mercoledì 29 dicembre 2021

Don't Look Up

L'onestà è lodata ma muore di freddo


Kate Dibiasky, dottoranda in astrofisica presso l'Università del Michigan, scopre una gigantesca cometa in rotta di collisione con la Terra: l'impatto provocherà l'estinzione del genere umano. Insieme al suo docente, il Dr. Mindy, cerca di avvertire le autorità: nonostante ricevano l'attenzione del Dr. Oglethorpe, responsabile del Planetary Defense Coordination Office, vengono ignorati dalla Presidente degli Stati Uniti e dal suo staff. Si rivolgono allora alla stampa e alla televisione: è l'inizio di un immenso circo mediatico che trasformerà la salvezza dell'umanità nell'ennesimo dibattito da social media, tra sondaggi di gradimento, tweet, e sedicenti esperti da salotto tv.

Dopo la politica shakespeariana di Vice e la satira economica de La grande scommessa, Adam McKay torna alla regia con quello che potrebbe essere visto come una summa del suo cinema, il punto di incontro tra Anchorman e i due film sopracitati: una satira a tutto tondo della società americana, a partire dal suo sistema mediatico fatto di eroi, personaggi, cicli di notizie, in cui non conta cosa si dice, ma come lo si dice e, soprattutto, chi lo dice. Una società dell'apparenza che fa sì che anche la fine del mondo diventi solo una storia come tante, fatta di opportunismo, avidità, protagonismo esasperato. Il sistema mediatico si interseca in un abbraccio mortale con quello politico, dando vita a una tempesta perfetta con una sola vittima: la verità.

Il film sembrerebbe estremizzare la divisione tra "noi" e "loro", con i conservatori e i capitalisti dipinti come personaggi da operetta, dei "cattivi" tanto ridicoli quanto letali, e gli scienziati a fare la parte dei buoni. In superficie, questo è indubbiamente vero: i politici e i giornalisti che vediamo nel film sono delle macchiette, dei tipi più che dei personaggi, caricaturizzati al punto di perdere qualunque credibilità (con qualche eccezione, vedi la scena finale del personaggio di Jonah Hill - un momento in cui la maschera cade e rimane la persona, sola, su un palcoscenico deserto). Gli scienziati, dall'altra parte, sono invece dei personaggi a tutto tondo: conosciamo le loro famiglie, la loro vita privata, le loro nevrosi e il loro passato. 

Tuttavia, uno sguardo più approfondito rivela che McKay non guarda in faccia  a nessuno, e che anche gli scienziati vengono travolti dagli strali della sua satira. Alcuni (il personaggio di Di Caprio) sono convinti di fare del bene, ma non si accorgono (o decidono di ignorare) che la loro partecipazione al circo mediatico non fa altro che contribuire allo svilimento della scienza, ridotta a puro elemento di spettacolo, fatta di personaggi, storie, pettegolezzi - qualcosa di più affine al gossip delle celebrità o al wrestling che al metodo scientifico: un'opinione come tutte le altre. Altri (il personaggio della Lawrence, lo stesso Di Caprio in alcune fasi) dimostrano una totale incapacità - o, forse, volontà - di comunicare correttamente con il pubblico, di instaurare un dialogo fatto di ascolto e di comprensione delle perplessità: questa è la scienza che si chiude nella sua torre d'avorio, ritenendo che l'ascolto da parte dei potenti e del pubblico sia un atto dovuto, un dialogo dall'alto al basso dove lo scienziato spiega, e il pubblico ascolta, come uno studente giudizioso. 


McKay non guarda a questi atteggiamenti con simpatia, come piccoli difetti che rendono più umani i suoi protagonisti, ma come parte integrante del problema: approcci, come ormai sappiamo, destinati al fallimento, e correi del crescente pensiero antiscientifico in molti strati della popolazione. Ce ne è anche per le celebrità: impossibile non vedere nel personaggio interpretato da Ariana Grande una critica, nemmeno troppo bonaria, a quelle star convinte che basti agire da megafono per diffondere il messaggio scientifico, quando invece, spesso, contribuiscono solo al suo ulteriore svilimento. 
Solo una categoria sociale non diviene mai il bersaglio della satira di McKay: il pubblico, la gente comune, che non viene derisa, come ad esempio in Idiocracy, ma presentata come la tragica vittima di una commedia in cui altri ridono sguaiatamente di lei. Don't look up rispetta alla perfezione la regola d'oro della satira fin dai tempi di Giovenale: attaccare chi comanda, non i comandati (punch up, not down, dicono gli anglosassoni).

La sceneggiatura ha momenti brillanti e geniali, ma rallenta troppo nella parte centrale e diventa eccessivamente partigiana nel finale, dopo aver mantenuto un ammirevole equilibrio per gran parte del film: se è indubbiamente vero, infatti, che una parte politica è più propensa a certi atteggiamenti antiscientifici, è anche vero che la sua identificazione così smaccata depotenzia la forza sovversiva della satira erga omnes che caratterizza il resto del film.

Il montaggio ha il ritmo che manca a tratti alla sceneggiatura, e fa sì che il film rimanga comunque sempre godibile e scorrevole. La fotografia predilige i primi piani, concentrandosi sulle espressioni esasperate, sulle maschere grottesche dei protagonisti, e perdendosi raramente nelle profondità del cosmo. Una scelta, questa, che sembra il contraltare visivo della scelta di parte dell'umanità di ignorare la cometa: lo sguardo della macchina da presa rimane fisso a terra esattamente come quello dei protagonisti. Questa concentrazione sull'umano, sulle emozioni esalta anche la splendida prova corale di un cast in stato di grazia, capitanato da Di Caprio (splendido il suo scienziato in bilico tra etica, nevrosi e narcisismo) e Jennifer Lawrence, con Jonah Hill a fare la parte del leone tra i personaggi secondari.

Don't look up è una diagnosi amara dei nostri tempi e della crisi profonda che attraversa il pensiero scientifico, attaccato da nemici interni ed esterni. La satira, tuttavia, è meno efficace che ne La grande scommessa a causa di una sceneggiatura meno riuscita e della scelta di diagnosticare una malattia senza però scavare a fondo nei sintomi né, soprattutto, prescrivere una cura: al termine della visione si ha una chiara percezione del macro-problema e delle sue cause apparenti, ma poche idee sulle cause profonde dello stesso, e nessuna su come sistemare le cose. Forse, per McKay, è troppo tardi: ma dare spazio a coloro che una soluzione ancora la stanno cercando avrebbe potuto arricchire il film anziché farlo scivolare in un brillante, sferzante, ma rassegnato pessimismo.

****

Pier

mercoledì 15 dicembre 2021

Spider-Man: No Way Home

Nuove occasioni


Dopo che Mysterio ha svelato a tutto il mondo la sua identità segreta, Peter Parker/Spider-Man vive una vita impossibile, tra media che lo seguono di continuo, indagini federali, e le continue attenzione del pubblico, diviso tra chi lo ammira e chi lo considera un assassino. Quando si rende conto dell'impatto che la situazione sta avendo su MJ, Ned e zia May, Peter pensa di rivolgersi al Dottor Strange, sperando possa risolvere la questione con la sua magia.

Spider-Man: No Way Home è un film che, finalmente, sorprende, uscendo dal seminato dei film Marvel per provare qualcosa di diverso e ambizioso.  Certo, la mutazione non è totale, e rimangono comunque elementi "già visti" o comunque prevedibili per chi conosce il MCU: ma è impossibile non notare la maggiore maturità narrativa di questo nuovo capitolo della saga di Spider-Man.

Fin dall'ultima inquadratura di Far From Home era chiaro che per Peter Parker i giorni della spensieratezza, già messi a dura prova dalla morte del suo mentore Tony Stark, erano definitivamente finiti. Tutti conoscevano la sua identità, ora, e la sua vita privata non sarebbe più stata tale. L'impatto sulle vite dei suoi amici era prevedibile per lo spettatore, mentre il personaggio, nella sua giovanile ingenuità, lo aveva forse sottostimato.

No Way Home compie un altro, enorme passo nel percorso del giovane Peter Parker verso quelle che sono le sue caratteristiche distintive nel fumetto: una grande ironia e parlantina sciolta, certo, ma anche un senso del dovere iper sviluppato, il desiderio di salvare sempre tutto e tutti, un'abnegazione totale verso gli altri che, spesso, sfocia in autonegazione, nell'impossibilità autoimposta di bilanciare le sue vite parallele. Peter Parker, insomma, diventa davvero Spider-Man, ed è impossibile non guardarsi indietro e riconoscere (con un pizzico di ammirazione) la pazienza certosina avuta dalla Marvel nello sviluppare il proprio protagonista: la Home trilogy è, di fatto, una origin story espansa, un'esplorazione della crescita psicologica ed emotiva di un personaggio che da sempre spicca per complessità di motivazioni e dilemmi. Feige e Watts hanno tessuto una tela complessa, rivelandone a poco a poco i dettagli per poi tirarne le fila in questo film ricco di emozioni e colpi di scena. 


Watts riesce a mantenere in equilibrio il nuovo tono, più maturo e riflessivo, con quello scanzonato dei primi due, e lo fa amalgamando con sapienza i vari ingredienti: una sceneggiatura che prosegue "a strappi", accelerando quando deve ma prendendosi i suoi tempi quando serve, accompagnata da una fotografia ipercinetica ma anche capace di soffermarsi su volti, ferite, emozioni; dei personaggi sfaccettati, complessi, onnipotenti ma fragili al tempo stesso; e delle interpretazioni convincenti e stratificate, con Tom Holland che si dimostra all'altezza delle grandi responsabilità che derivano dal suo ruolo, interpretando con efficacia anche quegli aspetti del suo personaggio che finora non erano ancora emersi. Accanto a lui spiccano un'ottima Zendaya, più convincente che in Far From Home, e il Dottor Strange di Benedict Cumberbatch, mentore riottoso, perennemente in sospeso tra arroganza e insicurezza.

L'unica nota stonata sono dei momenti quasi meta-cinematografici, delle parentesi narrative, spesso consistenti in lunghi dialoghi tra i protagonisti, che sembrano più riflessioni/risposte ai fan che elementi effettivamente utili ad avanzare la trama. Per fortuna sono limitati, e la portata emotiva della trama li fa dimenticare in fretta: tuttavia, rallentano e diluiscono un film che sarebbe stato ancora più incisivo con una durata inferiore; la loro presenza stupisce ancora di più vista la grazia e la delicatezza narrativa con cui vengono invece inseriti altri elementi destinati a compiacere i fan.

Spider-Man: No Way Home punta tutto sull'approfondimento dei personaggi e sulla ricchezza emotiva anziché su facili gag, computer grafica e una struttura narrativa di comprovata efficacia ma, alla lunga, ripetitiva. La scelta è vincente, e dà vita a una storia che intrattiene ed emoziona, parlando alla pancia, ma anche al cervello e al cuore, mettendoci di fronte a scelte difficili e svelando quanto, dietro costumi colorati e ipertecnologici, sia difficile e lacerante il percorso di un (super)eroe.

****

Pier

domenica 12 dicembre 2021

Nowhere Special (In pillole #22)

Una favola dolceamara


Dopo quel piccolo capolavoro di Still Life, Uberto Pasolini fa di nuovo centro con un film semplice, ma potente, in grado di parlare al cuore dello spettatore senza scivolare nei pietismi cui la storia (un padre morente, John, cerca una nuova famiglia per il figlio, Michael) pur si presterebbe. 

Pasolini racconta questa storia di terribile realismo come una favola, tenendo l'attenzione sul rapporto padre-figlio che è il cuore della vicenda. Un rapporto, quello tra John e Michael, fatto di affetto profondo, complicità, sacrifici: un rapporto vivo, pulsante, raccontato con pulizia e rispetto, senza fronzoli o concessioni a una facile spettacolarizzazione dei sentimenti. 

Nowhere Special è un gioiello, una storia autentica, vibrante, che avvince e convince grazie a una scrittura perfetta e a dei personaggi splendidamente tratteggiati e interpretati. 

Non perdetelo.

**** 1/2

Pier

mercoledì 8 dicembre 2021

Encanto

La favola dei talenti


Mirabel Madrigal vive in una famiglia speciale: grazie a una misteriosa candela magica che ha soccorso la nonna nel momento del bisogno, tutti i suoi membri hanno un dono, un potere eccezionale. Tutti, tranne Mirabel. La ragazza cerca di rendersi utile ma, spesso, finisce per essere d'intralcio - fino a quando, un giorno, la casa (ovviamente magica) dove abitano comincia a mostrare delle inquietanti crepe e la candela rischia di spegnersi. Sarà proprio Mirabel a indagare e a scoprire i molteplici segreti della sua famiglia e della sua storia familiare. Ma sarà sufficiente a salvare tutto ciò che ha di più caro?

Che cos'è un talento? Un'abilità, certo: ma deve anche essere una vocazione - magari l'unica? E quando può diventare una trappola? Queste le domande dal sapore quasi biblico che si pone Encanto, il nuovo classico animato Disney: una favola indirizzata primariamente ai bambini ma con un afflato esistenzialista che parla agli spettatori adulti, spingendoli a interrogarsi sulle loro molteplici identità (lavorativa e personale, pubblica e privata) e su che ruolo giochino nel definire chi sono veramente.

Mirabel è diversa, senza poteri speciali ma, proprio per questo, più libera, portatrice di uno sguardo diverso, della possibilità di decidere chi vuole essere anziché essere costretta in un ruolo che il destino ha scelto per lei. In tal senso è una "donna rinascimentale", poliedrica laddove gli altri membri della sua famiglia sono (sembrano) uniformi, generalista laddove gli altri sono specialisti. Ciò che la accomuna ai suoi cari è la paura - nel suo caso, una certezza - di deludere Abuela Alma. Sarà proprio la sua scoperta della fragilità altrui a farle comprendere la sua missione - la sua vocazione.

Il percorso di Mirabel è costruito con grande maestria, come un giallo, con continue scoperte che diventano pezzi di un puzzle complesso e variegato che solo alla fine, come Sherlock Holmes, rivelerà il colpevole. Il ritmo è in generale elevato, ma il film riesce a concedersi anche dei momenti di riflessione e contemplazione, che contribuiscono ad arricchirne la portata emotiva. 

Il comparto visivo è abbacinante, splendido nella sua complessità, varietà, ricchezza: la stanza di ognuno dei protagonisti è un ecosistema a sé, un'esplosione di creatività che colpisce e fa volare la fantasia. La casa è, di fatto, un personaggio, in grado di muoversi, ascoltare, influenzare gli eventi. La sua animazione è costruita come quella di uno strumento musicale, permettendole quindi di dialogare con i protagonisti e di rifletterne le emozioni. Anche i personaggi sono costruiti alla perfezione, con aspetto e caratteri distintivi che permettono loro di brillare anche all'interno di un cast mai così corale (oltre a Mirabel ci sono di fatto undici co-protagonisti).

Un comparto, tuttavia, brilla ancora di più di quello visivo: quello musicale. Le canzoni scritte e composte da Lil-Manuel Miranda (al suo secondo lavoro disneyano dopo il già splendido Oceania) sono dei piccoli capolavori che riescono allo stesso tempo a perpetuare la tradizione disneyana e a esibire l'innovativa commistione di generi tipica del lavoro di Miranda: ecco quindi la classica happy village song (La famiglia Madrigal) e "la canzone del desiderio" (Un miracolo), ma anche l'irresistibile ritmo di tango di Non si nomina Bruno, la commovente Oroguitas innamoratele sonorità pop di La pressione sale e il rap "hamiltoniano" che fa capolino in Tutti voi

Encanto è un film che fa sognare, ridere, e riflettere, con un bel messaggio sull'accettazione di sé e degli altri accompagnato da una colonna sonora meravigliosa e portato in vita da un'animazione coloratissima e sorprendente. A volte la coesione narrativa viene un po' sacrificata, creando dei cali di tensione che anestetizzano per qualche momento la portata emotiva, ma il film si riprende sempre, creando un meraviglioso mosaico di caratteri, colori, e suoni diversi, eppure perfettamente complementari e necessari l'uno all'altro: come una famiglia.

****

Pier

venerdì 26 novembre 2021

È stata la mano di Dio

Madeleine napoletana


Fabio è un giovane napoletano all'ultimo anno di liceo. I suoi genitori, Saverio e Maria, sono una coppia particolare ma piena d'amore per i propri figli; la sua famiglia è ancora più peculiare, ma unita, allegra, viva. La città e la vita di Fabio vengono scossi da una notizia: il Napoli ha comprato Diego Armando Maradona. Andare allo stadio diventa un rito collettivo, che unisce Fabio alla famiglia e a tutta la comunità.

Che bella sorpresa questo film di Sorrentino: un racconto personale, autentico, che si spoglia di ogni orpello visivo per mettere in scena la vita, in tutte le sue sfaccettature - divertente, drammatica, nostalgica, grottesca. In superficie, È stata la mano di Dio può sembrare un racconto di formazione, ma è tanto, tanto altro: è un film di ricordi, sensazioni, emozioni, in cui Sorrentino si focalizza sul cuore della storia, mettendo a nudo se stesso e la sua storia personale in un percorso di autocatarsi che colpisce dritto al cuore.

È stata la mano di Dio è un film caldo, emozionale, per nulla cerebrale, illuminato dalla luce splendente del ricordo; è un film pervaso da una bellezza, da una nostalgia così struggenti da far male, da una gioia che fa da potente contraltare al dolore, da un senso devastante di perdita che è radicato nella ricchezza affettiva che lo precede. Si ride, tanto, e si piange, tanto; e lo si fa con i personaggi, che diventano ben presto come membri della famiglia, e ci portano a spasso in un ricordo che è sì del giovane protagonista (alter ego del regista) ma si fa esperienza collettiva. Sullo sfondo, infatti, c'è l'arrivo in città di Maradona, la divinità che si fa carne nei vicoli di Napoli, un calciatore che diventa un rituale religioso comunitario: un rituale che unisce, emoziona, guarisce, salva persino vite. 

Tutto, ovviamente, è visto attraverso il filtro del ricordo. E, come un ricordo, il film procede a tratti in modo lineare, a tratti per associazioni, con quadri che si succedono per somiglianza e rilevanza nella memoria, non necessariamente in sequenza temporale. Non mancano i tocchi di surrealismo sorrentiniano, ma sono sempre funzionali alla storia, a raccontare il singolare punto di vista dei personaggi, le loro sofferenze nascoste, i loro modi unici e speciali di volersi bene.

La regia di Sorrentino è misurata, discreta, e proprio per questo, forse, raramente così efficace, così poco ridotta alla sola bellezza delle immagini e stupefacente per capacità di amalgamare suggestioni interpretative, narrative, e sensoriali. La fotografia è  splendida, come e più del solito, proprio grazie alla sua semplicità. La musica è quasi del tutto assente, e comunque sempre diegetica, con la vera colonna sonora data dai suoni della strada, dalle voci della città, dai silenzi della perdita. 

La recitazione è naturale, misurata, senza eccessi, grazie anche a un cast in stato di grazia, che dà vita a un caleidoscopio di personaggi degni dei capolavori di Eduardo de Filippo, un meraviglioso affresco umano, una tribù sgangherata ma unita, coesa. Se Filippo Scotti ha sulle spalle il peso del film, e lo regge da veterano, a brillare sono soprattutto Teresa Saponangelo, vera mattatrice della coppia dei genitori, e Luisa Ranieri, sensuale e dolente, perfetta incarnazione della vera coprotagonista, la città di Napoli, mostrata in tutta la sua realtà.

Il film cala leggermente di tono nella seconda parte, dove sembra perdersi tra molti potenziali finali. Ma, forse, questo susseguirsi di finali-non-finali non è altro che la vivida rappresentazione filmica della difficoltà del distacco, di allontanarsi dal dolore per cominciare qualcosa di nuovo - un distacco fatto di tentativi, false partenze, ricadute, fino a quando, a un certo punto, siamo costretti a uscire dal nostro guscio, ad affrontare la realtà, a urlare quel dolore che ci siamo tenuti dentro.

È stata la mano di Dio è un gioiello di emozioni, una madeleine individuale e collettiva, con cui Sorrentino fa i conti con il suo passato ma anche con quello della sua città, realizzando un film umano, divertente, commovente: un film che racconta la vita.

**** 1/2

Pier

giovedì 25 novembre 2021

Ghostbusters - Legacy

Fantasmi dal passato


Collie, madre di due figli, Trevor e Phoebe, scopre che il padre, che non vede da anni, è passato a miglior vita, lasciandole in eredità una casa pericolante in Oklahoma. Inizialmente riluttante ad accettare l'eredità, è costretta a farlo quando viene sfrattata. Il viaggio in Oklahoma diventa ben presto un viaggio sulle tracce del padre, ritiratosi in quell'angolo sperduto per continuare le sue indagini sul paranormale e prevenire un evento catastrofico. Figlia e nipoti scopriranno ben presto che la casa e la cittadina nascondono non poche stranezze.

Non era facile tornare, dopo tanto tempo, nell’universo degli acchiappafantasmi. Il primo film è uscito nel 1984: parliamo di quasi 40 anni, durante i quali il cinema è cambiato e il pubblico con lui. Riportare in vita la saga richiedeva un lavoro paziente, amorevole, capace di reinterpretare il "mito" senza tradirne lo spirito.

L'intuizione vincente di Jason Reitman è quella di sfruttare questa distanza temporale e renderla parte integrante della trama. Per i suoi protagonisti, gli eventi ectoplasmatici di New York sono un passato lontano, eventi che hanno segnato chi li ha vissuti - direttamente o indirettamente - ma sono sbiaditi nella memoria collettiva. Questa distanza diventa quindi l'occasione per intrecciare un dialogo tra generazioni, un dialogo che passa dall'aspetto umano ma anche da quello tecnologico. 
La continua commistione tra digitale e analogico, l’uso di VHS ma anche di video YouTube e podcast (con questi ultimi che costituiscono il cuore comico del film) per raccontare la “mitologia” dei Ghostbusters alle nuove generazioni – sia i personaggi, sia il pubblico in sala: tutto concorre a creare un’atmosfera di scoperta, anziché di nostalgia, senza rinunciare a quella familiarità utile a riportare a bordo i fan della prima ora, “tranquillizzandoli” dopo il poco riuscito remake del 2016. Un'operazione, questa, simile a quella operata da J.J. Abrams con Episodio VII

A differenza di Episodio VII, tuttavia, Ghostbusters – Legacy non è la copia carbone di uno degli episodi precedenti. Reitman non usa il linguaggio della nostalgia, ma quello del ricordo, puntando sul racconto intergenerazionale: il film è impostato come fosse un racconto da genitore (anzi, da nonno) ai figli/nipoti, come quando ci raccontavano dei tempi della guerra. Le ovvie connessioni tra personaggi e spettatori, e persino tra regista e regista (Jason è il figlio di Ivan, regista dei due Ghostbusters originali), creano un’atmosfera meta-narrativa che trasporta lo spettatore in un viaggio attraverso la storia, nel senso più ampio del termine. 

Pur ricalcandone i topoi narrativi (i fantasmi, la profezia sulla fine del mondo, il villain), Reitman si stacca decisamente dal modello dell’originale sia a livello di trama che di ambientazione. Da un gruppo di scienziati si passa a una famiglia disfunzionale; dai grattacieli e dalla vita brulicante di New York si passa ai campi dell’Oklahoma, immersi in un senso di cupa decadenza, tra case abbandonate, miniere semideserte, e cittadine che non offrono alcuna prospettiva. Il cambiamento è vincente. Ghosbusters – Legacy ha una sua estetica distintiva, ben precisa e riconoscibile, diversa da quella dei predecessori: un'atmosfera da southern gothic con spruzzate lovecraftiane (il tempio nella miniera), con una casa infestata che diventa il cuore della trama (non è un caso che l’altro sceneggiatore sia Gil Kenan, già autore di quel gioiellino sottovalutato di Monster House). 



La trama è incentrata sul percorso di crescita e maturazione dei personaggi: (ri)scoprendo il proprio passato trovano se stessi, ottenendo una risoluzione di conflitti interiori a lungo sopiti. Nulla di straordinariamente originale, ma abbastanza perché ci si affezioni ai nuovi protagonisti, che risultano essere persone vere - con problemi, nevrosi, frustrazioni reali - anziché archetipi. La mancanza di personaggi reali era invece il principale difetto del remake del 2016, che non aveva colto l'eccezionalità del film originale, dove dei personaggi ben poco caratterizzati riuscivano a funzionare solo grazie all'eccezionale talento degli attori protagonisti. 

Se la vera protagonista è indubbiamente Phoebe (la splendida sorpresa McKenna Grace), il cuore emotivo del film è Callie Spengler, la figlia di Egon. Il suo è anche il personaggio più originale, una madre assente ma al tempo stesso affettuosa, incapace di dimenticare un passato che l'ha ferita e che, come un fantasma, torna di continuo a tormentarla. Callie è il nodo centrale del sistema di relazioni che costituisce la famiglia allargata dei nuovi acchiappafantasmi, ed è proprio lei ad affrontare il percorso di crescita più tortuoso e più soddisfacente.

L'arco narrativo di maturazione e autoconoscenza dei personaggi fa sì che la botta nostalgica, quando arriva (e arriva, oh, se arriva) lo faccia in modo organico, naturale: non è imposta o forzata, ma guadagnata, una diretta conseguenza della crescita emotiva ed esperienziale dei protagonisti. Proprio per questo, colpisce dritto al cuore, e non lascia quell’impressione di fan service che spesso caratterizza operazioni di questo tipo. Certo, il combattimento finale non brilla per originalità: ma, in fondo, tutte le grandi storie si somigliano, e questa non poteva fare eccezione.

Ghostbusters – Legacy è un tentativo riuscito di portare una delle saghe più amate degli anni Ottanta nel nuovo millennio. Reitman dimostra un chiaro amore per il materiale originale, e riesce abilmente a bilanciare gli elementi horror (una delle chiavi del successo del primo film, anche se spesso si tende a dimenticarlo) e di commedia - anche se ovviamente non raggiunge le vette del primo film (e come potrebbe?). Reitman indulge nella nostalgia solo lo stretto necessario, e realizza un film che, pur non osando nulla di eccessivamente originale, riesce comunque a trovare soluzioni intelligenti per rinnovare la saga senza bisogno di stravolgerla. Non è poco.

*** 1/2

Pier

domenica 14 novembre 2021

La Scelta di Anne (In pillole - #21)

Una scelta di libertà


Il vincitore del Leone d'Oro alla Mostra cinematografica di Venezia 2021 è un racconto secco, crudo, che non fa sconti e non concede alcun momento al pietismo o ai sentimenti. Audrey Diwan parla dell'impossibilità di un aborto nella Francia degli anni Sessanta (quando l'aborto era ancora illegale) per parlare dell'oggi. Dei luoghi in cui questo diritto viene apertamente osteggiato, certo, ma anche di quelli in cui gli ostacoli sono più sotterranei e invisibili, ma non per questo meno presenti: La scelta di Anne è infatti un film fatto di sguardi, assenze, omissioni, silenziosi rimproveri che cercano di condizionare la protagonista ancora di più di quelli espliciti. 

A ben vedere, Diwan non parla solo di aborto, ma allarga il suo discorso alla libertà femminile tout court, al diritto di poter controllare e decidere di se stesse. Anne (interpretata da Anamaria Vartolomei, magnetica e perfetta nella parte)  non sta solo scegliendo di non avere un figlio indesiderato, ma sta affermando una più ampia libertà di scegliere - scegliere di non avere un figlio, scegliere di non dover sacrificare se stessa, i suoi sogni, le sue speranze. 
Il controllo sul suo destino passa dal controllo del proprio corpo, un corpo portato al centro della scena grazie a una regia cruda ma creativa che ne segue sofferenze e mutazioni, senza omettere nulla. 

La scelta di Anne è un film appassionato senza essere passionale, militante senza indulgere nell'introspezione: e per questo può, a tratti, risultare freddo e distante. È un film verista, che racconta la sua vicenda con piglio quasi cronachistico, mentre gli eventi si susseguono con un'inevitabilità quasi biblica, con Anne, novella Giobbe, sempre più sola ma sempre più determinata nell'inseguire la sua autoaffermazione.

*** 1/2

Pier

martedì 9 novembre 2021

The French Dispatch

Qui, lì, in nessun luogo


Alla morte di Arthur Howitzer Jr., fondatore di The French Dispatch, il supplemento domenicale del quotidiano "The Evening Sun" di Liberty (Kansas), la redazione si riunisce per ricordarlo. Scopre che Howitzer ha deciso che, alla sua morte, il periodico, con sede nell'immaginaria cittadina francese di Ennui-sur-Blasé, dovrà chiudere. La redazione si prepara dunque a stampare l'ultimo numero, fatto di tre storie molto diverse, eppure rappresentative della fervida vita sociale e culturale del paese che lo ospita.

Con The French Dispatch, Anderson si cimenta con nuovi linguaggi (il bianco e nero), soluzione espressive (i cambi scena visibili), generi (il poliziesco/cinema d'azione): pur mantenendo il suo inconfondibile sguardo, è un film diverso, sperimentale, che prova a cercare nuovi modi di raccontare le sue storie fatte. 
Il risultato non è convincente come quello di altri registi "usciti dal seminato" - anche a causa della struttura a episodi, che detrae un po' dal coinvolgimento emotivo che solitamente è la forza dei film di Anderson - ma è comunque estremamente affascinante: è sempre una gioia vedere un regista affermato che prova nuove strade, cercando di reinventarsi senza rinunciare a essere se stesso.

La sperimentazione è visibile già nella struttura a episodi e nel tema: The French Dispatch è un'ode al giornalismo narrativo e, più in generale, all'arte del racconto, al coraggio necessario per avere uno sguardo forte, distintivo e per raccontare il mondo per come lo vediamo, senza compromessi. È anche il film più "politico" di Anderson: il conflitto generazionale, da sempre presente nei suoi film, si fa protesta di piazza, il razzismo e l'omofobia fanno capolino in modo delicato ma di impatto, e la polizia compie a favore di camera azioni che richiamano all'omertà che circonda i pestaggi fuori e dentro le carceri, spesso impuniti. 

La prima volta di Anderson con il bianco e nero convince, ed è splendida nella sua semplicità e pulizia: in alcune scene i bianchi e neri che sfumano con eleganza l'uno nell'altro, la luce soffusa di un ricordo nostalgico; in altre sono più netti, definiti, quasi espressionisti nel loro delineare luci e ombre. Le periodiche e impreviste incursioni di colore (splendida quella che vede protagonista Saoirse Ronan) hanno una qualità onirica, e contribuiscono a trasportare la vicenda in un altrove che è un "qui" diverso per ciascuno spettatore.

La prova del cast è, come sempre, sontuosa: spiccano Chalamet e Del Toro, divertiti e sornioni, e soprattutto un dolente Jeffrey Wright, cuore pulsante del terzo atto che torreggia su tutti gli altri per peculiarità del personaggio (un giornalista culinario che vuole intervistare il più famoso chef di "cucina poliziesca") e portata emotiva del suo passato.

The French Dispatch può apparire superficiale a causa di un estetismo a limiti del perfezionismo e di un sapore per la messa in scena teatrale, a volte in maniera esplicita. Tuttavia, sotto l'abito buono ed elegante si intuisce un cuore pulsante fatto di personaggi bizzarri ma vivi, reali: un gruppo di adorabili asimmetrici costretti a esibirsi su un palco simmetrico, tondi in un mondo quadrato, perennemente alla ricerca di un qualcosa che, come nella vita, finisce spesso per non arrivare. Ma, sembra dirci Anderson, è nell'attesa, nella continua aspirazione che si realizza l'essere umano: un messaggio vecchio di secoli, ma che sembra sempre più vero nella società odierna.

È un film con una grande amarezza di fondo, un senso di non-finito, di interruzione improvvisa e indesiderata, un profumo di sogni non realizzati che accompagna tutte le storie e la vicenda dell'editore e del suo giornale. The French Dispatch è, in questo senso, un perfetto ritratto della nostra epoca, soprattutto per i giovani e le minoranze: un tempo di eterna attesa, di riconoscimenti cercati, inseguiti, ma mai raggiunti, un eterno presente in cui il passato è un macigno lasciatoci da altri e il futuro ha, forse, smesso di esistere.

*** 1/2

Pier

domenica 7 novembre 2021

Ultima Notte a Soho (In pillole #20)

La trappola della nostalgia


Il mito della swinging London ha ancora una fascinazione potente, quella di un'epoca vitale, energizzante, fatta di locali, canti, feste, in cui tutto era possibile e a portata di mano. Eloise è cresciuta con questo mito, cullata dalle musiche ascoltate sui 33 giri della nonna, tra Petula Clark e Cilla Black: non sorprende, dunque che, quando scopre che la Londra moderna è ostile, competitiva, e alienante, il suo istinto sia quello di rifugiarsi nel passato, abbandonandosi a una rêverie che, per un certo periodo, le permette di avere successo nella scuola per stiliste e di tornare a essere felice. 

La premessa potrebbe ricordare Midnight in Paris: ma laddove Woody Allen rendeva il passato sognato un mondo decisamente più appetibile di quello reale, Wright decide di sollevare il tappeto della nostalgia e guardare in faccia alla realtà della Londra anni Sessanta, una città che sotto le luci scintillanti nascondeva un sottobosco ostile, predatorio, la materia di cui sono fatti gli incubi. Il film diventa quindi un thriller hitchcockiano che sconfina nel territorio del romanzo gotico, in cui il confine tra realtà e sogno diventa sempre più sottile, e il passato è un mostro in agguato dietro una porta, pronto ad assalirti. 

Edgar Wright realizza forse il suo film cinematograficamente più maturo, in cui tutti gli elementi si incastrano alla perfezione, dalla fotografia - evocativa e "abbagliante" in alcuni momenti, cupa e addirittura gore in altri - alla splendida colonna sonora (preparatevi, vi entrerà in testa e non se ne andrà più). La scena nella sala da ballo in cui le due protagoniste si alternano sulla pista in un piano sequenza di rara energia e vitalità, è una piccola gemma in un film che conquista i sensi, grazie anche alle splendide prove delle due attrici protagoniste. Thomasin McKenzie offre il giusto connubio di innocenza e sociopatia alla sua Eloise, e Anya Taylor-Joy è semplicemente ipnotica nei panni di Sandie: la scena del canto è un pezzo di rara bravura.

Ultima notte a Soho è un film che non ha paura di essere uno, nessuno, e centomila, trascinante nella sua capacità di cambiare faccia, genere, direzione narrativa, creando un'esperienza visiva conturbante, che trasporta lo spettatore nei sogni e negli incubi della swinging London.

****

Pier

mercoledì 3 novembre 2021

The Last Duel

La verità della vittima


Jean de Carrouges e Jacques Le Gris sono due nobili rivali dal carattere molto diverso: impulsivo e tradizionale de Carrouges, calcolatore e arrivista Le Gris. Quando de Carrouges sposa Marguerite de Thibouville, Le Gris ne è subito attratto. Approfittando di un'assenza di de Carrouges, Le Gris violenta Marguerite. Quando questa lo confessa al marito, scoprirà quanto poco valga la sua parola di fronte a quella del marito e del suo stupratore.

Spesso i film storici diventano un'occasione per riflettere su qualche aspetto della società contemporanea: attraverso lo sguardo "filtrato" del passato, il film storico permette di vivisezionare strutture di potere e dinamiche sociali che sono in atto ancora oggi. The Last Duel rientra appieno in questo filone: attraverso il racconto dell'ultimo "duello di Dio" legittimato dalla legge nella Francia del XIV secolo, Scott affronta il tema della cultura dello stupro e della mascolinità tossica attraverso un racconto alla Rashomon. 
Il film ci mostra gli eventi dal punto di vista dei tre protagonisti: l'accusato, il marito della vittima, e soprattutto la vittima, trattata come un oggetto e costretta a continue umiliazioni per sostenere la veridicità delle sue accuse. Un fatto storico, ma ancora attuale: sarebbe, infatti, bello dire che le cose sono cambiate, ma la cronaca di dice, purtroppo, che non è così.

Quello che sorprende, tuttavia, è l'angolazione con cui Scott la racconta, soffermandosi senza alcuna pietà sulla vanagloriosa visione di sé dei due uomini protagonisti, pieni di sé al punto di distorcere la realtà più per mantenere la propria immagine di "uomini onorevoli": indicativa, in questo senso, è soprattutto il punto di vista dello stupratore, che non nega lo stupro ma lo trasforma in un sesso consensuale, in cui il diniego della vittima viene interpreato come sintomo di desiderio. 

La scelta registica, vincente in tal senso, è di ripetere per tre volte quasi tutta la vicenda, anziché solo lo stupro, e soprattutto di ridurre al minimo le variazioni tra le tre versioni della storia. Sfruttando il rigore della certosina sceneggiatura  (scritta da Nicole Holofcener insieme al premiato duo Affleck & Damon), Scott si concentra su piccoli dettagli (delle scarpe tolte o perse), espressioni, reazioni, sfruttando la variazione del punto di vista per mettere a nudo come la visione di sé dei due protagonisti - virili, grandi amanti, onorevoli - sia un'illusione, messa a nudo dallo sguardo spietato di Marguerite. 
Il duello finale mette ulteriormente a nudo l'ottusità dei protagonisti, smontando la mitologia dle "cavaliere onorevole" per offrirci un combattimento per nulla onorevole, rude, grezzo. 

Questa scelta registica, tuttavia, presenta anche degli svantaggi: alla lunga, l'originalità del film ne soffre, e la ripetitività a tratti si fa sentire. Tuttavia, il film resta asciutto, efficace e attuale, e mette perfettamente a nudo non solo le storture della società patriarcale, ma anche quelle indotte da un'idea di mascolinità animalesca e brutale che permea l'agire e il pensare dei due protagonisti. Il film riesce a catturare l'attenzione anche grazie a un'ottima prova dei protagonisti, tra cui spiccano un Ben Affleck stranamente (ma efficacemente) gigione e Jodie Comer, perfetta nella parte della protagonista.

*** 1/2

Pier

martedì 2 novembre 2021

The Green Knight

Le donne, i cavallier, l'arme, gli orrori


A Camelot, nel giorno di Natale, un anziano re Artù tiene udienza. Si presenta, a sorpresa, il Cavaliere Verde, misterioso gigante dall'aspetto di un albero, e lancia una misteriosa sfida. La raccoglie Gawain, nipote del re. Per mantenere i patti, dovrà intraprendere un percorso che lo porterà a fronteggiare fantasmi, creature fantastiche, briganti, e tentazioni della carne, costringendolo a interrogarsi di continuo sul significato di onore, consapevole che, alla fine del suo viaggio, lo attende la morte.

La saga di Re Artù è una delle più raccontate dai cineasti, tra trasposizioni (più o meno) fedeli (Excalibur), adattamenti di successo (La spada nella roccia, a sua volta tratto dalla splendida rilettura delle storie arturiane di T.H. White, Re in eterno), tentativi di storicizzazione del mito (King Arthur), e riletture in chiave action (King Arthur: La leggenda della spada) e romantica (Il primo cavaliere). 
Era dunque difficile pensare di riuscire ad approcciare la materia con uno sguardo del tutto nuovo, creativo, originale.

La scelta vincente è puntare su un mito meno conosciuto della saga arturiana, il romanzo allitterativo Gawain e il cavaliere verde che costituisce una delle più importanti testimonianze letterarie del periodo medioevale: scritto in medio inglese, è stato trasposto in inglese moderno numerose volte, con la versione forse più celebre a opera di J.R.R. Tolkien. La scelta è vincente non solo perché permette uno sguardo fresco rispetto a quello che avrebbe offerto l'ennesimo racconto delle vicende di Artù (o Lancillotto), ma anche perché la storia è intrisa di simbolismo, immersa in un'atmosfera onirica che il regista Lowery abbraccia fino in fondo, trasformando un romanzo cavalleresco in un incubo a occhi aperti, un viaggio infernale alla ricerca dell'onore.

Il risultato è un film che ricorda ciò che potrebbe partorire David Lynch se approcciasse la materia arturiana, un intreccio continuo di stregoneria, sogni, e umana miseria in cui il reale e il sovrannaturale si permeano fino a confondersi in un unica grande visione. Gawain si muove per terre desolate, funeree, in cui la luce di Camelot non è mai arrivata e probabilmente non arriverà mai.



La complessità e la ricchezza simbolica del materiale di partenza sono tali da permettere molteplici livelli di lettura: dal rapporto uomo-natura (natura creatrice, natura matrigna) al significato di mascolinità, passando per una riflessione sul potere e per lo scontro tra ragione e sentimento, paganesimo e cristianità. In primo piano, tuttavia, c'è l'emancipazione del giovane Gawain, un personaggio molto diverso dall'archetipo del cavaliere che siamo abituati a conoscere: esitante, pieno di dubbi, insicuro persino sul suo voler diventare cavaliere, affronta la missione che gli si para davanti quasi controvoglia, trascinato più dall'istinto di sopravvivenza che da un vero desiderio di avventura. Il suo è un percorso di maturazione che si fa rito iniziatico e anche seduta psicoanalitica, grazie anche ad alcune modifiche apportate da David Lowery al testo originale (potete leggerne qui, ma attenti agli spoiler). L'onore viene cercato e, forse, trovato: ma ne valeva davvero la pena?

Il viaggio di Gawain può essere visto sia come una discesa agli inferi che come una ricerca della vita, sia una catabasi che come una catarsi: se da un lato viaggia verso la morte, dall'altro fugge da una corte crepuscolare, moribonda, stantia. Re Artù e Ginevra sono vecchi, cadaverici, relitti di un'epoca passata, laddove Gawain è giovane e pieno di vita. Il grigio della civiltà si contrappone al verde del cavaliere, simbolo, tra le altre cose, della natura che travolge il fuggevole passaggio dell'uomo. Tutto, intorno a lui, è morte: il suo viaggio prosegue per lande desolate, immerse in una nebbia oltremondana e infestate da spettri ed esseri che di umano hanno ormai soltanto il nome. Gawain soffre la fame, il freddo, la paura, e noi ci trasciniamo con lui per un sentiero che non vorrebbe percorrere ma che continua a seguire, nonostante alla fine lo aspetti, letteralmente, la morte.



La trama tradisce a tratti la natura "ingenua" e mitologica del romanzo, ma Lowery fa sì che passi tutto in secondo piano, calandola nella logica illogica del sogno e dell'allucinazione. La fotografia è splendida, abbacinante, un'estasi visiva che alterna luci monocrome squillanti a una desaturazione estrema, e in cui ogni location pare uscita da un incubo o da un sogno, offrendo una straniante commistione di reale e fantastico che arricchisce i simbolismi della trama. Ogni inquadratura è studiata con precisione maniacale, e offre all'osservatore più attento dei dettagli che consentono di apprezzare appieno la trama sia dal punto di vista letterale che da quello metaforico. 

Dev Patel è un Gawain perfetto (e chi conosce le leggende arturiane può apprezzare l'appropriatezza di rendere lui e sua madre di un'etnia diversa rispetto agli altri cavalieri), e rende appieno la titubanza, l'incertezza, e il senso dell'onore in fieri del suo personaggio. Al suo fianco, Alicia Vikander convince in un doppio ruolo, e offre un monologo sul "verde" di grande portata emotiva. 

The Green Knight è un film coraggioso, creativo, con una visione forte e originale che viene portata avanti senza aver paura di confondere lo spettatore, invitandolo a lasciar andare la riflessione razionale per lasciarsi trasportare dalla forza delle immagini e da una storia che parla più all'inconscio. Lasciatevi trascinare: non ve ne pentirete.

****1/2

Pier

giovedì 28 ottobre 2021

Freaks Out

Circensi senza gloria


Roma, 1943: nella città occupata dai nazisti, quattro ragazzi speciali (Matilde, Cencio, Fulvio, e Mario) si esibiscono nel circo di Israel. Dopo la sua misteriosa scomparsa, i freaks saranno costretti a trovare la loro strada: cercano quindi rifugio al circo gestito dai nazisti , sperando di trovare una nuova famiglia per sfuggire a un mondo che li ha sempre trattati da fenomeni da baraccone.

Il neorealismo di Roma città aperta, l'amore per il circo di Fellini, i supereroi Marvel, e in particolare gli X-Men. Gabriele Mainetti, autore di Lo chiamavano Jeeg Robotuna delle più belle sorprese del cinema italiano degli ultimi anni, sembrava essersi imbarcato in un'impresa impossibile, folle: trovare l'amalgama tra questi ingredienti apparentemente incompatibili, evitando di far impazzire la maionese cinematografica.

Ma cosa sarebbe il cinema senza un pizzico di follia? Mainetti si rivela chef capace, e realizza un film che non solo funziona, ma entusiasma: un'esplosione di creatività visiva e narrativa, che trasporta lo spettatore indietro nel tempo, in bilico tra mondo reale (la Roma occupata dai nazisti) e fantastico.
La Roma occupata è ritratta con una fotografia cupa, tra toni di grigio e seppia: è una città fatta di fango e macerie, dove si muovono personaggi cenciosi e disperati. Il ritratto dei partigiani è ugualmente realistico, privo di ogni idealizzazione, tra ferite, amputazioni e i risultati di una vita in clandestinità. Il gruppo guidato dal Gobbo è una sporca dozzina agguerrita e disperata, pronta a sacrificarsi per i propri ideali e per salvare chi soffre. Gli stessi freaks sono dei portenti straccioni, segnati nell'aspetto (ma non nel cuore) dalla vita di strada.

Il circo tedesco, invece, sembra uscito da un film Disney o dai sogni di Fellini, ed è una meraviglia per gli occhi, un'esplosione di colori e invenzioni. Sulla pista del circo, anche i freaks si trasformano, diventando dei personaggi da fiaba: le loro esibizioni (sia in pista, sia durante le loro avventure) sono oniriche al punto giusto e lasciano costantemente a bocca aperta, soprattutto quelle del Cencio interpretato da Pietro Castellitto. Gli effetti speciali sono di altissimo livello e non hanno nulla da invidiare a quelli di un film hollywoodiano.

In generale, tutto il comparto visivo offre una prova abbacinante, che colma il cuore di gioia e meraviglia - ma anche di rabbia al pensiero di quanto spesso il cinema italiano si accontenti della mediocrità quando è capace di creazioni di tale livello. Mainetti gira con mano sicura, muovendosi con disinvoltura ammirevole tra azioni di guerra (splendidi, in particolare, l'assalto notturno al treno e il bombardamento di apertura) momenti fantastici e scene più intime.

Queste ultime, pur peccando ogni tanto di retorica, risultano comunque riuscitissime grazie alle ottime prove dei protagonisti: Tirabassi è un Zampanò dal cuore d'oro, Santamaria un intellettuale nascosto da un aspetto ferino, Castellitto uno stralunato e delizioso domatore di insetti, Martini un pagliaccio magnetico (letteralmente e metaforicamente), Mazzotta un memorabile capo partigiano. A brillare (anche qui, letteralmente e metaforicamente), tuttavia, è la semiesordiente Aurora Giovinazzo, splendida interprete di Matilde, che si muove sorprendentemente a suo agio tra una varietà di registri tale da far tremare le gambe a sue colleghe molto più quotate, tra omaggi ad Anna Magnani, scene d'azione, e commoventi confessioni.

Freaks Out è una gioia per gli occhi e per il cuore, un film corale che cattura, condensa e rielabora il meglio del nostro cinema, regalando uno spettacolo che conquista e facendoci affezionare a questi circensi senza gloria che diventano gli eroi di questa meravigliosa fiaba bellica.

**** 1/2

Pier

Nota: questa recensione è stata originariamente pubblicata su Nonsolocinema.

martedì 26 ottobre 2021

Venom - La furia di Carnage

In (parziale) difesa dell'idiozia


Dopo gli eventi del primo film, Eddie Brock è tornato a fare il giornalista. Un serial killer, Cletus Kassidy, rifiuta di parlare con altri che con lui. Grazie all'aiuto di Venom, Brock riesce a decifrare i disegni apparentemente insensati nella cella di Kassidy e a scoprire dove sono sepolte le sue vittime. Quando Eddie torna a intervistarlo per l'ultima volta, prima dell'esecuzione della condanna a morte, Kassidy riesce a farlo avvicinare e ad aggredirlo. Nella colluttazione, lo morde, finendo infettato dal simbionte alieno e dando vita a un nuovo nemico: Carnage.

"Squadra che vince non si cambia" è il motto di ogni sequel di film di successo, e sembra anche la strada abbracciata da questo secondo capitolo della saga di Venom. Il primo film ha avuto successo per l'interpretazione sopra le righe di Hardy e l'umorismo facilone? Nel secondo film ritroviamo ambedue le cose, ma questa volta sono decisamente al centro della vicenda. Andy Serkis ha infatti un'idea di regia chiara, e si vede fin da subito: quello che nel primo film sembrava un risultato fortuito, un mix di ingredienti mal combinati che miracolosamente aveva prodotto un piatto appetibile, qui viene invece pianificato e perseguito fin dalle prime scene. 

Serkis sceglie di mantenere l'impianto "anni Novanta" del film, con tanto di origin story in apertura, e punta con decisione sullo humor da adolescenti e la dinamica da buddy cop tra Venom e Brock. Quel che prima era solo accennato, pezzi di un puzzle scombinato e incoerente, diviene qui il cuore del film, la sua trave portante, la sua anima. Un'anima caciarona, certo, con un senso del pudore pressoché assente, personaggi tipizzati e situazioni che sfidano la sospensione dell'incredulità: ma questa volta è tutto voluto, coerente, e coeso. Può non piacere e far storcere il naso, perché riporta l'orologio dei film di supereroi indietro di una ventina d'anni come scelte narrative, estetica, e trattamento dei personaggi: ma è una scelta, e in quanto tale rende il film quantomeno più centrato e focalizzato rispetto al primo capitolo.

Tuttavia, l'assenza di nuove dinamiche fa sì che l'effetto sorpresa che aveva fatto le fortune di pubblico del primo capitolo sia qui del tutto assente. Sappiamo già cosa aspettarci, e raramente veniamo colti di sorpresa, sia dai colpi di scena che dalle battute. A sollevare la qualità media ci pensano, ancora una volta, i due protagonisti: Hardy si diverte un mondo a intepretare il simbionte e il suo ospite Eddie Brock, cui presta un volto segnato dalla vita, stanco, desideroso solo di essere lasciato in pace. Al suo fianco, Harrelson è un Carnage convincente, anche se meno folle dell'originale del fumetto, il che fa un po' perdere d'efficacia il suo confronto con Venom: la narrativa del villain segnato dalla società è abbastanza abusata, e non è affrontata con profondità sufficiente a renderla originale.

Venom: La furia di Carnage è un film che ha il coraggio di essere stupido, facilone, un film di puro intrattenimento. E, tutto sommato, raggiunge il suo obiettivo, anche grazie a un ritmo serrato e a una durata limitata (poco più di 90 minuti, un unicum in un'epoca in cui la durata eccessiva viene spesso scambiata dai registi per valore artistico). 
Tuttavia, è anche un film che viene dimenticato appena usciti dalla sala, e la cui scarsa memorabilità è da attribuirsi soprattutto a una sceneggiatura sì lineare, ma priva di qualunque guizzo creativo. Peccato, perché sarebbe bastato spingere un po' di più sull'acceleratore della follia per ottenere qualcosa di potenzialmente memorabile.

** 1/2

Pier

martedì 19 ottobre 2021

I film del Marvel Cinematic Universe (Fasi 1-3) - Dal migliore al peggiore

L'universo cinematografico Marvel è, senza alcun dubbio, la più grande novità che ha colpito (travolto, forse) la settima arte negli ultimi vent'anni. Sì, anche più dello streaming, che ha cambiato la modalità di fruizione ma non ha cambiato quasi per nulla le logiche produttive.

Che lo si ami o lo si odi, non si può negare il profondo impatto che il MCU (Marvel Cinematic Universe) ha avuto su come il cinema viene fatto e, persino, concepito. Di recente, alcuni studiosi hanno sostenuto che qualcosa di simile all'MCU fosse, di fatto, inevitabile (come Thanos): la Marvel guidata da Kevin Feige avrebbe semplicemente catturato prima di altri un trend che era già in atto, sfruttandolo al meglio.

Siamo ormai arrivati alla fine della fase 3 del MCU, conclusasi con Avengers: Endgame (qui un utile bigino delle varie fasi). La fase 4 è già iniziata, tra serie TV (WandaVision, Loki, Falcon & Winter Soldier) e film (Black Widow - pur ambientata nel passato, gli eventi che narra influenzeranno la serie su Occhio di Falco - e Shang-Chi). Ho pensato, dunque, che fosse arrivato il momento di fare un bilancio dal punto di vista critico dei film del MCU, facendo una classifica che servisse come spunto per fare qualche riflessione su ciò che è stato il MCU nelle sue diverse fasi.

Nel farlo, mi sono dato due regole:

1) Ripubblicare le recensioni così com'erano, senza cambiare il voto. 
Questo per rendere il più possibile l'impressione avuta sul film "in diretta", non quella del senno di poi. In questo modo, il voto riflette il mio giudizio del film "in sé", senza essere influenzato da ciò che sarebbe venuto dopo - sia in termini del puzzle narrativo MCU, sia in termini di evoluzione di linguaggio e tecnologia. 
Mi sono limitato a convertire il voto in stelline in un voto in decimi. In caso di parità di voto, mi sono affidato al mio ricordo dei film per decidere la classifica.

2) Non inserire film non recensiti.
Per lo stesso motivo di cui sopra, nella classifica non compaiono i film che non avevo recensito al tempo, come Iron Man (non esistevamo ancora, amici) e Black Panther. 

Bene, ora che abbiamo assolto alle questioni formali, possiamo cominciare. Pronti? Eccovi l'infallibile e definitiva classifica dei film MCU secondo Film Ora!

Foto di gruppo

La Classifica

Il podio

1. Avengers: Infinity War, voto 9.5

2. Avengers: Endgame, voto 9

3. Captain America: The Winter Soldier, voto 8.5


Le menzioni speciali

4. The Avengers, voto 8

5. Ant-Man and The Wasp, voto 8


I "Bravo, ma non si impegna"

6. Guardiani della Galassia, voto 7.5

7. Ant-Man, voto 7.5


I "Rimandati a settembre"

13. Iron Man 2, voto 5.5

14. Capitan Marvel, voto 5

15. Thor, voto 5

16. Guardiani della Galassia Vol. 2, voto 5

17. Iron Man 3, voto 4.5



Una breve analisi

La classifica, come detto, è frutto del solo giudizio di chi scrive, ed è parziale. Tuttavia, analizzandola si possono notare due trend interessanti (al netto della mia forse esagerata passione per Ant-Man).
Quelle che seguono sono analisi senza alcuna pretesa di validità statistica, ma che spero possano offrire qualche spunto di riflessione interessante a chi legge. D'altronde, se siete arrivati fin qui, forse un minimo di fiducia in chi scrive la avete, in fondo.

La serializzazione della creatività
Anche senza bisogno di fare un'analisi dei dati, si nota facilmente come pochi film ottengano l'insufficienza, pochi di più raggiungano l'eccellenza, e la grande maggioranza (sette su diciassette, il 41.1%) raggiunga una sorta di aurea mediocritas.

Ma guardiamo ai trend nel corso del tempo: a una prima analisi, sembrerebbe che la qualità media sia cresciuta di fase in fase. La media dei voti passa infatti dal 6.17 della prima fase al 7.06 della terza, passando per il 6.80 della seconda. Quello che la media non rivela, tuttavia, è come questo valore sia cresciuto nel tempo.

Il grafico qui sotto dà una risposta, evidenziando come l'aumento del voto medio non sia dovuto a un aumento dei film "eccellenti", ma da un aumento notevole di quelli "medi" - quell'aurea mediocritas di cui parlavamo prima. E se è vero che la qualità di un universo narrativo e di un sistema produttivo si giudica sulla base della media, e non delle eccellenze, è anche vero che la ricerca ci dice l'esplorazione "senza formula" porta sì a un numero maggiore di film meno riusciti, ma anche a un numero di eccellenze che sono davvero tali. 


Questo dato non sorprenderà più di troppo chi segue il MCU: il giudizio riflette infatti una già riscontrata tendenza da parte del MCU a percorrere la "strada già nota", prendendo meno rischi possibili. Siamo di fronte a una sorta di Moneyball della creatività, l'applicazione di una formula che si è rivelata vincente, e proprio per questo non viene mai cambiata, se non marginalmente (per chi fosse interessato, qui un'analisi più approfondita degli ingredienti della formula)
Abbiamo già parlato, anche di recente, di come i film Marvel inizialmente osassero di più, cercando di dare un'anima differente a ciascun supereroe sia dal punto di vista narrativo, sia da quello visivo. Con il passare del tempo, questa esplorazione è stata abbandonata in favore di una standardizzazione che privilegia la somiglianza tra film, con solo un pizzico di novità.

Il punto è che la ricerca ci suggerisce che questa formula funziona, e funziona in varie discipline, dall'arte alla scienza. Dal punto di vista puramente aziendale, dunque, non esiste alcun incentivo a modificarla. 

Il discorso cambia, tuttavia, se si guarda all'aspetto artistico.
La formula ha permesso alla Marvel di ridurre il numero di film meno riusciti, ma ha anche fatto sì che il numero di quelli veramente riusciti rimanesse di fatto uguale. Viene quindi da chiedersi se questa sia davvero la formula migliore o l'unica formula possibile. La risposta sembrerebbe essere "no": altre case di produzione di grande successo commerciale, come la Pixar, hanno trovato formule alternative che accettano e anzi incoraggiano le diversità di stili e visioni tra registi, e sembrano garantire una maggiore creatività senza sacrificare la necessità di profitto che, piaccia o non piaccia, è fondamentale per le major. E la formula Pixar ha già dimostrato di poter essere replicabile, come dimostra il caso della Disney Animation - data da tutti per morta, e tornata agli antichi splendori grazie agli spunti offertigli dai "cugini" pixariani. E, in fondo, anche la Marvel è parte della stessa, grande famiglia.

E, come in ogni famiglia, si litiga.
Il Marvel Cinematic Universe è qui per restare: non solo ha segnato il cinema degli ultimi vent'anni, ma volenti o nolenti segnerà anche quello dei prossimi dieci almeno. La serializzazione "a tavolino" di Feige, accuratamente pianificata anziché essere guidata dal successo o insuccesso di questo o quel titolo, è diventato un modello, al punto che i fratelli Russo, registi degli ultimi Avengers, hanno creato una casa di produzione che si occupa esclusivamente di creare nuovi universi cinematografici (potete leggerne qui).

Con l'aumentare del successo, però, sarebbe lecito aspettarsi un maggior coraggio produttivo, uscendo maggiormente dal seminato per provare nuove strade, linguaggi, visioni: qualcosa si è già intravisto con le serie TV (soprattutto WandaVision), ma è ancora troppo poco, soprattutto per una casa di produzione che può decisamente permettersi un passo falso o due in nome di una maggiore creatività futura. Da grandi poteri, in fondo, derivano grandi responsabilità.

Pier

domenica 10 ottobre 2021

Shang-Chi e la Leggenda dei Dieci Anelli

 Perdersi sul più bello


Sean e Katy sono due amici e colleghi. Nonostante gli ottimi risultati negli studi, lavorano entrambi come parcheggiatori in un hotel di San Francisco. La loro vita cambia per sempre quando Sean viene aggredito su un autobus da un gruppo di sgherri, e questi rivela di possedere straordinare capacità nelle arti marziali. Sarà l'inizio di un viaggio nel passato di Sean che li porterà a scoprire che miti e leggende sono fin troppo reali.

C'è qualcosa di frustrante nella visione di Shang-Chi e la leggenda dei Dieci Anelli, una sensazione di opportunità sprecata che già attraversava Black Widow ma che qui raggiunge livelli più elevati. La frustrazione deriva dal fatto che la prima metà di Shang-Chi è qualcosa che non avevamo mai visto nell'universo Marvel: un vero film di arti marziali. Certo, le serie Netflix ci avevano già provato, con risultati buoni (Daredevil) e pessimi (Iron Fist), ma al cinema la Marvel era sempre rimasta nell'alveo de "combattimenti ripresi da qualcuno con un forte tremore alla mano", relegando persino grandi attori-atleti come Scott Adkins a cameo ai limiti del comico.  

Shang-Chi invece inizia proprio come un kung-fu movie mascherato da storia di supereroi, in cui si fondono abilmente estetica e tematiche degli wuxia (i film cappa e spada tradizionali cinesi) con quelle dei film di Bruce Lee (non a caso l'ambientazione si sposta dalla "solita" New York a San Francisco). Il risultato è una prima parte frizzante, culminante in una fuga sul bus che è, a oggi, forse la miglior scena di combattimento dell'universo Marvel. La cultura cinese finalmente non è solo la scusa per un'ambientazione esotica, ma l'anima del film, e viene trattata con grande rispetto e attenzione (il che rende ancora più inspiegabile la decisione di non lasciar uscire il film in Cina).

Poi il film, lentamente ma inesorabilmente, vira verso il fantasy e l'abuso di computer grafica, e perde del tutto la sua anima: anziché darci lo scontro tra Shang-Chi e suo padre - un villain ben costruito, sfaccettato, ben motivato, e splendidamente interpretato da Tony Leung - decide di regalarci l'ennesimo scontro tra mostri giganteschi: ben disegnati, per carità, e comunque rispettosi della cultura e del folklore cinesi, ma comunque deludenti rispetto al (quasi) realismo che aveva caratterizzato il film fin lì.

Restano l'ottima prima metà e la prova convincente di tutto il cast: Simu Liu è un ottimo protagonista, e il suo passato da stuntman lo rende credibile e convincente anche nelle scene di combattimento; Awkwafina è una spalla comica riuscita, mai invadente e "organica" rispetto alla narrazione; Tony Leung e Michelle Yeoh sono splendidi come sempre, e donano carisma e tradizione ai loro personaggi e all'intero film.

Shang-Chi e la leggenda dei Dieci Anelli è davvero un'occasione persa per fare qualcosa di diverso, riprendendo le fila di quello che era l'universo Marvel ai tempi della sua creazione, in cui ogni supereroe aveva un'anima diversa, raccontata con il linguaggio di un sottogenere diverso (la commedia d'azione anni Ottanta per Iron-Man, lo spionaggio per Capitan America, l'epica per Thor). Poi si è scelta la strada dell'omologazione, sia narrativa che visiva, e Shang-Chi è solo l'ultima delle vittime: una vittima, però, che fa più rumore delle altre, sia per la relativa libertà di cui poteva godere il film (l'eroe protagonista non è esattamente celeberrimo), sia per il genere che si trovava ad affrontare, il cui linguaggio offre ottime opportunità spettacolari. Un vero peccato.

***

Pier

giovedì 7 ottobre 2021

La Scuola Cattolica

Pornografia del dolore


In un liceo della Roma bene si intrecciano le storie di molti ragazzi, alle prese con la “malattia incurabile” dell’essere nati maschi. Tra famiglie assenti e ipocrisie borghesi si nascondono mostri, che usciranno allo scoperto in modo tragico quando due ex studenti compiranno quello che diverrà noto come il massacro del Circeo. 

Una premessa: chi scrive non ha letto il libro da cui il film è tratto. Tuttavia, leggendo varie recensioni online, si evince che il tema del testo non è il massacro del Circeo, bensì un’analisi del sostrato culturale in cui questo è maturato. Un tema di grande interesse, e che anche il film esplora nella prima parte con buona efficacia, avvalendosi di un giovane cast corale di ottimo livello. 

Il film nella prima parte procede per quadri, non tutti ugualmente riusciti, che insieme formano però i tasselli di un mosaico storico e sociale. Amicizie, attrazioni, liti, riti di iniziazione, tensioni familiari: tutto concorre a formare il ritratto di una generazione di maschi disorientati, storditi da aspettative inconciliabili e tossiche, annegate in un mare di ipocrisia borghese e cattolica. 

Già nella prima parte, tuttavia, si insinua nel racconto la preparazione del massacro del Circeo, che poi occupa quasi per intero la seconda metà. E qui il film va alla deriva, annegando in un voyeurismo della violenza eccessivo, insensato, quasi pornografico, che non solo manca di rispetto alle famiglie delle vittime ma è anche del tutto inutile e scentrato ai fini narrativi. Il film da corale diventa personale, da ritratto sociologico diventa il racconto di un delitto ritratto con totale assenza di grazia e senso della messa in scena. Lo scopo è, probabilmente, scioccare lo spettatore; il risultato è quello di infastidirlo e distruggere quanto di buono il film aveva fatto fin lì. 

La scuola cattolica è l’ennesimo esempio di un cinema italiano deteriore, incapace di non spettacolarizzare tutto (sentimenti, dolore, delitti) e di muoversi nei grigi: o bianco, o nero, altrimenti lo spettatore si annoia. Nulla di più sbagliato: lo spettatore si annoia e, anzi, si adira quando gli viene promesso un film intelligente, tematicamente ricco, riflessivo, e si ritrova invece davanti la banalizzazione di un delitto già stra-conosciuto, trasformato in spettacolino per guardoni.

**

Pier

Nota: questa recensione è stata originariamente pubblicata su Nonsolocinema.

venerdì 1 ottobre 2021

007 - No Time do Die

Licenza di chiudere


James Bond si è ritirato dal servizio attivo, e si gode la pensione con Madeleine Swann, conosciuta durante gli eventi di Spectre. Tuttavia, il passato di entrambi nasconde ancora segreti, e tornerà a tormentarli, costringendo Bond a tornare in servizio.

Fin da Casino royale, tutta l'esperienza di Daniel Craig come 007 è stata segnata dal tentativo di rinnovare il personaggio, sia a livello caratteriale che narrativo. La stessa scelta di Craig - un Bond grezzo, muscolare, ruvido - andava in quella direzione. Attraverso cinque film, autori e registi diversi hanno condiviso l'obiettivo di creare un universo narrativo coerente, con un arco psicologico del protagonista che si dipana su più film, personaggi ricorrenti, filoni di trama che continuano e si risolvono nel film successivo. No time to die aveva l'ingrato compito di tirare le fila, agendo quasi da Avengers: Endgame di questo ciclo di Bond, e al tempo stesso di continuare questo processo di rinnovamento.

E le novità, indubbiamente, non mancano: l'approccio narrativo è focalizzato sui personaggi più che sulla missione, al punto che questa sembra spesso secondaria rispetto al percorso. Qui si notano le prime differenze con Skyfall (ma anche con Casino royale), che invece era riuscito a mantenere maggiormente in equilibrio le due anime del film - quella dei Bond classici, fatti di avventure rocambolesche e coolness, e quella del ciclo di Craig, focalizzata sui rovelli interiori del protagonista. 

L'impalcatura regge solo grazie a una sceneggiatura con ottimi dialoghi (in alcuni è evidente la mano di Phoebe Wallers-Bridge, chiamata a "svecchiare" alcuni aspetti della sceneggiatura originale) e a una regia solida da parte di Fukunaga, che dimostra ottima mano per l'action, muovendosi con maestria tra i momenti più realistici e quelli più fumettistici, e regalando alcune sequenze memorabili come quella a Matera e una scazzottata in piano sequenza degna di quella di Atomica Bionda. A brillare meno del solito sono i set, abbastanza anonimi e derivativi, nonostante alcuni di essi offrissero grandi possibilità creative ed espressive (ad esempio, il giardino di Safin). 
E deludono abbastanza anche i villain -  non come interpretazione, ma come caratterizzazione e centralità nella trama: Rami Malek offre un'interpretazione convincente, che ricorda quelle dei "mostri" del cinema muto, ma il suo Safin manca di spessore drammatico e motivazioni convincenti; e il Blofeld di Waltz è, ancora una volta, sprecato malamente (anche se, paradossalmente, meno che in Spectre).

Il cast è azzeccato e in ottima forma, con un'unica eccezione: una Léa Seydoux in modalità Corinna Negri, incapace di comunicare efficacemente qualunque emozione e continuamente oscurata da chiunque le venga messo a fianco in scena, attrici bambine comprese: il confronto con il precedente interesse amoroso di Bond (la Vesper Lynd/Eva Green di Casino royale) è impietoso. 
La sua prestazione pedestre, per fortuna, non frustra l'ottima prova di Daniel Craig, che incarna alla perfezione questo Bond malinconico e dolente, e di tutto il cast di supporto: accanto ai come sempre ottimi Ralph Fiennes (M), Ben Whishaw (Q) e Naomie Harris (Moneypenny), a questo giro si distingue Ana de Armas, splendida per ironia e presenza scenica nei panni dell'inesperta (?) agente CIA. Una prova, la sua, che accresce ulteriormente il rammarico per aver affidato la parte della protagonista a un'attrice così inconsistente. Buona anche la prova di Lashana Lynch, una 007 (ebbene sì) convincente, anche se forse lasciata un po' troppo ai margini.

Nonostante qualche inciampo narrativo e una spettacolarità inferiore alle attese, il film avvince e convince negli elementi chiave, i colpi di scena, dotati di un notevole impatto emotivo e capaci di capovolgere di continuo le attese dello spettatore fino all'ultimo minuto di film, e di farlo in  modo soddisfacente. 
Sembra facile, ma non lo era affatto, considerando sia la storia produttiva del film, sia l'enorme bagaglio di aspettative che si portava dietro. No time to die doveva stupire, ma anche guardare al passato; tirare le fila, ma al tempo stesso raccontare una storia a se stante. Ci riesce? La risposta è sì: forse non in maniera memorabile, ma senza dubbio in maniera efficace, rendendo onore a un'era di Bond che, nel bene e nel male, ha avuto il coraggio di cambiare l'immagine di un'icona: in tempi in cui si sta spremendo fino all'estremo l'effetto nostalgia, non è poco.

***

Pier