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mercoledì 29 dicembre 2021

Don't Look Up

L'onestà è lodata ma muore di freddo


Kate Dibiasky, dottoranda in astrofisica presso l'Università del Michigan, scopre una gigantesca cometa in rotta di collisione con la Terra: l'impatto provocherà l'estinzione del genere umano. Insieme al suo docente, il Dr. Mindy, cerca di avvertire le autorità: nonostante ricevano l'attenzione del Dr. Oglethorpe, responsabile del Planetary Defense Coordination Office, vengono ignorati dalla Presidente degli Stati Uniti e dal suo staff. Si rivolgono allora alla stampa e alla televisione: è l'inizio di un immenso circo mediatico che trasformerà la salvezza dell'umanità nell'ennesimo dibattito da social media, tra sondaggi di gradimento, tweet, e sedicenti esperti da salotto tv.

Dopo la politica shakespeariana di Vice e la satira economica de La grande scommessa, Adam McKay torna alla regia con quello che potrebbe essere visto come una summa del suo cinema, il punto di incontro tra Anchorman e i due film sopracitati: una satira a tutto tondo della società americana, a partire dal suo sistema mediatico fatto di eroi, personaggi, cicli di notizie, in cui non conta cosa si dice, ma come lo si dice e, soprattutto, chi lo dice. Una società dell'apparenza che fa sì che anche la fine del mondo diventi solo una storia come tante, fatta di opportunismo, avidità, protagonismo esasperato. Il sistema mediatico si interseca in un abbraccio mortale con quello politico, dando vita a una tempesta perfetta con una sola vittima: la verità.

Il film sembrerebbe estremizzare la divisione tra "noi" e "loro", con i conservatori e i capitalisti dipinti come personaggi da operetta, dei "cattivi" tanto ridicoli quanto letali, e gli scienziati a fare la parte dei buoni. In superficie, questo è indubbiamente vero: i politici e i giornalisti che vediamo nel film sono delle macchiette, dei tipi più che dei personaggi, caricaturizzati al punto di perdere qualunque credibilità (con qualche eccezione, vedi la scena finale del personaggio di Jonah Hill - un momento in cui la maschera cade e rimane la persona, sola, su un palcoscenico deserto). Gli scienziati, dall'altra parte, sono invece dei personaggi a tutto tondo: conosciamo le loro famiglie, la loro vita privata, le loro nevrosi e il loro passato. 

Tuttavia, uno sguardo più approfondito rivela che McKay non guarda in faccia  a nessuno, e che anche gli scienziati vengono travolti dagli strali della sua satira. Alcuni (il personaggio di Di Caprio) sono convinti di fare del bene, ma non si accorgono (o decidono di ignorare) che la loro partecipazione al circo mediatico non fa altro che contribuire allo svilimento della scienza, ridotta a puro elemento di spettacolo, fatta di personaggi, storie, pettegolezzi - qualcosa di più affine al gossip delle celebrità o al wrestling che al metodo scientifico: un'opinione come tutte le altre. Altri (il personaggio della Lawrence, lo stesso Di Caprio in alcune fasi) dimostrano una totale incapacità - o, forse, volontà - di comunicare correttamente con il pubblico, di instaurare un dialogo fatto di ascolto e di comprensione delle perplessità: questa è la scienza che si chiude nella sua torre d'avorio, ritenendo che l'ascolto da parte dei potenti e del pubblico sia un atto dovuto, un dialogo dall'alto al basso dove lo scienziato spiega, e il pubblico ascolta, come uno studente giudizioso. 


McKay non guarda a questi atteggiamenti con simpatia, come piccoli difetti che rendono più umani i suoi protagonisti, ma come parte integrante del problema: approcci, come ormai sappiamo, destinati al fallimento, e correi del crescente pensiero antiscientifico in molti strati della popolazione. Ce ne è anche per le celebrità: impossibile non vedere nel personaggio interpretato da Ariana Grande una critica, nemmeno troppo bonaria, a quelle star convinte che basti agire da megafono per diffondere il messaggio scientifico, quando invece, spesso, contribuiscono solo al suo ulteriore svilimento. 
Solo una categoria sociale non diviene mai il bersaglio della satira di McKay: il pubblico, la gente comune, che non viene derisa, come ad esempio in Idiocracy, ma presentata come la tragica vittima di una commedia in cui altri ridono sguaiatamente di lei. Don't look up rispetta alla perfezione la regola d'oro della satira fin dai tempi di Giovenale: attaccare chi comanda, non i comandati (punch up, not down, dicono gli anglosassoni).

La sceneggiatura ha momenti brillanti e geniali, ma rallenta troppo nella parte centrale e diventa eccessivamente partigiana nel finale, dopo aver mantenuto un ammirevole equilibrio per gran parte del film: se è indubbiamente vero, infatti, che una parte politica è più propensa a certi atteggiamenti antiscientifici, è anche vero che la sua identificazione così smaccata depotenzia la forza sovversiva della satira erga omnes che caratterizza il resto del film.

Il montaggio ha il ritmo che manca a tratti alla sceneggiatura, e fa sì che il film rimanga comunque sempre godibile e scorrevole. La fotografia predilige i primi piani, concentrandosi sulle espressioni esasperate, sulle maschere grottesche dei protagonisti, e perdendosi raramente nelle profondità del cosmo. Una scelta, questa, che sembra il contraltare visivo della scelta di parte dell'umanità di ignorare la cometa: lo sguardo della macchina da presa rimane fisso a terra esattamente come quello dei protagonisti. Questa concentrazione sull'umano, sulle emozioni esalta anche la splendida prova corale di un cast in stato di grazia, capitanato da Di Caprio (splendido il suo scienziato in bilico tra etica, nevrosi e narcisismo) e Jennifer Lawrence, con Jonah Hill a fare la parte del leone tra i personaggi secondari.

Don't look up è una diagnosi amara dei nostri tempi e della crisi profonda che attraversa il pensiero scientifico, attaccato da nemici interni ed esterni. La satira, tuttavia, è meno efficace che ne La grande scommessa a causa di una sceneggiatura meno riuscita e della scelta di diagnosticare una malattia senza però scavare a fondo nei sintomi né, soprattutto, prescrivere una cura: al termine della visione si ha una chiara percezione del macro-problema e delle sue cause apparenti, ma poche idee sulle cause profonde dello stesso, e nessuna su come sistemare le cose. Forse, per McKay, è troppo tardi: ma dare spazio a coloro che una soluzione ancora la stanno cercando avrebbe potuto arricchire il film anziché farlo scivolare in un brillante, sferzante, ma rassegnato pessimismo.

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Pier

martedì 3 settembre 2019

Telegrammi da Venezia 2019 - #3

Terzo telegramma da Venezia 2019: continuano i film che guardano allo ieri per parlare dell'oggi, ma ci si addentra anche nella quodianità e nel feuilleton d'autore.


Giants being lonely (Orizzonti), voto 8. Splendido esordio alla regia per l'artista Grear Patterson, che racconta con originalità e piglio autoriale un tema abusato come quello della fine dell'adolescenza, immergendo i suoi protagonisti in un'atmosfera fuori dal tempo e quasi onirica, in cui l'estate sembra non dover finire mai. Bravi i giovani attori protagonisti, tutti convincenti e veri.

The laundromat (Concorso), voto 6.5. Soderbergh racconta lo scandalo dei Panama Papers, e lo fa usando le tecniche popolarizzate da Adam McKay con La grande scommessa: spiegazioni tecniche semplificate e spettacolarizzate, frequente rottura della quarta parete, molteplici punti di vista. Soderbergh aggiunge però il suo tocco creativo sia nell'umorismo, sia nella scelta vincente di far raccontare il tutto, quasi fosse una favola, a Mossack e Fonseca, i due fondatori dell'omonimo studio legale al centro dello scandalo. Gary Oldman e Antonio Banderas brillano nei ruoli, e soprattutto constringono lo spettatore a porse una domanda scomoda ma fondamentale: se chi ha aiutato a nascondere i soldi viene condannato, come è possibile che chi ha fornito i soldi la faccia franca? Il tema viene ripreso anche nel finale, molto potente anche se forse un po' didascalico.

Jeedar el sot (All this victory) (Settimana della Critica), voto 7.5. Durante una delle tante guerre tra Libano e Israele (quella del 2006), un gruppo di libanesi sconosciuti, per la maggior parte anziani, si rifugia in un appartamento. Rimangono però bloccati quando dei soldati israeliani occupano l'appartamento soprastante. Nonostante la terribile serietà della tematica e delle situazioni raccontate, il film sorprende con alcuni momenti conviviali e umoristici, inseriti in modo armonico in mezzo a quelli più tesi. La commistione di toni è riuscitissima, e contribuisce alla creazione di un racconto vero ed emozionante della guerra dal punto di vista delle vittime civili, mostrando come una convivenza forzata possa trasformarsi in un legame profondo.

No 7 Cherry Lane (Concorso), voto 7.5. Un film d'animazione poco convenzionale, in cui numerosi stili si mischiano e ogni movimento è lento, calcolato, trascinato, quasi ci trovassimo in un sogno. Il film si muove continuamente tra la dimensione onirica e la realtà, e ne sovrappone i confini fino a confonderli: la Hong Kong del film non è reale, è quella conservata nel ricordo e nella nostalgia, esattamente come gli amori di madre e figlia per il giovane protagonista, novello Laureato che conquista i loro cuori con poche parole ma una grande passione per il cinema. Il film è visivamente splendido, ed è un peccato che venga a tratti rovinato da una computer grafica inaccettabile nel 2019 e da un'animazione anti-realistica che finisce per depotenziarne i momenti più emozionati. Resta comunque un'opera originale e riuscita, con cui Yonfan scrive la sua lettera d'amore per la sua città e per un'epoca che non esiste più.

American Skin (Sconfini), voto 3. C'è davvero poco da salvare in questo film di Nate Parker, che cerca di raccontare l'enorme problema delle violenze della polizia sugli afroamericani, ma riesce solo a realizzare un polpettone intriso di retorica e privo di qualunque incisività: sul tema dice di più Steve McQueen in Widows con cinque minuti di film che tutto il lungometraggio. Parker escogita un espediente narrativo poco realistico ma molto ingegnoso per mettere a confronto e costringere al dialogo polizia e vittime, ma lo vanifica sia con la totale mancanza di realismo (carcerati dal ghetto e adolescenti che parlano come un saggio di sociologia), sia con l'assurda scelta di rendere il film un mockumentary, totalmente insensata vista l'implausibilità della premessa che sceglie di utilizzare. La morale del film - ci sono colpe da ambo le parti, e basterebbe un po' più di dialogo - è non solo poco originale, ma anche disgustosa nei confronti delle vittime, e non basta un finale "forte" a salvare novanta minuti di sproloqui retorici.

Martin Eden (Concorso), voto 7. Non fidatevi dei magnificat  e dei peana dei giornalisti "cartacei" italiani, un po' troppo partigiani (o troppo severi: nessuna via di mezzo) con i prodotti cinematografici nostrani. Martin Eden non è un capolavoro, ma è comunque un film ben sopra la media del nostro cinema, realizzato con ottima visione registica da Pietro Marcello. La prima metà è splendida, con una fotografia luminosa e sognante e un Marinelli perfetto nei panni di Martin che scopre i piaceri della letteratura, dell'amore, e della vita. La seconda, tuttavia, si perde in inutili sproloqui pseudo intellettuali e politici, che finiscono per fagocitare il pur bravo Marinelli in una serie di sussurri e grida che ne appiattiscono l'interpretazione. Un vero peccato, ma il film resta comunque un ottimo, per quanto inusuale, adattamento dell'omonimo romanzo di Jack London, che funziona finché riesce a mantenere il suo protagonista al centro della scena, ed esce di strada quando lo sacrifica sull'altare del Messaggio.

Simone

martedì 13 febbraio 2018

The post

Bello senz'anima

 


1971, USA: Daniel Ellsberg, economista che lavora per un'agenzia al soldo del Pentagono, trafuga e diffonde delle copie di un rapporto segreto che dimostra come il governo USA sotto quattro presidenti diversi sapesse dell'impossibilità di vincere la guerra in Vietnam, e ciononostante non abbia ritirato le truppe. Il primo a divulgare i documenti è il New York Times, che però riceve un'ingiunzione della Corte Suprema che, sollecitata dal governo Nixon, impone il blocco della pubblicazione. A questo punto i documenti arrivano in mano ai giornalisti del Washington Post, mettendo l'editore, Katharine Graham, e il suo direttore, Ben Bradlee: pubblicare e rischiare a loro volta il blocco della pubblicazione e un possibile disastro finanziario, o non pubblicare e venire meno alla loro missione di divulgatori della verità.

Il tema della libertà di stampa è quantomai centrale di questi tempi, in cui tra bufale, attacchi frontali del potere costituito, e un oggettivo scadimento del livello qualitativo medio il giornalismo tradizionale arranca e fatica ad assolvere la sua funzione di pungolo dei governanti e servitore dei governati. Un film come The Post arriva quindi con perfetto tempismo. La vicenda narrata è quantomai bipartisan, dato che tocca presidenti di diversi schieramenti ed epoche, ed è raccontata con un ritmo serrato e una narrazione prevalentemente in interni, dove seguiamo le attività giornaliere di una redazione esemplare e il loro costante lavorio alla ricerca della verità. Al tema della libertà di stampa si aggiunge quello dell'emancipazione femminile, affrontato attraverso la figura di Katharine Graham: trovatasi quasi per caso a essere l'editore del Washington Post, Graham è circondata da uomini che le dicono cosa deve e non deve fare, cosa può e non può permettersi. La sua scelta, libera e consapevole, arriva quasi come un urlo liberatorio, una dichiarazione di intenti che rivela un carattere deciso sotto l'apparenza di donna mite e festaiola della protagonista.

Sia Katharine Graham che Ben Bradlee sono interpretati alla perfezione da due mostri sacri come Meryl Streep, ancora una volta meritatamente candidata all'Oscar, e Tom Hanks. Accanto a loro brillano dei comprimari d'eccezione, dal Bob Odenkirk di Breaking Bad e Better Call Saul al Bradley Whitford di The West Wing, che danno vita a una redazione e a un gruppo editoriale quantomai sfaccettato e, proprio per questo, vero e credibile.

Il film ha il merito di non scadere in eccessi di retorica, ma osa pochissimo e sembra sedersi sugli allori, crogiolarsi nella certezza di avere tutti gli elementi per poter realizzare un bel film. Spielberg si accontenta di mettere in scena anziché esplorare, scavare, indagare; di usare i suoi fenomenali attori per trasmettere i personaggi, senza preoccuparsi di esplorarli a fondo. Il risultato è un film godibile ma comunque superficiale che, cosa strana per un film di Spielberg, non riesce davvero a coinvolgere né a emozionare, come invece riescono a fare capolavori del genere "giornalistico" come Tutti gli uomini del Presidente o il più recente Il caso Spotlight. Ci si ritrova a tifare per i protagonisti quasi per inerzia, senza un reale coinvolgimento né interesse per le loro vicende, con la parziale eccezione del personaggio della Graham, ma piùper merito di Meryl Streep che di regia e sceneggiatura.

The Post risulta quindi un film solido, ben realizzato e interpretato magistralmente, ma superficiale; un compitino che racconta la sua storia con efficienza ma senza efficacia, e ha quindi un impatto di gran lunga inferiore a quello che avrebbe potuto avere. Non rimarrà di certo nella storia del cinema sul giornalismo, né resterà a lungo nella memoria dello spettatore.

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Pier

martedì 10 gennaio 2017

Florence (In pillole #7)

La grazia dello strazio



Florence Foster Jenkins è una ricca ereditiera di New York degli anni Cinquanta con la passione per la musica classica. Oltre a finanziare generosamente molte attività musicali, Florence ama anche cantare in prima persona, esibendosi per parenti e conoscenti. C'è un solo problema: è stonatissima, ma nessuno ha mai avuto il coraggio di dirglielo.

Il nuovo film di Stephen Frears racconta con il consueto mix di grazia e malinconia la storia vera di Florence Foster Jenkins, flagello delle arie musicali più amate (qui potete "godervi" la sua versione di Der Hölle Rache, dal Flauto Magico di Mozart). Il personaggio di Florence viene raccontato con grande dolcezza, rivelando la tragedia che ha segnato la sua vita e dando spessore a una figura spesso dipinta in maniera macchiettistica.
Il film è leggero, con poche pretese, senza dubbio lontano dai capolavori di Frears per intensità emotiva, ma nondimeno molto godibile, grazie soprattutto alle straordinarie prove dei protagonisti: Meryl Streep, che meriterebbe l'ennesimo Oscar per il suo perfetto mix di adorabile ingenuità e sicurezza di sé, oltre che per la difficilissima prova canora; Simon Helberg, l'occhio del pubblico sulla vicenda, perfetto nella parte dello spaesato pianista assunto per accompagnare la straziante Florence; ma soprattutto Hugh Grant, mai così bravo e poliedrico, capace di restituire alla perfezione una figura emotivamente complessa come quella di St. Clair Bayfield, quasi marito e manager ddie Florence.

Le loro prove, insieme all'ottima ricostruzione dell'epoca e ad alcune brillanti scene di dialogo, rendono il film comunque meritevole di essere visto.


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Pier

domenica 22 febbraio 2015

Oscar 2015 - I pronostici



Sul filo di lana, a poche ore dall'inizio della cerimonia, ecco i pronostici di Filmora per gli Academy Awards di stanotte. Visto il poco tempo, ci focalizzeremo solo sui premi principali.
Quest'anno pronostico difficile, vista l'altissima qualità di alcuni dei concorrenti.

Come sempre, oltre al pronostico, anche la mia scelta personale.



Miglior montaggio
Il vincitore non può che essere Tom Cross per Whiplash, un capolavoro di intensità e ritmo, con una continua alternanza di temi e controtemi, improvvisazioni e ripetizioni, come fosse una jam session jazz.
Pronostico: Whiplash
Scelta personale: Whiplash

Miglior fotografia
Una delle sezioni in cui la scelta è più dura: Ida, Birdman, Grand Budapest Hotel, tutti meriterebbero la statuetta. Robert Yeoman (Birdman) sembra favorito, ma la mia scelta personale va a Emmanuel Lubezki, autore delle splendide immagini di quel gioellino che è Grand Budapest Hotel.
Pronostico: Birdman
Scelta personale: Grand Budapest Hotel

Miglior film d'animazione
Sezione dove sono arrivate due nomination a sorpresa, per Song of the sea e The tale of princess Kaguya, e l'esclusione inaspettata di Lego Movie. I favoriti sembrano essere Big Hero 6 e How to train your dragon 2. Penso che alla fine la spunterà il primo, che riscuote anche il mio favore personale.
Pronostico: Big Hero 6 
Scelta personale: Big Hero 6

Miglior attore non protagonista
J.K. Simmons, who else? Mark Ruffalo è strepitoso in Foxcatcher, Norton incanta in Birdman, ma qui non può che vincere il dispotico insegnante di Whiplash.
Pronostico: J.K. Simmons 
Scelta personale: J.K. Simmons

Miglior attrice non protagonista
Patricia Arquette (Boyhood) è strafavorita, ma io non posso esimermi dal dare la mia preferenza all'eterna Meryl Streep (Into the Woods), che conquisterebbe così il suo quarto Oscar e pareggerebbe il conto con Katherine Hepburn.
Pronostico: Patricia Arquette 
Scelta personale: Meryl Streep

Miglior sceneggiatura originale
Il favorito sembra essere Birdman, che però proprio nella storia ha forse il punto meno forte. La mia scelta personale ricade quindi su Foxcatcher, un film che suscita emozioni continue proprio grazie alla perfezione della scrittura.
Pronostico: Birdman
Scelta personale: Foxcatcher

Miglior sceneggiatura non originale
Rimpiango di non aver visto Inherent Vice di Paul Thomas Anderson, che quindi non posso includere nei pronostici. Tra quelli che ho visto premierei Damien Chazelle per Whiplash, per l'abilità con cui ha trasformato una storia già vista mille volte in un film emozionante e avvincente. Rischia di vincere, anche per la sua natura di film indie.
Pronostico: Whiplash
Scelta personale: Whiplash

Miglior attore protagonista
Strafavorito Eddie Redmayne (La teoria del tutto), che ha vinto ogni premio possibile e, soprattutto, lo Screen Actors Guild Award: fino ad oggi, solo cinque volte è successo che il vincitore di questo premio non si aggiudicasse poi l'Oscar. Il mio preferito, dopo un lungo travaglio interiore, è invece Michael Keaton per Birdman, con Benedict Cumberbatch appena dietro per la sua interpretazione di Alan Turing in The imitation game.
Pronostico: Eddie Redmayne
Scelta personale: Michael Keaton

Miglior attrice protagonista
Strafavorita Julianne Moore che, nonostante non abbia visto Still Alice, si aggiudica anche la mia preferenza personale. Così, sulla fiducia.
Pronostico: Julianne Moore

Scelta personale: Julianne Moore


Miglior regia
Altra sezione dove la competizione è altissima: si potrebbe premiare l'unicità della scelta di Linklater in Boyhood, la visionarietà di Inarritu per Birdman, la perfezione di immagini, personaggi e dialoghi di Wes Anderson per Grand Budapest Hotel. Penso che il favorito sia Linklater, mentre Anderson si aggiudica la mia scelta personale, anche per risarcirlo dei tanti anni in cui è stato ingiustamente ingnorato.
Pronostico: Richard Linklater
Scelta personale: Wes Anderson

Miglior film
Altra scelta estremamente difficile. Per me il film migliore dell'anno è Birdman, e penso che, alla fine, anche l'Academy andrà in questa direzione, premiando la capacità di Inarritu di unire spettacolo e autorialità.
Pronostico: Birdman
Scelta personale: Birdman

"No suit? Loser."
E' tutto, ci risentiamo dopo la cerimonia per i bilanci. Di una cosa possiamo essere sicuri: it's gonna be legen... (wait for it).



Pier

domenica 2 marzo 2014

Oscar 2014: I Pronostici - Parte Seconda

La seconda parte dei pronostici sugli Oscar in programma questa notte.


Miglior attrice non protagonista
Diciamoci la verità: quest'anno il livello di questa sezione è abbastanza basso. Nessuna performance memorabile, salvo forse quella di June Squibb (Nebraska), perfetta per come unisce cinismo e dolcezza. La favorita è sicuramente Lupita Nyong'o per 12 Anni Schiavo, in cui presta la voce e soprattutto il corpo a una schiava che riesce a mantenere la sua dignità nonostante le umiliazioni. Detto della Squibb, la mia interpretazione preferita è probabilmente quella di Julia Roberts in August: Osage County, anche se Jennifer Lawrence ha offerto una prova comica di altissimo livello in American Hustle.
Pronostico: Lupita Nyong'o
Scelta personale: June Squibb

Miglior attore non protagonista
Vero, Michael Fassbender è intenso e ferino nella parte del crudele schiavista di 12 anni schiavo; e Jonah Hill è esilarante e dissacrante nella sua prova in The Wolf of Wall Street. Tuttavia, la sfida per questo Oscar sembra già decisa in favore di Jared Leto: raramente si è vista una prova di tale misura e intensità in un ruolo che rischiava fortemente di diventare macchiettistico. La sua interpretazione del travestito Rayon in Dallas Buyers Club è di quelle che lasciano il segno, e la scena del dialogo con il padre è forse il momento più commovente e vero visto al cinema quest'anno.

Pronostico: Jared Leto
Scelta personale: Jared Leto



Miglior attrice protagonista
Faccio una premessa: Meryl Streep dovrebbe vincere l'Oscar a ogni nomination. Anche in August: Osage County la sua interpretazione è da manuale di recitazione. Tuttavia, quest'anno la concorrenza è molto agguerrita, e Meryl non gode nè del favore del pronostico (ormai è abituata, avendo il più alto numero di nomination ma non quello di Oscar vinti) nè della mia preferenza. La favorita sembra essere Amy Adams per American Hustle, che ha persino ricevuto l'endorsement della diva Meryl. Tuttavia, la mia preferenza personale cade su Cate Blanchett, semplicemente perfetta in Blue Jasmine, in cui offre forse la miglior prova della sua già eccezionale carriera. Appena dietro di lei si piazza la Judi Dench di Philomena, misurata e intensa come solo le grandi attrici teatrali inglesi sanno essere.
Pronostico: Amy Adams
Scelta personale: Cate Blanchett

Miglior attore protagonista
Ecco, qui mi scende un po' la lacrimuccia, perchè chiunque abbia visto The Wolf of Wall Street sa che mai come quest'anno Leonardo di Caprio meriterebbe l'Oscar. La sua performance è semplicemente stellare, un mix di registri così disparati che sembra impossibile che un unico attore riesca a restituirli efficacemente. E, dato che parliamo dell'attore più bistrattato dall'Academy negli ultimi quindici anni, la sua vittoria dovrebbe essere scontata, giusto? Sbagliato. Perchè quest'anno il pronostico è tutto a favore di Matthew McConaughey, la cui prova in Dallas Buyers Club ha già stregato sia i giurati del Golden Globe che quelli dello Screen Actors Guild Awards.Chiariamoci, McConaughey è bravissimo e si stramerita la vittoria, anche per come è riuscito a rilanciarsi come attore impegnato. La domanda però a questo punto diventa: se non vince nemmeno quest'anno, quando potrà vincere il povero Leo?
Pronostico: Matthew McConaughey
Scelta personale: Leonardo Di Caprio

"Per favore, almeno quest'anno..."

Miglior regia
Se all'Academy ragionassero cum grano salis, la vittoria in questa sezione non dovrebbe nemmeno essere quotata. Alfonso Cuaròn in Gravity ha semplicemente rivoluzionato il modo di fare cinema, di fantascienza e non solo. Raramente un regista è riuscito a fondere in modo così perfetto i vari elementi di un film, creando un'opera magniloquente e un'esperienza indimenticabile per lo spettatore. Leggo invece che il favorito dovrebbe essere David O. Russell per American Hustle, ma voglio credere all'intelligenza dell'Academy, per una volta, quindi dico Cuaròn anche per il pronostico.
Pronostico: Alfonso Cuaròn
Scelta personale: Alfonso Cuaròn

Miglior film

Eccoci finalmente alla categoria più attesa. La competizione è molto alta, ma il favorito sembra essere 12 Anni Schiavo, che ha incantato pubblico e critica d'oltreoceano. Per quanto riguarda la mia scelta personale, devo dire che sono rimasto indeciso fino all'ultimo tra la critica sociale e il comico cinismo di The Wolf of Wall Street e l'intensità emotiva e interpretativa di Dallas Buyers Club. Alla fine ho scelto il secondo, ma la differenza è veramente minima.
Pronostico: 12 Anni Schiavo
Scelta personale: Dallas Buyers Club

Direi che è tutto! Buoni Oscar, e spendete anche voi una lacrimuccia per Leo quando per l'ennesima volta non salirà quegli scalini.

Pier 

domenica 26 febbraio 2012

Oscar 2012: i pronostici - Seconda parte

Si continua!

Miglior attrice non protagonista
Non ho visto tutti i film, ma Jessica Chastain gode di grande stima in questo momento, e The Help ha due attrici candidate. La mia preferenza, tuttavia, va a Berenice Bejo, bravissima e dolcissima attrice in The Artist.
Pronostico:
Jessica Chastain
Scelta personale: Berenice Bejo

Miglior attore non protagonista
Il favorito è ovviamente Christopher Plummer, ma diciamocelo: ogni singolo attore di questa lista se lo meriterebbe. La mia scelta "affettiva" è Jonah Hill, attore troppo a lungo sottovalutato e uno dei pochi eredi di John Belushi, ma anche la vittoria di Max von Sydow non mi dispiacerebbe.
Pronostico:
Christopher Plummer
Scelta personale: Jonah Hill

Miglior attrice protagonista
Qui il pronostico e la scelta obbligata rispondono a un solo nome: Meryl Streep. Michelle Williams, se esiste giustizia a questo mondo, non può e non deve vincere nulla, nemmeno alla tombola aziendale. Rooney Mara è brava ma è alla prima nomination, Viola Davis eccezionale ma nessuno sembra potere nulla contro Meryl e la sua interpretazione della Thatcher. Nessuno tranne Glenn Close, che è la mia scelta personale.
Pronostico:
Meryl Streep
Scelta personale: Glenn Close

Miglior attore protagonista
Il favorito (sembra) essere Clooney, ma Dujardin dovrebbe spuntarla. E, nonostante il mio grande amore per Gary Oldman ne La Talpa, è anche la mia scelta personale. Brad Pitt è la "matta" del mazzo, il cavallo di rincorsa che potrebbe spuntarla sul filo di lana.
Pronostico: Jean Dujardin
Scelta personale: Jean Dujardin

Miglior regia
Un solo nome: Martin Scorsese. Hugo Cabret è un inno al cinema da un maestro del cinema, che deve essere premiato. Anche Malick meriterebbe, ma Scorsese per me lo supera.
Pronostico: Martin Scorsese
Scelta personale: Martin Scorsese

Miglior film
Anche qui, un solo titolo possibile: The Artist. Il cinema deve stupire, incantare, divertire, emozionare, commuovere: The Artist fa tutto questo, e lo fa senza usare nemmeno una parola. Anche qui, non mi dispiacerebbe una vittoria di Malick. Ma The Artist è un gradino sopra.
Pronostico: The Artist
Scelta personale: The Artist

martedì 23 marzo 2010

E' Complicato

E' complicato guardarlo


Jane e Jake sono una coppia divorziata da 10 anni. Jake si è risposato con una donna più giovane e con un figlio a carico. Jane è completamente sola. La passione si riaccende in un albergo di New York, in occasione del diploma del loro figlio più piccolo. Da quel momento, inizia una relazione extra-coniugale complicata proprio nel momento in cui Jane conosce Adam, un architetto neo divorziato che lavora all'ampliamento della sua casa.

La commedia fa parte di un ormai vastissimo filone di film americani che hanno distrutto un genere; E' complicato è un film insipido dove le rare battute, neanche troppo divertenti, hanno l'obiettivo di insabbiare una carenza di trama imbarazzante. Alec Baldwin, al suo completo sfascio fisico, sembra la caricatura di se stesso, la Streep, capace di far ridere, assume questo atteggiamento frustrato per tutto il film e che non abbandona mai, mentre Steve Martin in versione romantica sembra Hannibal Lecter in versione comica.

La cosa che più mi sorprende è il tentativo di trovare una morale a tutti i costi anche laddove è forse meglio lasciar perdere. Il buonismo americano non viene più utilizzato per giustificare un happy ending, come nelle commedie anni '50, ma per inculcare un finto perbenismo sentimentale che davvero non trova senso nell'immaginario comune. Ed ancora più inquietante il modo in cui i figli vengono integrati in questa storia assurda: sono dipinti come completi deficienti che non capiscono né cosa succede né come affrontare qualsiasi situazione.

Il film è assolutamente particolare e utile per capire dal punto di vista sociologico quanto demagogica e paradossale sia la società americana.

*
Alessandro

lunedì 16 novembre 2009

Julie e Julia

Un piatto per pochi palati



Julie, giovane statunitense, vive nel mito di Julia Child, la scrittrice e presentatrice TV che sdoganò la cucina francese presso le casalinghe americane. Il sogno di Julie è di conoscere la sua beniamina, e incomincia a tenere un blog per raccontare le sue avventure tra i fornelli nel tentativo di realizzare le ricette rese celebri dalla Child. Le vicende delle due si incrociano, in un continuo alternarsi tra passato e presente.

Tratto dall'omonimo bestseller, Julie e Julia è un classico film culinario, dove le ricette sono il piatto forte della trama e la cucina è il set privilegiato: emergono anche altri spunti, certo, ma sono tutti secondari rispetto alla storia della Child e agli sforzi di Julie per emularla. I dialoghi sono simpatici e riescono spesso a strappare un sorriso, regia e fotografia sono invece abbastanza scolastiche.

Ottimi gli attori, con una Meryl Streep mattatrice, un grande Stanley Tucci e Amy Adams che si conferma come una delle giovani più interessanti del panorama hollywoodiano, anche se in una parte non certo complessa.
La nota più stonata è costituita dal doppiaggio, con Meryl Streep-Julia che sembra perennemente ubriaca.

Julie e Julia è un film da vedere solo per gli amanti della buona cucina: gli altri possono perderselo senza troppi rimpianti.
Rimane comunque un film grazioso, che passa piacevolmente senza accampare troppe pretese moralistiche o educative.

**1/2

Pier

domenica 8 febbraio 2009

Il dubbio

Certezze e soprese



La visione de Il dubbio lascia lo spettatore con una certezza e un dubbio.

La certezza è che, quando il testo è così ben costruito e il cast comprende attori di questo calibro, basta una regia onesta per far sì che il risultato sia ottimo. La certezza è che il cinema è sì fatto di immagini, ma anche di parole, di fatti, e che quando questi mancano è difficile anche solo parlare di cinema.


Il dubbio è quale degli attori colpisca di più per la sua performance, se la rigida suora Meryl Streep o il prete di Philip Seymour Hoffman, sempre in bilico tra giovialità e dolore.


La Streep è eccezionale per intensità espressiva, in un'interpretazione sorretta soprattutto dalla sua mimica facciale. Hoffman è perfetto nel rendere le due facce del prete, contribuendo così ad alimentare il dubbio lungo il quale ruota tutto il film: la natura del suo rapporto con il giovane alunno di colore.


Invece di scegliere tra questi due mostri sacri di Hollywood, preferisco segnalare un'altra attrice, Amy Adams, la giovane novizia che, con la sua confessione alla superiora, alimenta qualcosa più grande di lei, che le sfugge inevitabilmente di mano. La sua interpretazione è molto efficace, e la nomination all'Oscar appare quanto mai azzeccata.


Infine, il testo, molto teatrale, con dialoghi serrati, pochi personaggi e ambientazioni limitate. Colpiscono in particolare le omelie di Seymour Hoffman, vere e proprie metafore esistenziali il cui significato va oltre la trama del film, mettendo in luce le dinamiche che, ogni giorno, ci mettono a confronto con incertezza e dubbio.

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Pier