domenica 8 settembre 2019

Joker

Risate di dolore



Arthur Fleck lavora come clown per un’agenzia. È affetto da sindrome pseudobulbare, che gli causa risate incontrollate, e da una grave forma di depressione che cerca di tenere a freno concentrandosi sul suo lavoro. Vive ancora con la madre, che ama molto e che gli ha insegnato il motto che guida le sue giornate: affrontare la vita con una faccia felice. Nel giro di pochi giorni, però, Arthur subisce due violenti soprusi che intaccano la sua fragile psiche, precipitandolo in una spirale autodistruttiva che lo porterà a scoprire nuove, inquietanti cose sul suo passato e su se stesso.

Che cos’è la follia? Molti grandi artisti hanno cercato di dare una risposta a questa domanda. Letteratura, teatro, musica, cinema: il tema è stato sviscerato in mille modi e attraverso mille storie e personaggi, ma senza mai trovare una vera risposta. Nessun personaggio, tuttavia, ha mai messo in crisi questa domanda come il Joker, l’iconico villain di Batman. Che sia nell’incarnazione di Jack Nicholson, o in quella più recente di Heath Ledger, Joker ha sempre sfidato il concetto stesso di follia, ribaltando il tavolo e chiedendo allo stordito intervistatore: chi stabilisce cosa sia normale e cosa sia a-normale, senza normalità, fuori dall’ordinario?

Tuttavia, nessuna versione cinematografica del Joker, nessun film precedente era arrivato tanto vicino a cogliere l’essenza della follia come il Joker di Todd Phillips, usandola per creare un ritratto spietato della società contemporanea. Una società che finge di incoraggiare la diversità ma in realtà la ripudia; in cui chi è davvero diverso viene nascosto, sepolto vivo lontano dai nostri occhi e dalle nostre menti, spesso senza alcuna speranza di riscatto; in cui chi per sbaglio riesce a riemergere dall’oscuro pertugio in cui lo avevamo cacciato lo fa solo per essere deriso, umiliato, e rimandato a suon di risate sul fondo dell’abisso, dove è giusto che stia. Perché, in fondo, la società la pensa come Thomas Wayne: se ti ritrovi a vivere in una periferia marcia e pestilenziale, distopica e al tempo stesso terribilmente reale, è sicuramente colpa tua.


E quindi, chi è davvero il folle? Attraverso la storia di Arthur Fleck, Todd Phillips ci risbatte in faccia la domanda con una violenza necessaria, che ci costringe a guardare alla sperequazione sociale degli Stati Uniti e del mondo. È colui che viene marginalizzato per via di una malattia e di una depressione causate da una vita di soprusi? O è colui che, come Thomas Wayne, pensa che l’attuale struttura sociale sia giusta ed equa? La parabola di Arthur Fleck non è (solo) quella di una progressiva discesa negli abissi della ragione, ma è una ribellione come quella del Travis Bickle di Taxi Driver, un altro reietto respinto dalla società che realizza attraverso le sue azioni “a-morali” di non essere solo nel suo dolore, nella sua frustrazione, nella sua sorda disperazione.

La storia di Arthur cessa di essere (solo) la origin story di un villain dei fumetti per diventare una storia universale che costringe con violenza lo spettatore a prendere coscienza delle iniquità del mondo, del tradimento degli affetti più stretti, della sordità dello Stato di fronte alle difficoltà dei suoi cittadini: in una parola, delle cause della rabbia che fermenta e brucia nella società odierna, un mondo “impazzito”, come dice Arthur, dove deridere, calpestare il tuo vicino più debole è visto come normale e persino divertente, almeno fino a quando il debole non diventi tu, come nella mirabile scena della metropolitana. Il Joker è l’unico a cogliere una verità che ci viene dalla Grecia classica: commedia e tragedia sono due facce di una stessa medaglia, ambedue essenziali per poter raggiungere o quantomeno aspirare a una vera catarsi.

Phillips dirige questo magma di emozioni e significati con mano sicura, ispirandosi al Batman di Nolan ma soprattutto al Martin Scorsese di Taxi Driver, Re per una notte (non è un caso la presenza di Robert De Niro nella parte di Murray Franklin) e Mean Streets, creando un’atmosfera da noir metropolitano, con una Gotham City mai così realistica, sporca, senza speranza, talmente viva che lo spettatore percepisce il sudore, il sudiciume, la puzza in cui sono sprofondati i protagonisti. Da questa materia quasi scatologica Phillips riesce però a ricavare immagini di rara bellezza, sfondi perfetti per la danza delirante ed estatica del Joker, la cui frenesia cresce fino ad esplodere in sequenze finali mozzafiato per capacità emotiva e filmica.


Phillips, contrariamente ad alcune critiche infondate e superficiali lette in questi giorni, riesce anche a evitare la trappola dell'assoluzione della violenza, in particolare di quella (verbale e fisica) perpetrata dai cosiddetti incels (uomini bianchi che pensano di essere "forzatamente" single e si sentono esclusi dalla società). Arthur non è, infatti, un incel, e la cosa è talmente chiara che non dovrebbe nemmeno richiedere una spiegazione. Non è un uomo che si sente escluso dalla società e che la incolpa per i suoi insuccessi, ma un uomo malato, in cura farmacologica e psicologica per una grave forma di depressione e per la sua sindrome pseudobulbare. Non pensa di essere un grande comico, né che il mondo sbagli a non riconoscere la sua grandezza: la standup comedy è il suo modo di connettersi con un'umanità che non capisce (come è evidente dagli appunti che prende durante le esibizioni di altri comici), di sentirsi meno isolato, di entrare in contatto con la gente. Non sogna di essere invitato al Murray Franklin show, ma una figura paterna che lo apprezzi, e che lui identifica in Murray, unico compagno delle sue serate solitarie: la scena onirica è in tal senso chiarissima, e non lascia spazio a interpretazioni capziose come quelle lette in questi giorni.

La sua involuzione, infine, non dipende da una donna che lo respinge, ma dall'ennesima umiliazione gratuita subita, un'umiliazione non cercata, frutto di quella cultura avida di video e immagini da mettere alla berlina, spernacchiare, che trasforma un momento felice in una distruzione della dignità individuale; una cultura che nasce in televisione, ma è esplosa nell'era dei social media anche grazie agli stessi incels, pronti a dileggiare chiunque "ci provi", quasi fosse colpevole di lesa maestà nei confronti della loro autocommiserazione; una cultura, infine, perpetrata anche da quei membri delle elites che vedono nell'ignoranza un motivo di dileggio anziché un nemico da sconfiggere, nella povertà crescente una colpa anziché un problema collettivo. Di questa cultura fanno parte anche coloro che hanno criticato il film per questi motivi capziosi: personaggi che non vogliono ascoltare i campannelli d'allarme, che additano coloro che sottolineano il problema (come Joker) come delle Cassandre in cerca di attenzione e facile consenso; personaggi che, in sintesi, continuano a sostenere che il termometro sia la causa della febbre.


Al centro del film c’è la prova trascendente di Joaquin Phoenix: il suo Arthur/Joker è tutto e niente al tempo stesso, un personaggio comico e tragico, in cui la risata si fa dolore insopportabile e il corpo diviene semplicemente un veicolo per la mania (da Dioniso a Loki, la follia è sempre divina) che scatena l’incenerimento del vecchio che è necessario alla nascita del nuovo. Il suo corpo si piega, si contorce, si deforma, squassato da una risata incontrollabile che diventa cieco urlo di dolore e di frustrazione per non avere il pieno controllo del proprio corpo e della propria vita, una richiesta d'aiuto disperata e lacerante: raramente si è vista una tale capacità di comunicare una molteplicità e complessità di emozioni con un solo sguardo, una sola frase, un solo movimento di un corpo martoriato, perfetta riflessione della mente del protagonista. Phoenix si fa interprete non solo di un personaggio, ma di un’intera categoria sociale, e regala un’interpretazione che rimarrà nella storia del cinema.

Joker non è il miglior cinecomic di sempre semplicemente perché non è (solo) un cinecomic: non è un film sui fumetti, ma un film che, senza rinnegare le sue origini, parte dai fumetti per parlare della società di oggi e della realtà, senza avere paura di esporne le ferite purulente. È un film vibrante, vivo, necessario, che mette a disagio a ogni inquadratura e lascia lo spettatore con più domande che risposte: è, in due parole, grande cinema.

*****

Pier

NB: Parte di questa recensione è già stata pubblicata dallo stesso autore su Nonsolocinema.

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