settembre 2015

Telegrammi da Venezia 2015 - #2




Black Mass (Fuori concorso), voto 5.5. Il film racconta la storia di James "Whitey" Bulger, criminale di Boston che per un certo periodo fu il pericolo pubblico numero due negli USA, alle spalle solo di Osama Bin Laden. Johnny Depp è strepitoso e inquietante nella sua interpretazione di Bulger, ma il film è fiacco, poco originale, e spreca l'ottimo cast a disposizione, con Benedict Cumberbatch e Kevin Bacon in ruoli da comprimari. Un'occasione persa.

Banat (Settimana della Critica), voto 7. Un film originale nei temi e nelle ambientazioni, che racconta la fuga in Romania di due giovani italiani in cerca di lavoro. Nonostante qualche imperfezione a livello narrativo, la storia convince e cattura per atmosfere e situazioni. Ottimi i due attori protagonisti.

The Danish Girl (Concorso), voto 8. Dopo il successo del Discorso del Re e il meno convincente Les Miserables, Tom Hooper dirige il neo-premio Oscar Eddie Redmayne nella storia di Lili Elbe, la prima persona ad essersi sottoposta a un intervento chirurgico per diventare donna. Redmayne è eccezionale per delicatezza e misura dell'interpretazione, ma a brillare sono soprattutto Alicia Vikander, la moglie di Lili prima dell'operazione, e la fotografia, splendida e commovente. Peccato per il finale, un po' retorico.

Marguerite (Concorso), voto 8.5. Qui la recensione fatta per NonSoloCinema.

The Childhood of a Leader (Orizzonti), voto 9. Qui la recensione fatta per NonSoloCinema.

Pier

giovedì 3 settembre 2015

Telegrammi da Venezia 2015 - #1

Anche quest'anno, Filmora è a Venezia, e vi offrirà le recensioni brevi di tutti i film visti. Come ormai da un paio di anni, Filmora collabora con NonSoloCinema, per cui scrive recensioni estese, che verranno linkate in questi post.

Primi giorni all'insegna dei film di denuncia, con due pellicole eccellenti che spiccano tra le altre.



Beasts of No Nation (Concorso), voto 8.5. Un pugno allo stomaco: non c'è altro modo per definire il film di Cary Fukunaga, conosciuto al grande pubblico per la regia della prima stagione di True Detective. Il suo racconto della storia di un bambino soldato in Africa Occidentale colpisce per durezza, incisività e lucida consapevolezza di una realtà insopportabile e troppo spesso ignorata. Girato divinamente e scritto in modo asciutto e scevro di retorica, è destinato a entrare nella storia del cinema di guerra, nonostante la lunghezza leggermente eccessiva. Ottima prova di Idris Elba. Prodotto da Netflix, il film uscirà online e non in sala: una ragione in più per non perderselo.

Spotlight (Fuori Concorso), voto 9. Se Beast of No Nation colpisce dritto allo stomaco, Spotlight va dritto al cuore e al cervello, creando un fremito di indignazione che cresce fino ad esplodere nel finale. Il film racconta come il gruppo Spotlight, il team investigativo del Boston Globe, abbia portato alla luce lo scandalo dei preti pedofili di Boston, in cui la Chiesa aveva coperto gli abusi mettendo tutto a tacere per anni. Grazie a questa serie di servizi, il gruppo Spotlight si è aggiudicato il premio Pulitzer. Un film che scava senza paura in un tema scottante e su cui c'è ancora tanto da dire, in cui i colpevoli sono rimasti impuniti e in cui le vittime hanno subito una violenza non solo fisica, ma anche spirituale, che il film trasmette magistralmente allo spettatore. Scritto e diretto da Tom McCarthy, uno dei migliori autori del panorama indipendente statunitense (suoi, tra gli altri, The Station Agent e The Visitor), si avvale di un cast stellare, in cui spiccano Mark Ruffalo e Michael Keaton.

Neon Bull (Orizzonti), voto 4. Un film con una bella ambientazione, con personaggi grotteschi e reali, in bilico tra Fellini e commedia all'italiana, e una bella fotografia. Perché il 4, chiedete? Perché non sviluppa alcuna linea narrativa, procedendo in modo casuale, senza raccontare una storia, un personaggio, nulla. Peccato, le premesse erano buone.

Francofonia (Concorso), voto 6. Sokurov torna a Venezia, dopo il leone ricevuto per il Faust, e lo fa con un film altamente sperimentale, in cui il documentario si mescola alla finzione, alle fotografie d'epoca, al rapporto tra vero e filmato, storia e Storia, regista e film. Il protagonista è il Louvre, che assurge a simbolo della civiltà francese. Il risultato non convince fino in fondo, in quanto tradisce una mancanza di visione d'insieme che non può essere salvata dallo splendido uso di luci e musiche, soprattutto a causa di alcune scelte davvero stucchevoli (il personaggio della Marianna). Un film imperfetto, che forse per questo potrebbe piacere agli amanti dell'arte, ma poco riuscito dal punto di vista cinematografico.

Looking for Grace (Concorso), voto 7. Il film racconta con un tocco surreale e malinconico la fuga da casa di una ragazzina, e il viaggio affrontato dai genitori e da un detective privato per rintracciarla. Delicato e vero, il film regala uno spaccato di vita vissuta che non può fare a meno di divertire ed emozionare.

Un Monstruo de Mil Cabezas, voto 5. Qui la recensione completa su NonSoloCinema.

Per il primo telegramma è tutto, alla prossima!

Pier

giovedì 27 agosto 2015

Ant-Man

Piccolo, ma meglio di tanti "grandi"



Appena uscito di prigione, l'ex hacker Scott Lang si trova costretto ad accettare un colpo da scassinatore per avere i soldi necessari a mantenere la figlia. Penetra così dentro una villa protetta da allarmi ipertecnologici ma, una volta arrivato nella cassaforte, non trova denaro ma una strana tuta. Viene catturato, e finisce in prigione. Il proprietario della villa, lo scienziato Hank Pym gli fa visita e gli rivela che si tratta di una tita miniaturizzante, che lo trasforma in un soldato in miniatura. Gli fa anche un'offerta: indossare la tuta e diventare Ant-Man per sventare un grande pericolo per l'umanità, o rimanere in prigione. A Lang non resta che accettare.

Diciamoci la verità: di tutti i film basati sui supereroi di casa Marvel, Ant-Man era forse tra i meno attesi, un po' per la ridotta popolarità del personaggio, un po' per il fatto che il film fosse dichiaratamente scollegato (in realtà nemmeno poi troppo) dall' Avengers Universe. Aggiungeteci il fatto che Paul Rudd non è esattamente una superstar, ed ecco il motivo per le basse aspettative.
Eppure, come già successo con i Guardiani della Galassia (e, volendo, anche con il primo Iron Man), la Marvel dimostra ancora una volta maggiore creatività quando deve gestire personaggi meno iconici, concedendosi delle libertà a livello narrativo e stilistico che non riesce invece a concedersi con personaggi più affermati.

Ant-Man è quindi un film godibilissimo, con un giusto mix di humour e azione e un tasso di autoironia sul genere superoistico davvero apprezzabile. Non è il classico supereroe in grado di sconfiggere nemici imbattibili, ma un ladruncolo che si trova costretto a prendere parte a una missione che sembra più un regolamento di conti privato che l'ennesimo tentativo di salvare il mondo (anche se, in fondo, lo è). La storia scorre veloce e con ritmo, aiutata da personaggi secondari molto ben riusciti, tecniche narrative inusuali per un film del genere (il racconto con uso del punto di vista, la continua alternanza tra mondo micro e macro), una regia solida e visivamente stimolante, e attori bravi a mantenere la recitazione sul piano di un sano realismo senza eccessi né sbruffonaggini eccessive. Paul Rudd è un Ant-Man realistico e credibile, un supereroe con problemi da persona comune, ma non per questo meno importanti e pressanti. Accanto a lui, Michael Douglas interpreta alla perfezione Hank Pym, uno scienziato schivo e riservato, l'esatta antitesi di Tony Stark e di suo padre, con i quali ha infatti un passato non esattamente idilliaco.

Tra spiegazioni scientifiche ed esilaranti transizioni tra le titaniche lotte del mondo miniaturizzato e le loro conseguenze nel mondo a grandezza naturale, Ant-Man regala due ore di divertimento di buona qualità, dimostrando che si può realizzare un buon film di supereroi anche con una trama semplice e focalizzata sui rapporti umani, senza cattivi con fenomenali poteri cosmici e piani estremamente complessi. In sintesi, una piacevole sorpresa.

*** 1/2

Pier

lunedì 20 luglio 2015

Terminator Genisys

Hasta lo stravisto, baby!



In un futuro distopico, colpito da un olocausto atomico, le macchine, sotto il controllo del software Skynet, hanno preso il controllo, e gli uomini sono ridotti alla clandestinità. Guidati da John Connor, gli uomini riescono a fare breccia nel cuore di Skynet e a distruggerlo. Come ultimo tentativo, Skynet manda nel passato un Terminator T-800, robot con sembianze umane, per uccidere la madre di John Connor, Sarah. John invia allora nel passato il suo luogotenente più fedele, Kyle Reese, al fine di proteggere sua madre. Mentre sta per partire, però, Reese vede che John viene aggredito da un robot camuffato e, quando arriva nel passato, scopre che tutto è cambiato: Sarah Connor sa già cosa l'aspetta nel futuro, a proteggerla c'è un vecchio T-800, in tutto e per tutto simile a quello appena mandato per ucciderla, e a minacciarla c'è il ben più temibile T-1000. Reese ha inoltre dei ricordi che non dovrebbe avere, in cui un se stesso bambino continua a ripetergli: "Genisys è Skynet."

Il nuovo capitolo della saga di Terminator decide di ribaltare le carte in tavola, giocando ancora una volta sui viaggi nel tempo per cambiare tutto ciò che abbiamo sempre saputo sulla saga. L'esperimento, tuttavia, non riesce a causa di una trama troppo involuta e mal congegnata, che si fonda quasi interamente su viaggi temporali gestiti con eccessiva leggerezza e su un colpo di scena già visto in numerose serie TV e film (Doctor Who - The Sound of Drums e il recente Kingsmen, per dirne due) in cui ciò che dovrebbe cambiarci la vita si scopre essere uno strumento del nemico. La trama ha numerosi buchi, che non possono essere spiegati né risolti con la scusa del paradosso temporale, e che finiscono quindi per distruggere la sospensione dell'incredulità, con alcune scene al limite del ridicolo. La regia, inoltre, è scolastica, e non contribuisce certo ad arricchire il film, così come le recitazioni di Emilia Clarke e Jai Courtney, due stoccafissi monoespressivi.

La salvezza del film, che permette di seguire la trama con un barlume di interesse, è Arnold Scharzenegger, monoespressivo come il ruolo richiede, ma anche capace di inusitati momenti comici e di sfaccettature che conferiscono al suo robot senza sentimenti un maggiore spessore rispetto al passato. Il suo personaggio è ben scritto, tra tormentoni classici e nuovi ("Vecchio, non obsoleto"), un Terminator invecchiato e "nonno", ma sempre grintoso, incapace di sorridere in modo normale ma ancora efficace nella missione cui ha dedicato tutta una vita.

Terminator: Genisys è dunque un trionfo di cose già viste, in cui si salva solo il personaggio con cui tutto è iniziato e che ancora oggi, nonostante i trucchi digitali e le spericolate evoluzioni della trama, resta il motivo principale per vedere una saga che sembra avere ben poco di nuovo da dire.

**

Pier

mercoledì 24 giugno 2015

Youth - La giovinezza (In pillole # 2)


Cacofonia di parole, estasi di immagini 


Un regista e un compositore ormai anziani si ritrovano ogni anno in un albergo sulle Alpi svizzere, dove discutono di arte, amicizia, amore e vita. Intorno a loro gravitano vari personaggi che segnano in modo più o meno diretta il loro rapporto con il passato e con il futuro.

Dopo il successo della Grande Bellezza, Sorrentino torna con un film più intimo e personale, che analizza la vecchiaia non con occhio clinico, focalizzandosi sul lento decadimento fisico e mentale come alcuni recenti film (Still Alice, Amour), ma centrando l'attenzione sui sentimenti e i rapporti interpersonali, tra amicizie che si mantengono perché ci si dice solo le cose belle e rapporti familiari più complessi di ciò che appaiono in superficie.

Sorrentino dirige con delicatezza, evitando (con qualche eccezione, come la scena filmata da dietro la rete del ping pong) quell'eccesso di manierismo che aveva caratterizzato La grande bellezza, e focalizzandosi sui personaggi e sul loro rapporto con età e realtà. Il cast è semplicemente superbo, guidato da un Michael Caine che dà significato a ogni silenzio e pregnanza a ogni momento onirico, esaltandone la portata immaginifica ed evitando che finiscano per essere solo esercizi di stile. Accanto a lui si muovono un Harvey Keitel ruvido e disperato, un Paul Dano convincente e finanche commovente, e una strepitosa Jane Fonda in un cameo indimenticabile.

Laddove il film incanta con la forza delle immagini e dei personaggi, cade miseramente sui dialoghi, che sembrano copiati e incollati dalle frasi dei Baci Perugina tanto sono stanchi, triti e banali (come si sente l'assenza di Umberto Contarello!). I momenti parlati sono talmente inferiori a quelli muti che verrebbe voglia che i personaggi non aprissero (quasi) mai bocca, onde evitare la sospensione dell'incantamento di immagini e suoni (ottima colonna sonora). Invece le parole rompono, spezzano, distruggono la magia, rendendo impossibile una piena immersione nel flusso del film, quel dolce abbandono che le atmosfere rarefatte e bucoliche sembrano suggerire.

La storia ha invece momenti eccellenti, dal concentro sui monti immaginato da Michael Caine al personaggio di Maradona, vera e propria summa di tutto il film, un talento cristallino che sopravvive a dispetto di età, decadimento fisico e avversità della vita. E il finale, intimo, astratto, quasi mistico, con l'inquietante presenza-assenza della moglie di Caine, chiude con la giusta dolcezza un film che, se non fosse stato per dei dialoghi ai limiti dell'imbarazzante, avrebbe potuto commuovere.

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Pier

mercoledì 17 giugno 2015

Jurassic World

Il parco della nostalgia



Il parco sognato dal miliardario John Hammond, e poi naufragato a causa di un malfunzionamento degli impianti, è ormai diventato realtà: Jurassic World accoglie ogni giorno migliaia di visitatori, permettendo loro di interagire con dinosauri riportati in vita grazie all'ingegneria genetica. Tuttavia, i costi del parco rendono necessaria la continua creazione di nuove attrazioni al fine di mantenere alto l'interesse del pubblico: questo porta alla nascita di una nuova specie di dinosauro, l'Indomius Rex, concepito per essere il più feroce predatore mai esistito. Qualcosa, però, va storto, e la direttrice del parco, insieme a un soldato dedito all'ammaestramento dei velociraptor, si troverà a dover far fronte alla furia di ciò che ha contribuito a creare.

C'è qualcosa di affascinante nei dinosauri, qualcosa che colpisce il nostro inconscio e genera in noi un'involontaria ammirazione per questi giganteschi animali vissuti sulla terra milioni di anni prima dell'uomo. Questa fascinazione è il cuore pulsante di Jurassic World, la ragione del suo clamoroso successo e il maggior motivo di interesse in un film che ricalca quasi pedissequamente la trama del primo, riuscendo però a mantenerne anche il tono scanzonato e la capacità di alternare humor e tensione.

Il film è diretto con mano decisa dal quasi esordiente Colin Trevorrow, che presenta le attrazioni del suo parco giochi con ritmo veloce e senza indulgere in momenti di pausa o riflessione. Se da un lato questo appiattisce il film e i protagonisti, riducendoli a personaggi monodimensionali privi di sfaccettature, dall'altro lascia maggior spazio ai veri protagonisti, i dinosauri, realizzati con dovizia di particolari e un'espressività che contribuisce alla loro caratterizzazione di esseri viventi, anziché macchine per il divertimento, rafforzando così uno dei temi portanti del film. Nonostante i loro personaggi siano poco più che cliché, gli attori protagonisti offrono una buona prova, con Chris Pratt perfetto per il ruolo di avventuriero sbruffone ma dal cuore d'oro.

Jurassic World fa quello per cui è stato costruito: intrattiene senza annoiare né richiedere sforzi mentali, solleticando i ricordi di chi era bambino quando uscì Jurassic Park con intelligenti citazioni e divertendo chi è bambino oggi, lasciando entrambi a bocca aperta di fronte alla maestosità dei dinosauri. Il parco è aperto: buon divertimento.

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Pier

sabato 30 maggio 2015

Tomorrowland

Fermate Lindelof, voglio scendere


Casey Newton è la figlia adolescente di un ingegnere NASA che rischia di perdere il lavoro. Intorno a sè sente spesso parlare del terribile futuro che aspetta il nostro pianeta, ma è frustrata dal fatto che nessuno sembra voler fare nulla per risolvere i problemi. Un giorno trova una strana spilla e, toccandola, viene trasportata a Tomorrowland, un mondo futuristico che apparentemente solo lei può riportare ai fasti di un tempo.

Spesso si identificano i film con i registi, ma nel caso di Tomorrowland sarebbe fare un torto a Brad Bird. Il film è infatti visivamente innovativo, vivace, vitale, con trovate stupefacenti e stimolanti, tra razzi degni di Jules Verne che decollano dalla Tour Eiffel e avveniristiche piscine sospese. Sotto questo punto di vista, Tomorrowland non delude le attese, e riesce a creare un nuovo mondo che risulta credibile per la sua capacità di riflettere, in meglio e in alcuni casi in peggio, le caratteristiche del mondo reale, creando un effetto di "nostalgia per il futuro" che ricorda uno dei capolavori di Bird, Il gigante di ferro.
Dove il film fallisce, va alla deriva, naufraga del tutto è nella storia, che porta l'inconfondibile marchio di fabbrica di Damon Lindelof, l'uomo incapace di costruire una trama senza buchi narrativi, e soprattutto del tutto incapace di dare una risposta alle mille domande che apre, ai mille misteri che abbozza senza definire. La scrittura di Lindelof, da Lost a oggi, riassume tutto ciò che non dovrebbe fare uno sceneggiatore, e Tomorrowland non fa eccezione, tra buchi narrativi grandi come una casa, una storia sdolcinata e sconclusionata, e personaggi talmente monodimensionali e piatti che è pressoché impossibile identificarcisi.

Ecco perché Tomorrowland è il film di Lindelof, una storia raffazzonata e mal scritta che non coinvolge né emoziona, in cui i "colpi di scena" arrivano del tutto a caso e vengono spiegati solo con descrizioni pseudoscientifiche degne della supercazzola di Amici miei. Come in Prometheus, la sceneggiatura si arrotola su se stessa, rovinando le buone premesse con un'evoluzione lenta e macchinosa, che finisce per strozzare il meccanismo del racconto risultando in un suicidio narrativo. A questo si aggiunge la retorica pseudo-infantilista della Disney, che risalta in modo evidente vista la scrittura pedestre, e una storia non certo originale nei suoi punti fondamentali.
Anche gli attori non brillano: Britt Robertson è una versione irritante di Jennifer Lawrence con un decismo del suo carisma, George Clooney sembra solo aspettare l'assegno e Hugh Laurie è talmente irritato con se stesso per aver accettato che finisce per dimenticarsi di recitare. Si salva solo la giovane Raffey Cassidy, uno degli androidi più veri e convincenti visti sullo schermo.

Il risultato complessivo è un film la cui trama poteva forse funzionare negli anni Sessanta, ma che giunge fuori tempo massimo rispetto alle sensibilità del pubblico odierno. Non basta in tal senso il messaggio pseudo-ambientalista, declinato in modo talmente scontato e politically correct da risultare controproducente. Tomorrowland è visivamente stimolante, ma finisce per essere un film per bambini che rischia di non piacere nemmeno a loro, affossato dalla scrittura di quello che è forse il peggior sceneggiatore su piazza per come pensa di poter sempre prendere in giro lo spettatore.

* 1/2

Pier

lunedì 18 maggio 2015

Mad Max: Fury Road

The road to eternity



In un futuro prossimo venturo, la vita sulla terra è stata praticamente spazzata via. L'umanità vive in un deserto desolato, in cui vige la legge del più forte. Immortan Joe regna inconstrastato su The Citadel, in cui è riuscito a creare una piccola oasi con acqua, vegetazione e cibo. Chi lo serve lo venera, il suo volere è legge. Quando però una dei suoi schiavi combattenti, Furiosa, decide di ribellarsi, portando con sè anche l'harem che Joe usa per soddisfare i suoi piaceri, Joe scatena la forza delle sue armate per inseguirla. Sulla sua strada si parerà anche un vagabondo di nome Max, che si troverà coinvolto in uno scontro all'ultimo sangue sulla Fury Road.

Lo dico subito: questa non sarà una recensione come tutte le altre. Perché, in fondo, Mad Max: Fury Road non è un film come gli altri. Tanto per cominciare, è il primo sequel / reboot di film anni '80 che non solo è all'altezza degli originali, ma li supera e li rielabora, adattandoli al mondo moderno. E' un film sporco, duro, forsennato, in cui l'assurdo diventa plausibile grazie al coraggio del regista, George Miller, che anziché sedersi sugli allori della gloria passata (sua anche la trilogia originale), decide di osare e prova nuove strade, spinge al massimo sull'acceleratore verso il nuovo e l'ignoto.

Il risultato è un film adrenalinico, folle, senza un attimo di respiro, con trama e dialoghi risicatissimi che riescono però ad avere più significato di mille monologhi esistenziali, personaggi essenziali ma perfetti, scenografie ed effetti speciali realistici, con un uso della CGI ridotta al minimo (Peter Jackson, guarda e impara) e un realismo che trasuda da ogni scena, nonostante l'assurdità di ciò che accade. Insomma, Fury Road è, ribaltando la famosa frase fantozziana, una figata pazzesca. Tra auto modificate e bracci bionici, chitarristi sospesi in aria con chitarre lanciafiamme e personaggi grotteschi e deformi, lo sguardo dello spettatore non si stacca mai dallo schermo, dove i rari momenti di pausa sono solo pit-stop tra una corsa forsennata e l'altra, in cui si spiegano la filosofia e la storia di un mondo lontano e vicino, in cui l'eccesso la fa da padrone e la massima ricompensa per chi non comanda è morire in modo glorioso.

Tom Hardy è uno splendido Max, taciturno, distaccato, osservatore di una storia che non è la sua, ma in cui si trova coinvolto suo malgrado. La vera protagonista è Furiosa, una combattente energica e spietata ma con una sua psicologia, del tutto spogliata degli stereotipi di genere cui il cinema d'azione ci ha abituato, probabilmente la migliore eroina vista su schermo dai tempi di Alien. La interpreta una Charlize Theron sontuosa, carismatica e volitiva senza bisogno di urlare nè di scene madri (fatta salva la solita rivedibile scena con urlo al cielo che ormai sembra essere d'obbligo nei film made in USA).
Sceneggiatura (i dialoghi risicati e scarni sono una scelta ben precisa, meno facile da realizzare di quanto si pensi), fotografia e scenografia si compenetrano con insanità e realismo, con Miller a tirare le fila con una maestria tale da farci domandare dove fosse stato tutti questi anni (la risposta, che ci crediate o no, è "a girare Happy Feet"), mentre torme di registi senza coraggio umiliavano il genere.

Mad Max: Fury Road, non mi stancherò mai di ribadirlo, è una figata pazzesca, per cui Miller e soci meritano senza dubbio alcuno il Valhalla e la gloria eterna. Accorrete, guardatelo in massa, portate amici e parenti. In una parola: ammiratelo.

*****

Pier

domenica 17 maggio 2015

Mia madre

Stare a fianco, stare di fianco


Margherita è una regista "impegnata", alle prese con le riprese di un film sullo scontro tra gli operai di una fabbrica e i nuovi proprietari che vorrebbero licenziarli. Sua madre, un'insegnante di latino e greco in pensione, è malata da tempo, ma le sue condizioni sembrano essersi aggravate. Margherita si troverà a dover gestire il difficile equilibrio tra una troupe sconvolta dall'arrivo di una capricciosa star americana e la famiglia, confrontandosi con quegli affetti che non ha mai voluto affrontare.

Dopo aver affrontato, con notevoli capacità profetiche, le crisi della politica (Il caimano) e della fede (Habemus Papam), Moretti torna ad affrontare una storia di affetti familiari, in cui le relazioni e le non relazioni tra i personaggi sono il motore della storia. Al centro della vicenda troviamo tre personaggi profondamente diversi: la madre è una persona generosa, abituata a donare se stessa agli altri, sia nel suo lavoro di insegnate, sia nella vita privata; il fratello (un Moretti stranamente sotto tono ma comunque molto intenso) è un uomo mite, tranquillo, per cui la famiglia viene prima di tutto, che concentra il suo affetto su un numero ristretto di persone; infine, Margherita, la protagonista, è segnata da un'anaffettività cronica, da un'incapacità di instaurare un rapporto con gli altri, che diventano solo personaggi all'interno del teatro (o, meglio, del cinema) della sua esistenza. Il mantra "stai accanto al personaggio" che ripete ossessivamente ai suoi attori diventa metafora del suo modo di vivere, di un'incapacità sia di stare accanto agli altri, sia di essere se stessa, relegata alla posizione di spettatrice nella sua stessa vita, sia nei ricordi che nel presente.

Il film ha nella verità la sua forza, in una pietà composta e mai pelosa la sua cifra e il suo fondamento. Commuove, ma non cerca la lacrima facile; emoziona, ma senza essere retorico. E' un film che parla di sentimenti in maniera semplice, come il titolo, due parole ordinarie ma straordinarie, che parlano di un rapporto umano che, pur intenso, fatica a sbocciare e a divenire pieno e vivo. Margherita Buy dà vita alle nevrosi di un personaggio in cui è impossibile non riconoscere lo stesso Moretti, preso tra un sotterraneo desiderio di amare e una cronica incapacità di esprimerlo, un'indecisione tra l'amare o l'essere amato, tra persona e personaggio, in cui tutto diviene una dicotomia e nulla è complementare. Allo stesso tempo, però, Margherita si distingue dal suo modello, divenendo un personaggio a se stante, portatrice di una crisi interiore silenziosa, quasi sussurrata, ma allo stesso tempo incapace dell'accettazione serena e riservata del fratello Giovanni. Insieme a lei sul set del film si muove un Turturro che convince non tanto nelle (esilaranti) scene da mattatore, quanto in quella in cui, rivelando la sua fragilità e la sua debolezza, riesce finalmente a instaurare un rapporto con la regista, uscendo dal suo personaggio per diventare persona, cosa che Margherita, fino all'ultimo, non riuscirà veramente a fare.

Mia madre è un film intenso, certo imperfetto, ma proprio per questo umano, vero, lontano in tutti gli aspetti, sceneggiatura e scenografia in testa, da quella patinata realtà cui ci ha abituato molto cinema italiano, in cui i sentimenti divengono reali, vivi, vicini alla vita di tutti noi. Da non perdere.

**** 1/2

Pier

martedì 21 aprile 2015

Foxcatcher (In pillole - #1)

La tensione vibrante del non detto



Il film racconta la storia vera del team Foxcatcher, messo in piedi da Mark Schultz, campione olimpico di lotta, e finanziato interamente dal miliardario John E. DuPont, che in cambio del suo sostegno assume il ruolo di allenatore del team alle Olimpiadi di Seul. Il rapporto tra i due, il primo cresciuto all'ombra del fratello, il secondo in cronico debito d'affetto con la madre, inizierà bene, ma diventerà sempre più problematico con il passare del tempo.

Avete presente quando si sente dire che la scrittura è prevalentemente un lavoro di sottrazione? Foxcatcher ne è la prova vivente. Una sceneggiatura tesa, vibrante, in cui il non detto è più pregno e significativo della parola, e ogni silenzio genera una tensione sottile, che cresce con il passare del film fino a esplodere nel finale.

La sceneggiatura è sorretta da una fotografia dalle tonalità fredde e stranianti, che sottolinea i silenzi e le affollate solitudini dei due protagonisti. una strepitosa prova corale del cast. Steve Carell spicca con un’impressionante trasformazione fisica e vocale, che lo trasforma in un personaggio dominante e dominato al tempo stesso, benefattore e persecutore, una viva rappresentazione del male interiore e dell’incapacità di relazionarsi con il mondo reale. Accanto a lui, Marc Ruffalo e Channing Tatum offrono due prove eccezionali e complementari, il primo con un personaggio solare, generoso e positivo, il secondo, ingiustamente ignorato nelle nomination, con un gigante introverso pieno di complessi, un solitario come come DuPont cui il successo non ha donato nè fama nè realizzazione personale.

Foxcatcher è un film silenzioso e intenso come un western, in cui due diverse solitudini si incontrano, si uniscono e si affrontano in un duello di sguardi, non detti e rancori che non può lasciare indifferenti, con un finale che toglie il fiato.

**** 1/2

Pier

* Con questa recensione nasce una nuova rubrica, "In pillole", che conterrà recensioni brevi di film che, per ragioni di tempo od opportunità, non abbiamo fatto in tempo a recensire appena usciti, ma che riteniamo comunque meritevoli di un commento.

domenica 8 marzo 2015

Un piccione seduto su un ramo riflette sull'esistenza

L'assurda arte della vita



Due venditori di scherzi dall'aria depressa vagano per la città cercando di vendere i loro prodotti. Il loro peregrinare ci accompagna attraverso luoghi, personaggi ed eventi tra il drammatico, il comico e il grottesco, 39 quadri che, nella loro eterogeneità, rappresentano la tragica ironia della vita.

Capolavoro: non esiste altra parola per descrivere il film con cui Roy Andersson, regista svedese dal grande talento ma quasi sconosciuto al grande pubblico, si è aggiudicato il Leone d'Oro a Venezia 2014. Come altro potrebbe essere definito un film che diverte e commuove, che unisce l'ironia sottile dei Monty Python all'assurda normalità di Kaurismaki, una fotografia che richiama le opere di Bruegel il Vecchio e Hopper a personaggi che ricordano la stanca, malinconica comicità di Stanlio e Ollio e Buster Keaton.

Il film di Andersson racconta la vita nel suo insieme, senza aver paura di indugiare in momenti assurdi e apparentemente senza senso, in cui sembra che non accada nulla mentre si sta consumando il più intenso dei drammi, la sostanza stessa della nostra esistenza, il lento trascinarsi della normalità. Il regista gestisce il tempo scenico attraverso 39 piani sequenza, inquadrature fisse realizzate con la maestria di un quadro, con una fotografia splendida che strania e coinvolge al tempo stesso. All'interno di questi quadri si muovono i due protagonisti, novelli Don Chisciotte e Sancho Pancha, venditori porta a porta di risate in una società che ha disimparato a ridere, e che trova la comicità solo nei momenti più drammatici, come la morte (i primi 15 minuti del film, in cui assistiamo a una carrellata di morti assurde, sono esilaranti e tragici al tempo stesso). Intorno a loro si muovono personaggi che rappresentano i diversi aspetti della commedia umana: eserciti che si fermano per una birra e tornano sconfitti, ostesse zoppe con la passione per il canto, schiavisti che azionano marchingegni improbabili, scienziati dal dubbio rigore e dell'ancor più dubbia serietà.

Andersson si muove con leggerezza attraverso i suoi quadri, guardando il mondo con uno sguardo freddo e divertito, come un entomologo che osserva delle formiche dibattersi, lavorare, amare, inseguirsi, lasciarsi, ridere, soffrire, in un guazzabuglio di sentimenti e situazioni che rappresenta in modo terribilmente realistico questo scherzo continuo che chiamiamo vita. Un film artistico e ironico, tragico come solo la vera satira sa essere: un film da non perdere.

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Pier

domenica 22 febbraio 2015

Oscar 2015 - I pronostici



Sul filo di lana, a poche ore dall'inizio della cerimonia, ecco i pronostici di Filmora per gli Academy Awards di stanotte. Visto il poco tempo, ci focalizzeremo solo sui premi principali.
Quest'anno pronostico difficile, vista l'altissima qualità di alcuni dei concorrenti.

Come sempre, oltre al pronostico, anche la mia scelta personale.



Miglior montaggio
Il vincitore non può che essere Tom Cross per Whiplash, un capolavoro di intensità e ritmo, con una continua alternanza di temi e controtemi, improvvisazioni e ripetizioni, come fosse una jam session jazz.
Pronostico: Whiplash
Scelta personale: Whiplash

Miglior fotografia
Una delle sezioni in cui la scelta è più dura: Ida, Birdman, Grand Budapest Hotel, tutti meriterebbero la statuetta. Robert Yeoman (Birdman) sembra favorito, ma la mia scelta personale va a Emmanuel Lubezki, autore delle splendide immagini di quel gioellino che è Grand Budapest Hotel.
Pronostico: Birdman
Scelta personale: Grand Budapest Hotel

Miglior film d'animazione
Sezione dove sono arrivate due nomination a sorpresa, per Song of the sea e The tale of princess Kaguya, e l'esclusione inaspettata di Lego Movie. I favoriti sembrano essere Big Hero 6 e How to train your dragon 2. Penso che alla fine la spunterà il primo, che riscuote anche il mio favore personale.
Pronostico: Big Hero 6 
Scelta personale: Big Hero 6

Miglior attore non protagonista
J.K. Simmons, who else? Mark Ruffalo è strepitoso in Foxcatcher, Norton incanta in Birdman, ma qui non può che vincere il dispotico insegnante di Whiplash.
Pronostico: J.K. Simmons 
Scelta personale: J.K. Simmons

Miglior attrice non protagonista
Patricia Arquette (Boyhood) è strafavorita, ma io non posso esimermi dal dare la mia preferenza all'eterna Meryl Streep (Into the Woods), che conquisterebbe così il suo quarto Oscar e pareggerebbe il conto con Katherine Hepburn.
Pronostico: Patricia Arquette 
Scelta personale: Meryl Streep

Miglior sceneggiatura originale
Il favorito sembra essere Birdman, che però proprio nella storia ha forse il punto meno forte. La mia scelta personale ricade quindi su Foxcatcher, un film che suscita emozioni continue proprio grazie alla perfezione della scrittura.
Pronostico: Birdman
Scelta personale: Foxcatcher

Miglior sceneggiatura non originale
Rimpiango di non aver visto Inherent Vice di Paul Thomas Anderson, che quindi non posso includere nei pronostici. Tra quelli che ho visto premierei Damien Chazelle per Whiplash, per l'abilità con cui ha trasformato una storia già vista mille volte in un film emozionante e avvincente. Rischia di vincere, anche per la sua natura di film indie.
Pronostico: Whiplash
Scelta personale: Whiplash

Miglior attore protagonista
Strafavorito Eddie Redmayne (La teoria del tutto), che ha vinto ogni premio possibile e, soprattutto, lo Screen Actors Guild Award: fino ad oggi, solo cinque volte è successo che il vincitore di questo premio non si aggiudicasse poi l'Oscar. Il mio preferito, dopo un lungo travaglio interiore, è invece Michael Keaton per Birdman, con Benedict Cumberbatch appena dietro per la sua interpretazione di Alan Turing in The imitation game.
Pronostico: Eddie Redmayne
Scelta personale: Michael Keaton

Miglior attrice protagonista
Strafavorita Julianne Moore che, nonostante non abbia visto Still Alice, si aggiudica anche la mia preferenza personale. Così, sulla fiducia.
Pronostico: Julianne Moore

Scelta personale: Julianne Moore


Miglior regia
Altra sezione dove la competizione è altissima: si potrebbe premiare l'unicità della scelta di Linklater in Boyhood, la visionarietà di Inarritu per Birdman, la perfezione di immagini, personaggi e dialoghi di Wes Anderson per Grand Budapest Hotel. Penso che il favorito sia Linklater, mentre Anderson si aggiudica la mia scelta personale, anche per risarcirlo dei tanti anni in cui è stato ingiustamente ingnorato.
Pronostico: Richard Linklater
Scelta personale: Wes Anderson

Miglior film
Altra scelta estremamente difficile. Per me il film migliore dell'anno è Birdman, e penso che, alla fine, anche l'Academy andrà in questa direzione, premiando la capacità di Inarritu di unire spettacolo e autorialità.
Pronostico: Birdman
Scelta personale: Birdman

"No suit? Loser."
E' tutto, ci risentiamo dopo la cerimonia per i bilanci. Di una cosa possiamo essere sicuri: it's gonna be legen... (wait for it).



Pier

venerdì 6 febbraio 2015

Birdman

L'emozionante incapacità di essere normale



Riggan Thompson è un attore divenuto celebre in gioventù per aver interpretato il supereroe Birdman. Ormai anziano, Riggan cerca di rilanciarsi con uno spettacolo teatrale tratto da un racconto di Raymond Carver e da lui diretto e interpretato. Mentre cerca di superare le difficoltà e le diffidenze legate allo spettacolo, Riggan deve anche tenere a bada la sua coscienza, che prende le sembianze proprio dell'eroe che lo ha reso famoso, di cui per qualche strano motivo sembra aver conservato i superpoteri.

Inutile tirarla per il lungo: a parere di chi scrive, Birdman è uno dei migliori film dell'anno, forse il migliore tra quelli che prenderanno parte alla notte degli Oscar. Inarritu realizza un piccolo gioiello, tutto in interni, che attraverso una serie di piani sequenza da manuale ci fa penetrare nel cuore del teatro, dello spettacolo, e dell'anima del protagonista, che viene messo a nudo lentamente, con pazienza, come in una lunga e intensa seduta psicoanalitica. L'esplorazione ossessiva e meticolosa degli spazi dietro le quinte diviene esplorazione della mente del protagonista, una mente tortuosa, involuta, travolta dal senso di colpa e bloccata dai "se". Cosa sarebbe successo se avesse accettato di fare Birdman 3? Cosa sarebbe successo se non avesse mai fatto Birdman? I se si accumulano, si inseguono, tormentano Riggan e al tempo stesso lo ispirano, lo caricano, gli fanno percepire l'importanza infinita ed effimera dello spettacolo che si appresta a rappresentare, l'ultima occasione di una vecchia vita, l'inizio di una nuova, o forse nessuno dei due.

Accanto allo studio sul personaggio si innestano due riflessioni strettamente interconnesse, la prima sulla celebrità nel mondo dei social media, la seconda sulla capacità umana, e soprattutto maschile, di accettare il cambiamento e il declino fisico e della fama, il lento spegnimento dei riflettori della ribalta e della vita. Inarritu si sbizzarrisce nelle citazioni metacinematografiche, che iniziano ma non si fermano con la scelta del protagonista, un Michael Keaton rimasto a lungo intrappolato nella tuta del Batman burtoniano e che con Riggan condivide numerosi tratti. Era dai tempi di The Wrestler che non si vedeva una così totale identificazione tra attore e personaggio, una fusione di corpo e spirito che risulta in una performance talmente vera e profonda da fare quasi male nella sua toccante autenticità. Una prova da Oscar, senza se e senza ma, per la sua capacità di essere toccante senza essere macchiettistico, per la molteplicità di registri affrontati, per il realismo raggiunto anche nelle situazioni più estreme. Accanto a lui spiccano un Edward Norton eccezionale nel ruolo di un attore teatrale che è lo specchio di Riggan e la sua nemesi, e Zach Galifianakis, misurato e quasi irriconoscibile nel ruolo del fedele agente del protagonista.

Le riflessioni sul mezzo cinematografico e sulla moderna società dei media, tuttavia, non si fermano qui: Riggan si ritrova a pagare il prezzo della fama, un'arma a doppio taglio che può garantire notorietà ma non il rispetto dei propri pari, creando una situazione in cui l'artista deve continuamente mantenersi in equilibrio tra un pubblico e un'industria che vogliono essere intrattenuti e una coscienza, sia umana che professionale, che richiede integrità artistica. Una storia che Inarritu conosce bene, che è quella di molti artisti che rischiano ogni giorno di finire schiacciati dagli ingranaggi di Hollywood. Una storia che, nell'era dei social media e del warholiano minuto di celebrità, diviene la storia di tutti, intrappolati tra una sfuggevole fama a portata di mano e il desiderio di lasciare un segno con la propria esistenza.

Birdman è un capolavoro. Lo è a dispetto di un finale che depotenzia parte del suo messaggio, ma ne rafforza il senso picaresco e roboantemente coraggioso; lo è a dispetto di una bulimia narrativa che rende il ritmo quasi eccessivamente rapido, ma contribuisce anche a rendere il film godibile e stimolante nonostante la sua cifra artistica e di riflessione sociale. Lo è, insomma, a dispetto dell'imperfezione, quell'imperfezione che è al cuore stesso di ogni espressione artistica, e che la continua ricerca del consenso ci spinge spesso a sopprimere.

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Pier

giovedì 29 gennaio 2015

The Imitation Game

Imitation of life



Il film racconta la vita di Alan Turing, il matematico inglese che costruì la macchina che permise di decrittare il codice Enigma usato dai nazisti per le comunicazioni, aiutando così la Gran Bretagna a vincere la Seconda Guerra Mondiale. Turing, che fu anche il pioniere dei moderni computer, morì suicida a soli 41 anni in seguito alla condanna per la sua omosessualità, ai tempi punibile con la prigione o la castrazione chimica.

Imitation of life, cantavano i REM nel 2001. Il titolo di quel singolo ben si adatta alla trama del film, in cui l'imitazione della vita, il tentativo di ricreare comportamenti e pensieri umani e "normali", è al centro delle vicende narrate. Il parallelismo tra la ricerca di Turing e la sua vita privata è evidente fin dalle prime scene: da un lato il suo lavoro, volto a creare un'intelligenza artificiale in grado di pensare come un essere umano, seppur in modo diverso; dall'altro la sua difficoltà nel confrontarsi con il mondo, il suo tentativo fin da giovane di imitare gli altri per proteggere la propria diversità da una società che non la accetta. La differenza, tuttavia, sta nell'esito: laddove la sua ricerca riesce, il suo tentativo di mimetizzarsi fallisce miseramente. Troppa la sua diversità, troppa la sua eccezionalità per riuscire a nascondersi, a sembrare "normale". Come suggerisce Joan Clarke, la matematica che aiutò Turing a decrittare Enigma, se Turing fosse stato "normale" non avrebbe raggiunto gli eccezionali risultati che ha ottenuto.

Il tema della diversità, della sua non-accettazione da parte della società e del suo nascondimento è centrale in The Imitagion Game, in cui tutti nascondono segreti e il nemico sembra sempre essere invisibile. La sfida per decrittare Enigma, ma soprattutto la decisione presa dopo aver decifrato il codice, divengono uno specchio delle lotte interiori del protagonista, ma anche di chi lo circonda: Joan Clarke è una donna in un mondo di uomini, condannata dalla società a un ruolo che non accetta; il Comandante Deniston (lo splendido Charles Dance) è un soldato che vorrebbe combattere in campo aperto, ma è costretto a ricorrere a matematici e crittografi per vincere la guerra; Stewart Menzies, capo del neonato MI6, nasconde e gestisce segreti inconfessabili, dalla presenza di una spia russa tra i crittografi alla decisione di lasciar riuscire alcune missioni tedesche per non far loro scoprire che Enigma era stato decrittato. La crittografia diviene metafora della vita, dove il significante è sempre diverso dal significato, il segno dal suo contenuto.

E poi c'è quella scena che vale il film.

Il film è girato in modo rigoroso, senza spunti creativi né sbavature, con un impianto classico teso a sottolineare ed esaltare la prova degli attori. Spicca, brilla, splende di luce propria Benedict Cumberbatch, eccezionale in un ruolo solo apparentemente simile a quello di Sherlock Holmes che gli ha donato la fama. Ogni suo gesto, ogni sua espressione, ogni sua inflessione vocale restituisce un aspetto della personalità di Turing, creando un ritratto a tutto tondo del genio britannico che colpisce per profondità psicologica e sensibilità emotiva. Turing non è un disabile, non ha deformazioni fisiche: la sua "anormalità" è interiore, e in quanto tale molto più difficile da rappresentare. La diversità di Turing non dipende solo dal suo essere omosessuale, bensì da un'incapacità di comprendere il mondo e le sue convenzioni. Cumberbatch riflette questa sensazione di estraneità regalando un personaggio vivo e vibrante, senza gli inutili eccessi, le urla e le pantomime che altri attori avrebbero adottato.
Intorno a lui si muove un cast orchestrato alla perfezione da una sceneggiatura a orologeria, che a volte indulge eccessivamente momenti patetici ma racconta la trama con ritmo ed efficacia.

The Imitation Game non è un film visionario nè un film che passerà alla storia del cinema. E' però un film onesto, rigoroso e avvincente, che racconta con sincerità e un pizzico di humor british la solitudine che deriva dalla grandezza e dall'essere eccezionalmente anormali.

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Pier

venerdì 23 gennaio 2015

Whiplash

Quite a perfect tempo



Andrew studia batteria jazz nella più prestigiosa scuola di musica del paese. Sogna di diventare una leggenda, come Charlie Parker, e si esercita per ore per raggiungere il suo sogno. Finalmente riesce a entrare nella band di punta della scuola, diretta dal famoso quanto temuto Terence Fletcher. Dopo un inizio apparentemente positivo, Andrew scopre sulla sua pelle la tirannica natura di Fletcher, che lo spingerà fino allo stremo della sua resistenza fisica e mentale.

La trama di Whiplash non brilla certo per originalità: il giovane talento, l'insegnate esigente ai limiti della violenza psicologica, la sofferenza, le difficoltà di comunicazione. Il film dimostra, tuttavia, come anche il tema più abusato possa essere rielaborato in modo originale e avvincente quando si ha qualcosa da dire e si sa come dirlo. Whiplash è un piccolo capolavoro all'interno del panorama indipendente statunitense, un film "da Sundance" - sceneggiatura solida e ben scritta, attori perfetti - che esibisce una regia innovativa, interessante e pressoché perfetta. Damien Chazelle dirige il suo film con un'unicità d'intenti unica e ammirabile, facendo suonare all'unisono i vari elementi del film come un direttore d'orchestra.  

Whiplash ha il ritmo frenetico e serrato di un'improvvisazione jazz, un uptempo continuo che non lascia un attimo di respiro né a chi suona né a chi assiste, un flusso continuo in cui alcuni temi ripetuti, sia a livello visivo (le ferite sulle mani di Andrew) che verbale (il "Not quite my tempo" con cui Fletcher tormenta Andrew), si alternano a inquadrature uniche, non convenzionali, deviazioni dallo spartito che vi si integrano però alla perfezione grazie alla bravura degli esecutori. Il montaggio e la fotografia si fondono alla perfezione, e supportano una sceneggiatura solida, portatrice di idee e umorismo non banali. La colonna sonora assurge al ruolo di protagonista, con la batteria che scandisce praticamente ogni momento del film, con virtuosismi ed espressività che solitamente non vengono associate a questo strumento.
Il giovane Miles Teller dona corpo e anima al protagonista, impegnato nella lotta per il proprio futuro e la propria affermazione contro il tirannico Fletcher, interpretato da un magnifico J.K. Simmons, giustamente nominato all'Oscar.

Tutti questi elementi sono sapientemente amalgamati dal regista, che realizza un film intenso ed emotivamente avvincente, con un ritmo perfetto e incalzante, che non dà un attimo di respiro e fa tenere gli occhi incollati allo schermo. Whiplash è un piccolo gioiello di musica, ritmo, immagini e parole: non perdetelo.

**** 1/2

Pier


venerdì 16 gennaio 2015

Hungry Hearts

Quando l'emozione è SciAlba



Mina e Jude sono due giovani che si incontrano per caso a New York. Lei italiana, lui statunitense, cominciano a frequentarsi, si innamorano, si sposano, hanno un figlio. Proprio con la nascita del bambino iniziano i problemi: Mina è ossessionata dal mantenere il figlio "puro", e per questo non lo fa uscire di casa e non lo nutre in maniera appropriata. Quando Jude si rende conto che il figlio è a serio rischio di malnutrizione inizia a dargli da mangiare di nascosto e a portarlo da un medico. Mina lo scopre, e lo scontro tra i coniugi esplode, divenendo sempre più aspro.

Non fatevi ingannare dalla doppia Coppa Volpi: Hungry Hearts è un film che ha il suo punto debole nella sceneggiatura e nella recitazione della protagonista, mentre - come sempre nei film di Costanzo - convince per la buona realizzazione a livello visivo, con una fotografia ispirata e a tratti hitchcockiana e un montaggio molto interessante.
Peccato per il resto: la sceneggiatura è scadente, soprattutto nella costruzione del personaggio femminile, che passa dall'essere più o meno normale a comportarsi come una pazza lunatica nel giro di due scene. La trama è debole e mal costruita, soprattutto nella prima metà, quando il film vorrebbe raccontare la parte serena del matrimonio di Mina e Jude. La pellicola si apre con una scena a tema scatologico che starebbe bene in un cinepanettone, e prosegue con una love story da operetta che, fino alla nascita del figlio, è meno appassionante di un film delle vacanze.

Nella seconda parte la tensione cresce e il film acquista in ritmo, ma cominciano i problemi di recitazione. La parte della madre è affidata a (Sci)Alba Rohrwacher, come tutti i ruoli di donne disturbate negli ultimi cinque anni di cinema italiano, che offre una prova monocorde, con un viso sempre in bilico tra pianto e disprezzo, anche quando il copione non lo richiede. Voi vi chiederete: "E perché allora le hanno dato la Coppa Volpi a Venezia?" La risposta è semplice: i giurati non l'hanno mai vista, e hanno pensato che questa prova non fosse l'esatta replica di (quasi) tutte quelle precedenti;  inoltre quest'anno a Venezia c'erano solo tre film in concorso con protagoniste femminili, e la competizione non era quindi esattamente agguerrita. La recitazione della Rohrwcher affossa anche il messaggio del film sull' "amore eccessivo": il personaggio di Mina è troppo estremo, troppo sopra le righe perché si possa empatizzare con lei, perché si possa capire che la sua follia deriva da un forte amore per il figlio. La sua follia risulta solo follia, il delirio di una psicotica senza motivazioni reali né umanità. Un peccato, questo, perché l'obiettivo del film era ben altro.
La pellicola si regge quindi sulle spalle di Adam Driver, per cui passare dal set di Scorsese o del nuovo Star Wars a lavorare con la Rohrwacher deve essere stato un trauma non da poco. Driver è intenso senza essere eccessivo, naturale senza essere banale, e regala una prova commovente e vera, che fa sì che lo spettatore parteggi ancora di più per il suo personaggio.

Hungry Hearts è un film scialbo come la sua protagonista, che non emoziona e non coinvolge, se non nei momenti in cui Jude si ribella e manda a quel paese la moglie. L'unico pregio è quello di far vedere la follia cui può portare il fanatismo legato al cibo. Un film da far vedere ai vostri amici e conoscenti vegani quando vi guardano con aria critica mentre addentate una bistecca, ma purtroppo non la riflessione sull'amore genitoriale e sulla nutrizione che voleva essere.

**

Pier

domenica 4 gennaio 2015

Big Hero 6

Curare il cuore con il divertimento



Hiro Hamada è un piccolo genio con la passione per i robot. Con le sue creazioni vince regolarmente i bot fight che si tengono clandenstinamente nei vicoli di San Fransokyo, immaginaria città che fonde le due anime del Pacifico. Una sera Hiro sta per cadere preda delle ire di uno sconfitto, ma viene salvato dal fratello Tamada, con cui è cresciuto dopo la morte dei genitori. Il fratello lo porta a visitare l'istituto di ricerca universitario sulla robotica per cui lavora. Tamada presenta a Hiro i suoi colleghi, strambi ma simpatici, e la sua ultima creazione, Baymax, un robot infermiere gonfiabile, tondo e gioviale. In seguito a questa visita, Hiro decide di provare a entrare all'università, e per farlo partecipa alla fiera dell'innovazione con un'invenzione rivoluzionaria. Non tutto va però per il verso giusto, e Hiro si ritroverà ad affrontare una minaccia misteriosa con l'aiutante più improbabile cui potesse pensare.

La Disney per la prima volta non adatta una celebre fiaba, ma un fumetto Marvel, che mantiene però molti degli stilemi propri dei classici disneyani: un ragazzo orfano e pieno di risorse; degli amici strambi ma generosi; e un nemico misterioso ma legato al passato del protagonista. Il risultato è un film d'animazione moderno, vivace e coinvolgente, con una trama abbastanza originale da essere godibile e dei personaggi ben costruiti e convincenti. Se Hiro commuove e coinvolge per la sua naturalezza e umanità, a rubare la scena è però il robot Baymax, che entra di diritto tra le spalle comiche più memorabili della storia dell'animazione statunitense. Baymax unisce un'eccezionale comicità fisica a una dolcezza e un'innocenza uniche, che lo rendono simile ai grandi personaggi del cinema muto, da Charlot a Buster Keaton.

Big Hero 6 conquista soprattutto quando parla di sentimenti, di amicizia e della necessità di non tradire la propria natura. I combattimenti e gli inseguimenti, pur visivamente eccellenti, sono solo un riempitivo all'interno di una storia che fin dalle prime scene decide di fare dei rapporti umani (e robotici) il suo centro narrativo ed emotivo, e vince in pieno la scommessa. Nel finale ci si commuove, e non è poco: una bella sorpresa di Natale.

*** 1/2

Pier

PS: cara Disney Italia, c'era proprio bisogno di commissionare una canzone all'illustre sconosciuto Moreno? Il risultato è un prodotto ai limiti dell'imbarazzante, con rime da prima elementare e ritmi osceni. La prossima volta evitiamo, grazie.
Per i forti di stomaco, qui trovate il video della "canzone".

venerdì 2 gennaio 2015

American Sniper

Un western contemporaneo



Chris Kyle è un cowboy texano, che compete nei rodeo per vivere. Colpito dagli attentati contro le sedi diplomatiche USA in Tanzania e Kenya, nel 1999 si arruola nei Navy Seals, dove viene addestrato come cecchino. Nel 2003 viene dislocato in Iraq, dove diviene il cecchino più letale della storia dell'esercito statunitense, nonché una leggenda tra i suoi pari. La sua precisione sul campo di battaglia non è però senza prezzo, e anche quando torna da moglie e figli Chris trova sempre più difficile staccare la mente dalla guerra e dal cecchino "rivale", Mustafa, letale quanto e più di lui.

Dopo le escursioni nei territori inesplorati dello sport, del soprannaturale e del musical, Clint Eastwood torna a girare un film nelle sue corde, la biografia di un eroe di guerra raccontata con i toni di un western contemporaneo, in cui il nemico è un tiratore tanto formidabile quanto sfuggente, e l'esito dello scontro non può che essere deciso da un duello tra i due cecchini. Eastwood sceglie una regia veloce, asciutta e incisiva, che lascia poco spazio a patetismi e momenti che dovrebbero suscitare la lacrima in chi guarda. Il film diviene così una cronaca di guerra, un crudo racconto dei fatti in cui lo spettatore non viene chiamato a immedesimarsi, ma a guardare dall'esterno, osservatore silenzioso di una lotta tra bene e male in cui il confine tra i due diviene sempre meno definito.
Eastwood non risparmia scene molto crude, con bambini che vengono uccisi e torturati dalle due opposte fazioni, e maschera sotto un apparente patriottismo uno scetticismo generalizzato per una guerra al terrorismo che ha riportato l'orologio ai tempi della conquista della frontiera, in cui non esistono campi di battaglia, e si combatte tra le strade, nelle case, in un deserto di sabbia che può divenire da un momento all'altro un'arma in grado di distruggere le parti in gioco. L'influenza dei film di Leone è evidente, e in alcune scene diviene addirittura esplicita, grazie anche a una fotografia che esalta la luce accecante e l'atmosfera soffocante del deserto.

La velocità con cui si sviluppa la trama risulta a volte eccessiva, ma riflette l'interesse del regista non per la storia, ma per il suo protagonista, di cui indaga ogni cambiamento con precisione certosina. Bradley Cooper offre una prova sontuosa, uno studio del personaggio di altissimo livello che riesce a trasmettere il vuoto che cresce in Chris Kyle man mano che il numero delle sue vittime cresce, alimentando la sua fama e la sua leggenda. Eastwood supporta la sua prova con intensi e continui primi piani, accompagnati da silenzi gravidi di emozioni, sensazioni, cambi d'umore repentini come l'arrivo di una tempesta di sabbia.

American Sniper non raggiunge le vette emotive di altri film di Eastwood, ma non lo fa per una precisa scelta registica di raccontare la guerra in Iraq attraverso gli occhi di un uomo che ritiene di essere nel giusto, ma che vede le sue certezze divenire sempre più fragili, una maschera che indossa di fronte al mondo, destinata a crollare con il passare del tempo. Il film è forte, intenso nella sua studiata freddezza, il racconto atipico di una guerra tanto atipica da avere ancora bisogno di pistoleri infallibili e duelli sotto il sole rovente del mezzogiorno.

*** 1/2

Pier