martedì 3 settembre 2019

Telegrammi da Venezia 2019 - #3

Terzo telegramma da Venezia 2019: continuano i film che guardano allo ieri per parlare dell'oggi, ma ci si addentra anche nella quodianità e nel feuilleton d'autore.


Giants being lonely (Orizzonti), voto 8. Splendido esordio alla regia per l'artista Grear Patterson, che racconta con originalità e piglio autoriale un tema abusato come quello della fine dell'adolescenza, immergendo i suoi protagonisti in un'atmosfera fuori dal tempo e quasi onirica, in cui l'estate sembra non dover finire mai. Bravi i giovani attori protagonisti, tutti convincenti e veri.

The laundromat (Concorso), voto 6.5. Soderbergh racconta lo scandalo dei Panama Papers, e lo fa usando le tecniche popolarizzate da Adam McKay con La grande scommessa: spiegazioni tecniche semplificate e spettacolarizzate, frequente rottura della quarta parete, molteplici punti di vista. Soderbergh aggiunge però il suo tocco creativo sia nell'umorismo, sia nella scelta vincente di far raccontare il tutto, quasi fosse una favola, a Mossack e Fonseca, i due fondatori dell'omonimo studio legale al centro dello scandalo. Gary Oldman e Antonio Banderas brillano nei ruoli, e soprattutto constringono lo spettatore a porse una domanda scomoda ma fondamentale: se chi ha aiutato a nascondere i soldi viene condannato, come è possibile che chi ha fornito i soldi la faccia franca? Il tema viene ripreso anche nel finale, molto potente anche se forse un po' didascalico.

Jeedar el sot (All this victory) (Settimana della Critica), voto 7.5. Durante una delle tante guerre tra Libano e Israele (quella del 2006), un gruppo di libanesi sconosciuti, per la maggior parte anziani, si rifugia in un appartamento. Rimangono però bloccati quando dei soldati israeliani occupano l'appartamento soprastante. Nonostante la terribile serietà della tematica e delle situazioni raccontate, il film sorprende con alcuni momenti conviviali e umoristici, inseriti in modo armonico in mezzo a quelli più tesi. La commistione di toni è riuscitissima, e contribuisce alla creazione di un racconto vero ed emozionante della guerra dal punto di vista delle vittime civili, mostrando come una convivenza forzata possa trasformarsi in un legame profondo.

No 7 Cherry Lane (Concorso), voto 7.5. Un film d'animazione poco convenzionale, in cui numerosi stili si mischiano e ogni movimento è lento, calcolato, trascinato, quasi ci trovassimo in un sogno. Il film si muove continuamente tra la dimensione onirica e la realtà, e ne sovrappone i confini fino a confonderli: la Hong Kong del film non è reale, è quella conservata nel ricordo e nella nostalgia, esattamente come gli amori di madre e figlia per il giovane protagonista, novello Laureato che conquista i loro cuori con poche parole ma una grande passione per il cinema. Il film è visivamente splendido, ed è un peccato che venga a tratti rovinato da una computer grafica inaccettabile nel 2019 e da un'animazione anti-realistica che finisce per depotenziarne i momenti più emozionati. Resta comunque un'opera originale e riuscita, con cui Yonfan scrive la sua lettera d'amore per la sua città e per un'epoca che non esiste più.

American Skin (Sconfini), voto 3. C'è davvero poco da salvare in questo film di Nate Parker, che cerca di raccontare l'enorme problema delle violenze della polizia sugli afroamericani, ma riesce solo a realizzare un polpettone intriso di retorica e privo di qualunque incisività: sul tema dice di più Steve McQueen in Widows con cinque minuti di film che tutto il lungometraggio. Parker escogita un espediente narrativo poco realistico ma molto ingegnoso per mettere a confronto e costringere al dialogo polizia e vittime, ma lo vanifica sia con la totale mancanza di realismo (carcerati dal ghetto e adolescenti che parlano come un saggio di sociologia), sia con l'assurda scelta di rendere il film un mockumentary, totalmente insensata vista l'implausibilità della premessa che sceglie di utilizzare. La morale del film - ci sono colpe da ambo le parti, e basterebbe un po' più di dialogo - è non solo poco originale, ma anche disgustosa nei confronti delle vittime, e non basta un finale "forte" a salvare novanta minuti di sproloqui retorici.

Martin Eden (Concorso), voto 7. Non fidatevi dei magnificat  e dei peana dei giornalisti "cartacei" italiani, un po' troppo partigiani (o troppo severi: nessuna via di mezzo) con i prodotti cinematografici nostrani. Martin Eden non è un capolavoro, ma è comunque un film ben sopra la media del nostro cinema, realizzato con ottima visione registica da Pietro Marcello. La prima metà è splendida, con una fotografia luminosa e sognante e un Marinelli perfetto nei panni di Martin che scopre i piaceri della letteratura, dell'amore, e della vita. La seconda, tuttavia, si perde in inutili sproloqui pseudo intellettuali e politici, che finiscono per fagocitare il pur bravo Marinelli in una serie di sussurri e grida che ne appiattiscono l'interpretazione. Un vero peccato, ma il film resta comunque un ottimo, per quanto inusuale, adattamento dell'omonimo romanzo di Jack London, che funziona finché riesce a mantenere il suo protagonista al centro della scena, ed esce di strada quando lo sacrifica sull'altare del Messaggio.

Simone

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