mercoledì 23 dicembre 2009

Rivediamoli - L'infernale Quinlan

Il thriller secondo Orson Welles



Anni '50, confine tra USA e Messico. Mike Vargas, un poliziotto messicano impegnato nella lotta contro i trafficanti di droga, è in luna di miele con la moglie . I due assistono per caso alla morte di un facoltoso imprenditore, la cui auto salta in aria appena attraversato il confine. La polizia americana chiama ad indagare sul delitto il capitano Quinlan, uomo dal carattere difficile e autoritario. Vargas decide di partecipare comunque alle indagini, durante le quali scopre che Quinlan ha prodotto una prova falsa e che questa pratica disonesta fa parte dei suoi abituali metodi di lavoro. Lo scontro tra i due diventa così inevitabile.

Il film è diretto e interpretato da Orson Welles, che fu chiamato a dirigerlo per farne un B-movie a basso costo. Riscrisse completamente la sceneggiatura e realizzò uno dei più complessi, ambiziosi e memorabili thriller di ogni epoca.
La trama è ricca di colpi di scena, tradimenti e voltafaccia sono sempre dietro l'angolo, e ogni personaggio mostra almeno due facce diverse nel corso del film: gli incorruttibili diventano corruttori, e i malvagi si rivelano nel giusto. Tutti i fili si intrecciano alla perfezione fino al gran finale, in cui ogni nodo si scioglie e giunge il momento della resa dei conti.

Il film è sorretto da un cast di attori a dir poco eccezionale: Charlton Heston presta il suo volto al protagonista, un poliziotto tutto d'un pezzo che dovrà venire a patti con la propria moralità; Janet Leigh è perfetta nel ruolo della vittima predestinata che la renderà poi celebre in Psycho; Welles è semplicemente eccezionale, così come Marlene Dietrich, che interpreta la cartomante unica confidente del rude ispettore.
Il personaggio di Quinlan precorre i tempi di almeno vent'anni ed è chiaramente l'antenato di quel poliziotto brutto, sporco e con un forte senso della giustizia che sarà reso celebre da Clint Eastwood nel ruolo dell'ispettore Callaghan. Il suo dramma interiore e la sua incapacità di accettare le regole lo rendono un personaggio da tragedia classica, il cui senso civile è in contrasto con la sua coscienza.

La regia di Welles si avvale di una fotografia straordinaria, fatta di inquadrature non convenzionali, continui cambi di messa a fuoco e piani sequenza memorabili: su tutti spicca quello iniziale, citato anche da Altman ne I protagonisti come il massimo esempio di questa tecnica. Welles riprende uno spostamento in auto per le vie di una città senza uno stacco di montaggio: l'inquadratura procede continua e serrata, come fosse l'occhio di un osservatore che si trova ad assistere alla scena.
Il bianco e nero è utilizzato con funzione espressiva: chiaro e nitido nelle scene movimentate, più sbiadito e torbido quando l'azione si concentra su Quinlan e sulle sue riflessioni , quasi a sottolineare l'ambiguità morale del personaggio. Un simile uso della fotografia era completamente rivoluzionario per l'epoca, tanto che fu utilizzato nuovamente solo molti anni dopo, quando Martin Scorsese realizzò Toro scatenato.

Il film presenta delle analogie tematiche con il capolavoro assoluto di Welles, Quarto Potere. In particolare, il personaggio di Quinlan e il suo bruciante desiderio di giustizia ad ogni costo richiamano la sfrenata ambizione di Kane: entrambi grandi uomini, entrambi frenati e distrutti da un demone più grande di loro.

L'infernale Quinlan è una pietra miliare del genere e del cinema in generale: la sua grande forza risiede nella capacità di essere ancora oggi moderno e rivoluzionario, una testimonianza vivente del genio cinematografico di quello che, a mio parere, è stato il più grande regista di tutti i tempi.

Pier

martedì 22 dicembre 2009

Rivediamoli - Fargo

Un turbine di violenza in un contesto tragicomico


Jerry Lundegaard è un venditore di automobili in un concessionario di Minneapolis. Ha il senso degli affari, ma per far fronte a problemi economici, decide di inscenare il rapimento della moglie per ottenere i soldi del riscatto dal cognato ricco. Il fatto ha effettivamente luogo, ma non va liscio come Jerry aveva previsto e si trasforma in una carneficina che si interromperà solamente alla fine, con l'arresto di colui che, da principio, ha dato via al circolo virtuoso di morti.

I Coen inscenano una storia dipingendola inizialmente come reale, dichiarando esplicitamente che i fatti sono realmente accaduti, e alla fine si smentiscono, sottolineando che nulla ha effettivamente avuto luogo. Tra verità e finzione, il film si snoda con efficacia narrativa attraverso un'approfondita e cinica descrizione di tutti i personaggi del film, dall'imperdonabile protagonista, venditore paurosamente normale capace di cose impensabili, alla moglie-vittima, fatta morire come un cane senza degnarla di una scena finale, dal tenente, insensibile all'orrore delle morti violenti e che non perde occasione per ingozzarsi come un maiale con un marito disgustoso, al padre della povera donna rapita, avido e senza scrupoli, attaccato più ai soldi che alla figlia in pericolo.

In uno scenario desolato, con il freddo della neve e della nebbia che sembra uscire dallo schermo per avvolgere chi guarda, i Coen si divertono a inondare la storia di cinismo e violenza, sempre alla ricerca di quell' humor nero che spiazza uno spettatore incredulo e divertito. Ma il loro più grande merito è stato quello di esprimere, attraverso questa storia puramente cinematografica, il loro odio verso una moderna società americana, tanto distaccata e fredda nei rapporti umani, quanto schiava del dio denaro, con poco da dire, se non annuire e far finta di commuoversi per le disgrazie altrui o predicando il bene demagogico senza crederci davvero fino in fondo.

Sicuramente tra i più bei film dei Coen, se non il migliore, Fargo ironizza sulla tragedia come se fossimo talmente saturi e abituati alle morti violenti e ai complotti che non esisterebbe nessun altro modo originale per raccontarli. Un film di impatto visivo e narrativo, ancora moderno dopo quasi quindici anni; il classico film che chiunque vedrebbe e rivedrebbe senza mai coglierne fino in fondo un senso completamente razionale.

*****
Alessandro

sabato 19 dicembre 2009

La principessa e il ranocchio

La magia dei grandi classici



Tiana, giovane cameriera di New Orleans, ha un grande sogno: aprire un ristorante e diventare cuoca. Per raggiungerlo lavora senza sosta, senza concedersi un attimo di svago. Un giorno nella città del jazz sbarca il principe Naveen, donnaiolo impenitente, diseredato dalla famiglia e in cerca di un buon partito da sposare per mantenersi. Il giovane si lascia però ingannare dal mago Facilier, e viene trasformato in un ranocchio. Durante una festa di carnevale, Naveen scambia Tiana per una principessa, e lo implora di baciarlo per spezzare l'incantesimo: qualcosa va però storto, ed è Tiana a trasformarsi a sua volta in una rana.

Quelli passati sono stati anni bui per l'animazione disneyana classica, messa da parte in un vano tentativo di stare al passo con la nuova tecnica della computer grafica: è singolare che sia stato proprio il padre della Pixar, John Lasseter, a riconvertire gli studios della casa di Topolino al disegno manuale.

Il risultato è La principessa e il ranocchio, che entra a buon diritto tra i grandi classici Disney. Gli ingredienti ci sono tutti: disegni splendidi, colori sgargianti, musica trascinante e personaggi realistici e coinvolgenti. A questi si aggiunge una nuova maturità artistica ed espressiva, che aggiunge quel pizzico di poesia che era mancato ad alcuni degli ultimi film in due dimensioni: il personaggio di Ray, lucciola innamorata di una stella, è uno dei più belli mai creati nella storia dell'animazione.

La principessa e il ranocchio è la prima fiaba Disney ambientata in tempi moderni: la scelta si rivela vincente, in quanto New Orleans è lo sfondo perfetto per una storia a ritmo di jazz e blues, tra coccodrilli trombettisti e maghe cantanti. Moderna l'ambientazione, e moderni anche i personaggi: Tiana è volitiva, conscia del proprio potenziale e profondamente realista; il principe è al contrario un fannullone e un perditempo, dedito solo alla bella vita e alle belle ragazze. Una nota di merito merita il "cattivo", perfido come i grandi villains del passato e dotato di grande carisma.

La forza del film è la capacità di unire classico e moderno, creando così qualcosa di completamente nuovo ma comunque comunque legato alla tradizione: significativo in questo senso il chiaro richiamo a When you wish upon a star, una delle canzoni più celebri della tradizione disneyana, usata in Pinocchio e poi divenuta marchio di fabbrica degli studi.

La principessa e il ranocchio è una fiaba per tutti, per chi non ha mai smesso di sognare, e anche per chi deve ancora incominciare a farlo.

****

Pier

sabato 12 dicembre 2009

Dieci inverni

Incontri e destino a Venezia



1999: Camilla, giovane studentessa, si trasferisce a Venezia per frequentare l'università. Sul vaporetto che la deve portare nella sua nuova casa incontra Silvestro, un simpatico perditempo. Quando il ragazzo perde l'ultima corsa, Camilla acconsente ad ospitarlo, e scatta la scintilla. Ai due ragazzi serviranno però dieci inverni, tra fughe, malintesi e incontri casuali, per arrivare a comprendere la profondità del loro sentimento.

Il film d'esordio di Valerio Mieli riprende in chiave moderna il genere del melò, accompagnandolo alla commedia e al dramma: il risultato è un film originale ed emozionante, con momenti di grande artisticità.
Girato in una Venezia notturna e crepuscolare, che da sola varrebbe il prezzo del biglietto, Dieci inverni ricorda nelle atmosfere le Notti Bianche di Dostoevskij nella versione cinematografica di Visconti.
Anche il rapporto che nasce tra i due giovani ricorda quello descritto nel romanzo russo: un sentimento delicato, quasi effimero nella sua fragilità, che però a differenza di quello dostoevskijano si dimostra resistente al passare del tempo.
La città è senza dubbio una terza protagonista, e ci offre scorci sconosciuti e poetici, esaltati da una fotografia molto ben curata e di forte impatto.
La trama è sorretta da due ottimi attori, Isabella Ragonese e Michele Riondino: il secondo in particolare offre una prova poliedrica, regalandoci un personaggio a tutto tondo e molto coinvolgente.
Ad impreziosire ulteriormente il film ci pensa la colonna sonora firmata da Vinicio Capossela, che fa anche un breve cameo.

Mieli firma un eccellente opera prima: Dieci inverni è infatti un film realizzato con estrema passione e professionalità, in cui ogni elemento contribuisce a creare una trama e un'atmosfera estremamente credibili e coinvolgenti. Si finisce così per appassionarsi alla storia d'amore di questi due giovani, dolce ma problematica, desiderata ma sofferta: in una parola, vera.

***

Pier

martedì 8 dicembre 2009

Il mio amico Eric

Ken Loach incontra Woody Allen

 

Eric è un impiegato delle poste inglesi la cui vita sta andando a rotoli: la seconda moglie lo ha lasciato, vive con due figliastri problematici e si è scoperto ancora innamorato della prima moglie, da lui abbandonata 20 anni prima. La sua unica consolazione è il tifo per il Manchester United, e in particolare l'adorazione per Eric Cantona, campione del passato della squadra inglese. Quando un giorno Eric trova proprio Cantona nella sua camera, non sa ancora che quell'incontro cambierà la sua vita per sempre.

Scanzonato e ironico, il nuovo film di Loach cita apertamente l'Allen di Provaci ancora Sam, in cui un'allucinazione con le sembianze di Humphrey Bogart dava al povero Woody lezioni su come conquistare le donne. Qui il confidente immaginario è Cantona, che diventa per il suo omonimo Eric un vero e proprio maestro di vita: i suoi aforismi, rigorosamente in francese, aiuteranno infatti il postino a ritrovare la gioia di vivere e a migliorare i suoi rapporti con i suoi cari.

Non mancano naturalmente le tematiche care a Loach, dal riscatto sociale allo spirito di corpo e alla solidarietà della classe operaia, che si rivelerà l'arma in più per tirare fuori dai guai uno dei figliastri di Eric. Il tutto, ovviamente, nel nome e nel segno di Eric Cantona, in una scena destinata a entrare nell'elenco dei migliori finali comici della storia del cinema. 

Il mio amico Eric è sicuramente uno dei film più originali del cineasta inglese, grazie alla sua miscela di ironia, psicologia, azione e dramma. La sceneggiatura è a tratti geniale, la regia precisa e puntuale. Gli attori sono bravi e brillanti, in particolare gli amici di Eric. Una nota a parte merita Cantona, vero protagonista e presenza costante del film: il suo talento sul campo da calcio sembra essersi trasferito sullo schermo, tanto che risulta l'elemento migliore del film. Memorabile la sessione di training autogeno impartita ad Eric per fargli imparare a dire di no con decisione. 

Nonostante qualche caduta di ritmo, Il mio amico Eric è un film molto divertente e intelligente, in grado di farci riflettere con ironia sul fatto che, in fondo, i nostri miti possono anche esserci d'aiuto. Purchè, ovviamente, li si stia a sentire. 

***1/2 

Pier

domenica 6 dicembre 2009

A serious man

Dopo il "Barbiere" e il "Drugo", ora il "Professore di fisica"


Laurence Gopnik è lo sfortunato personaggio della nuova commedia dei fratelli Coen. Professore di fisica in attesa del posto fisso, Laurence, ebreo e americano medio, è afflitto da guai di cui non è sempre pienamente consapevole: la moglie lo tradisce con un collega e gli chiede il divorzio, il fratello passa il suo tempo in bagno a drenarsi i reni, il figlio fuma canne e ascolta gli airplane, la figlia gli ruba i soldi per rifarsi il naso, la vicina lo adesca e l'altro vicino lo minaccia. A tutto ciò, che costituisce gran parte della vita normale di Larry, si vanno ad aggiungere pesanti beffe del destino come l'incidente d'auto, l'avvocato difensore che muore prima di risolvere un contenzioso, uno studente coreano che lo corrompe e lo accusa di diffamazione, la spesa dei funerali dell'amante di sua moglie, fino ad arrivare alla chiamata finale del medico che preannuncia una catastrofe.

A seriuos man è il ritorno alla commedia classica dei Coen, del Il grande Lebowski o del L'Uomo che non c'era. I due registi metaforizzano la situazione di un uomo mediocre la cui apatia lo rende incapace di affrontare o almeno di rendersi conto di tutto ciò che gli capita intorno; questa sua passività nei confronti degli eventi lo induce a rivolgersi a tre rabbini per cercare risposte, ma il risultato è un grosso buco di significato più comico che sensato.

La commedia è raffinata nei dettagli (stupenda la scena iniziale d'ambientazione dove l'inquadratura corre sul filo di un cuffia iPod che rivela solo alla fine essere una radiolina anni '70), e magistrale nella realizzazione e nel risultato finale. Il protagonista è raccontato perfettamente e contestualizzato in un ambiente filmico fatto su misura, gli eventi, per quanto assurdi, sono presentati in modo coerente con la trama e l'ambientazione narrativa, e l'incontro con i primi due rabbini è d'antologia. Stupendo nel finale, quando tutto sembra andare per il meglio e verso un happy ending, il tocco Coen esce prepotentemente sotto forma di uragano (o chiamata del medico).

Il film è sicuramente il ritorno dei fratelli Coen al cinema di livello, abbandonato per ben nove anni nei quali si sono persi in commedie senza spirito, forma e sostanza o film d'azione senza una loro nitida traccia. A serious man è un ottimo film che echeggia, senza però raggiungere, i canoni delle commedie più amate come Fratello dove sei? e Il grande Lebowski.

****
Alessandro

venerdì 4 dicembre 2009

Moon

Il lato oscuro della luna



Sam Bell è un astronauta che vive da tre anni in una stazione spaziale situata sul lato oscuro della luna, con l'unica compagnia di un robot di nome Gertie. La sua missione sta per finire, e Sam non vede l'ora di tornare a casa. Proprio quando la partenza si avvicina, tuttavia, la sua salute peggiora rapidamente: comincia ad avere mal di testa e a soffrire di allucinazioni, che gli causano un incidente. Al suo risveglio, trova di fronte a sè un se stesso più giovane, che sostiene di essere lì per lo stesso motivo per cui lui era stato inviato tre anni prima.

L'opera prima di Duncan Jones, figlio di David Bowie, si caratterizza per le atmosfere cupe e claustrofobiche: girato quasi completamente in interni, Moon comunica un senso di oppressione e di pericolo permanente. Anche gli ambienti esterni, ricreati ispirandosi alla missione giapponese Selene, sono cupi e grigi e suggeriscono una minaccia imminente, nonostantenon si veda nemmeno l'ombra di alieni.

Il film ricorda nell'ambientazione 2001 - Odissea nello spazio: la presenza del computer di bordo, in particolare, è un chiaro omaggio al film di Kubrick. Jones riesce però ad andare oltre il modello originario, e per certi versi a superarlo: la regia è di altissimo livello, e la trama è certamente migliore e più interessante di quella dell'opera kubrikiana. Il percorso interiore del protagonista è ben costruito e il suo tentativo di scoprire chi sia veramente riesce ad appassionare lo spettatore, nonostante il tutto si svolga in uno spazio angusto e con un solo attore in scena. Notevoli la fotografia, tendente al bianco e nero, soprattutto negli esterni, e la scenografia, ispirata a vere missioni spaziali e realizzata con un budget risicato.

Sam Rockwell, bravo e intenso come non mai, sfodera una prestazione da Oscar, in quanto riesce a interpretare i due Sam Bell in modo completamente diverso, riuscendo a farli sembrare due persone ben distinte tra loro. L'altro "attore" è il robot Gertie, doppiato da Kevin Spacey, che esprime i propri stati d'animo attraverso emoticon: la sua "performance" è eccellente, ed è sicuramente uno dei computer più umani mai apparsi sul grande schermo.

Moon è uno dei migliori film di fantascienza degli ultimi dieci anni: la sua forza sta nella capacità di porci di fronte a forti problemi etici e filosofici, senza per questo perdere di vista il senso della trama.
E quando Sam dialoga con Gertie, viene da chiederci dove finisca l'umanità e dove inizi la vita artificiale.

****

Pier

sabato 28 novembre 2009

Meno male che ci sei

Nè Moccia nè Almodovar


Allegra è una liceale il cui nome è in netta antitesi con la sua vita: i genitori sono appena morti in un incidente, e la permanenza forzata dai nonni durante l'estate l'ha allontanata dalle amiche, lasciandola ancora più sola. Quando Allegra scopre che il padre aveva un'amante, Luisa, decide di conoscerla: nasce così un rapporto strano ma bello tra le due donne, che porterà entrambe a trovare l'amore. Il destino decide però di impicciarsi ancora, e Allegra e Luisa dovranno affrontare nuove prove per crescere. 

Devo dire che mi aspettavo molto di peggio da Meno male che ci sei: il titolo e la trama "mocciani" e la regia di Luis Prieto, già autore dell'assai dimenticabile Ho voglia di te, inducevano a temere la boiata pazzesca di fantozziana memoria. Il film è invece abbastanza piacevole, e approccia con un taglio almeno un po' originale il tema degli adolescenti d'oggi. 

Il cast giovane è fresco e piacevole, anche nei personaggi secondari; non convince fino in fondo la protagonista, Chiara Martegiani, cui però va concessa l'attenuante di essere all'esordio. Anche le attrici più "anziane" si difendono bene: la Gerini è bella e sensuale, e Teresa Mannino fa ridere ogni volta che apre bocca, in pieno stile Zelig. 

Per quanto riguarda la regia, Prieto ha dichiarato di essersi ispirato al suo illustre connazionale Almodovar: l'unica similitudine si può ritrovare nella scelta di dare alla storia un taglio decisamente femminile. Per il resto, il film manca di solidità narrativa, con scene inserite a casaccio, soprattutto nella prima parte. Alcuni personaggi appaiono e scompaiono misteriosamente come neanche lo Stregatto di Alice nel Paese delle Meraviglie (nda: grazie MR) e alcuni dialoghi risultano finti e un po' artificiosi.

Meno male che ci sei è apprezzabile per il tentativo, parzialmente riuscito, di staccarsi dai clichè dei film giovanilisti che appestano le nostre sale: il risultato è discreto, ma la speranza è che il nostro cinema e i nostri giovani possano produrre qualcosa di meglio. 

** 

Pier

giovedì 26 novembre 2009

Rivediamoli - Io e Annie

Woody al suo meglio



Io e Annie (1977) è una delle commedie più divertenti e originali di sempre, come provano anche i quattro Oscar vinti (film, regia, sceneggiatura e attrice protagonista) per un genere che è quasi sempre snobbato dall'Academy. Grazie a questo film, Woody Allen fu definitivamente consacrato tra i grandi di Hollywood.

La storia è tipicamente alleniana: il comico Alvy Singer si è lasciato con Annie dopo un anno circa di relazione: decide allora di raccontare la storia del loro rapporto, nel tentativo di capire perché sia naufragato e quanto abbiano pesato le sue nevrosi infantili. Tra confessioni, nevrosi e segreti, Alvy ripercorre l'evoluzione del loro amore, dai primi momenti felici fino alla separazione.

Prima vera commedia di Allen, Io e Annie è certamente ancora oggi uno dei suoi film più riusciti. La perfetta sceneggiatura è sorretta da una regia creativa e visionaria, ricca di trovate geniali. Memorabile uno dei dialoghi tra Woody e Diane Keaton, in cui i sottotitoli vengono utilizzati per esprimere quello che realmente pensano i personaggi: la comicità generata dalla discordanza tra parole e testo è notevole, e l'espediente aiuta anche a conoscere meglio i due protagonisti.
Altri momenti degni di nota sono i rapporti sessuali tra i protagonisti, in cui Annie si "sdoppia" per rappresentare la sua assenza e il suo disinteresse nel fare l'amore con Alvy.
La scena migliore rimane probabilmente quella al cinema, in cui Alvy si lamenta del pomposo spettatore in fila davanti a lui: il dialogo immaginario tra i due è bellissimo e innovativo, e sarà imitato da molti film successivi.

La caratteristica principale del film è la continua interazione del protagonista con gli spettatori: Allen imposta il film come un monologo interiore, una sorta di seduta psicoanalitica in cui lui è il paziente e il pubblico il medico. La confessione come catarsi rimarrà un tema ricorrente nella cinematografia alleniana, così comenella letteratura hiddish: basti pensare ai romanzi di Philip Roth o, più recentemente, a La versione di Barney di Mordecai Richler.

Io e Annie è anche il primo film in cui Allen interpreta il suo personaggio più classico, l'intellettuale ebreo newyorkese: in particolare, il monologo iniziale di Alvy potrebbe essere assunto come manifesto del cinema di Woody, in quanto in pochi minuti vi sono rappresentate tutte le sue nevrosi, le sue frustrazioni e la sua irresistibile autoironia.
Diane Keaton è una perfetta controparte, in grado di rivaleggiare con il regista-attore in quanto a cinismo, piccole follie e sarcasmo.

Io e Annie è un film originale e visionario, che mantiene però l'irresistibile vena comica dei primi lavori alleniani, in un perfetto connubio tra sperimentalismo e intrattenimento. Nel suo genere, una vera perla.

Pier

mercoledì 25 novembre 2009

Rivediamoli - Accadde una notte

La prima commedia "moderna" della storia del cinema


Ellie Andrews (Claudette Colbert) è una viziata ragazza di Miami che scappa dalla famiglia per raggiungere e sposare a New York il ragazzo che ama. Per sfuggire ai tirapiedi del padre, sguinzagliati per trovarla, la giovane Ellie viaggia per la East Coast, martoriata dalla crisi del '29, in autobus. Durante il viaggio incontra il giornalista Peter Warne (Clark Gable) che, squattrinato e senza lavoro, accetta di proteggere la ragazza in cambio dell'esclusiva sul suo ritrovamento. In realtà, tra una peripezia e l'altra i due finiranno per innamorarsi.

Il film è del 1934, del regista Frank Capra, considerato il più ottimista filmaker cha abbia mai messo piede a Hollywood. Accadde una notte è ambientato nell'America devastata dalla crisi finanziaria di cui si può percepire lo spirito stanco e rassegnato; per questo motivo che alla sua uscita, se da una parte fu accolto da un inaspettato successo di pubblico, per la goliardia e il suo lietissimo finale, dall'altra, la critica lo accolse freddamente, accusandolo di populismo e osceno ottimismo che l'America, in quel tragico momento, non poteva permettersi.

Accadde una notte è il prototipo e l'archetipo della commedia cinico-romantica; per la prima volta si mette in scena, in modo magistrale ed ad esempio per i film a venire, il mito della ricerca della felicità e lo scontro di classe in un momento in cui il New Deal roosveltiano cercava di far conciliare il cittadino medio, appena uscito dalla crisi, con un nuovo è più stabile focolaio familiare. Si racconta una nuova America in un modo del tutto nuovo; superato l'umorismo sociale di Twain, Capra definisce uno schema e una struttura narrativa così perfetta, da essere ancora oggi, dopo ottant'anni, la base ricorrente sulla quale la maggior parte delle commedie americane si costruiscono.

Un aspetto da sottolineare è la chimica impressionante dei due protagonisti, che, fino ad allora, non nutrivano simpatie reciproche; Capra sapeva di questa situazione tanto da autodefinirsi come un pugile stanco prima ancora di salire sul ring. La verità è che il regista è riuscito ad utilizzare questa negatività e a trasformarla in comicità acida e sarcastica, il vero punto forte del film, ottenendo un affiatamento profondo e complessissimo tra i due protagonisti, mai più raggiunto tra due attori cinematografici.

Considerato patrimonio nazionale e tra i 100 film da salvare, Accadde una notte è una commedia che deve necessariamente essere presente nel bagaglio culturale di tutti, amanti del genere e non.

Alessandro

domenica 22 novembre 2009

Segreti di Famiglia

Brillante quanto "Tetro" ritorno del maestro Italo-Americano


E' datato 1997, L'uomo della pioggia, l'ultimo film degno di nota di un grande maestro del cinema americano come Francis Ford Coppola. Tra aziende vinicole in California e alberghi sparsi qua e la per il mondo, Coppola negli ultimi anni si è un pò perso cinematograficamente, utilizzando la pellicola più come hobby che come passione e mestiere. E i risultati si sono visti.

Tuttavia, il nuovo film Segreti di famiglia, per quanto diverso dai suoi grandi classici, sancisce il ritorno di un regista che non serve raccontare. Benjamin arriva a Buenos Aires con l'obiettivo di trovare suo fratello Angelo, scappato da New York e dalla sua famiglia molti anni prima. Il loro incontro è spinoso e pieno d'astio, sopratutto a causa di Angelo, conosciuto nella città Argentina come Tetro, che non vuole avere più niente a che fare con i suoi trascorsi familiari ma, nonostante la nuova vita costruitasi, l'apparizione del fratello lo costringerà a fare i conti con quei fantasmi che era riuscito fino ad allora a tenere chiusi nell' armadio (valigia).

E' il film più autobiografico di Coppola, splendido nel raccontare torbidi segreti e astiose rivalità familiari attraverso una tanto perfetta quanto geniale fotografia, che utilizza il colore in modo inverso (bianco e nero per raccontare il presente e a colori per raccontare il passato), e una musica spagnoleggiante che tanto fa ricordare i film di Almodovar (la presenza di Carmen Maura non è un caso). La trama è intricata ma appassionante, molti degli attori sono alle prime armi ma perfetti (fra tutti Vincent Gallo che ha vinto lo spareggio con Matt Dillon), l'atmosfera è a tratti cupa e a tratti giocosa, la sceneggiatura tagliente ed efficace e il dramma o colpo di scena si nasconde sempre inaspettatamente dietro l'angolo.

Un film di rara bellezza per il suo impatto visivo ed emozionale, un piccolo gioiello che Coppola può aggiungere al suo già ricco portafoglio di capolavori.

****
Alessandro

martedì 17 novembre 2009

Howard Hawks - I dimenticati: puntata 7


La rubrica di oggi è dedicata ad Howard Hawks (1896-1977), uno dei grandi del cinema hollywoodiano, spesso ignorato dai nostri contemporanei. Regista poliedrico, in grado di affrontare con efficacia i generi più disparati, Hawks è senza dubbio uno dei personaggi chiave nell'evoluzione del mezzo cinematografico.

Nato in una famiglia benestante del Wisconsin, dopo la laurea Hawks si trasferisce a Los Angeles, dove inizia a lavorare nel mondo del cinema e conosce Douglas Fairbanks, uno dei più celebri attori dell'epoca.

Il suo esordio alla regia avviene quasi per caso, sostituendo il regista malato di un film in cui recitava la moglie di Fairbanks, Mary Pickford.
Per dirigere il suo primo vero film, tuttavia, Hawks deve aspettare la fine della Prima Guerra Mondiale, quando la Fox lo ingaggia per dirigere The Road to Glory.La vera svolta nella sua carriera avviene però nel 1932, quando Howard Hughes gli offre la regia del gangster-movie Scarface. Il film diventa un riferimento per il genere, grazie a una sceneggiatura molto forte per l'epoca, che affronta a viso aperto temi scottanti come la violenza e l'incesto. Hawks sfrutta al massimo le capacità recitative di Paul Muni, che interpreta Tony Camonte, chiaramente ispirato alla figura di Al Capone. Il film è anche migliore del pur ottimo (e più celebre) remake realizzato da De Palma.

Nel 1934 Hawks realizza Ventesimo secolo, una delle migliori commedie mai realizzate sul mondo dello spettacolo. La sua commedia migliore è però Susanna (1938), in cui lo scontro tra i sessi viene trattato con uno spirito e una verve eccezionali, grazie anche alle splendide prove di Katharine Hepburn e Cary Grant. Memorabili in particolare le scene con il leopardo, veri e propri pezzi di bravura di attori e regista.

Tra il 1943 e il 1944 Hawks cambia decisamente genere, e gira due film di notevole interesse: il primo, Arcipelago in fiamme, è un bellico molto profondo, in cui i protagonisti sono i membri della squadriglia aerea B-17, che arriva disarmata a Pearl Harbour proprio nel momento dell'attacco giapponese; il secondo, Acque del sud, sfrutta appieno il carisma dei due protagonisti, Humphrey Bogart e Lauren Bacall. Bogart è un cinico avventuriero della Martinica che, spinto anche dal fascino della Bacall, decide di aiutare i partigiani francesi contro il regime di Vichy.

Il vero capolavoro di Hawks, tuttavia, doveva ancora arrivare: nel 1946 il regista realizza Il grande sonno, il miglior noir della storia del cinema, ancora con Bogart e la Bacall. Hawks riesce a fondere suspence, ritmo, ironia e seduzione, creando un cocktail perfetto, in cui tutti sono colpevoli e nessuno lo è veramente. Una vera pietra miliare, che colpisce ancora oggi e che presenta due attori in stato di grazia.



Negli anni successivi, Hawks si dedica con successo ai generi più disparati, dalla commedia, con Gli uomini preferiscono le bionde (1953), al western, con Un dollaro d'onore (1959. Quest'ultimo è considerato uno dei capisaldi del genere e si distingue per l'ottima prova di Dean Martin, aiuto-sceriffo ubriacone, e per le musiche, in particolare il celebre motivo del deguello di Tiomkin.

Hawks è stato senza dubbio uno dei registi che più hanno influenzato i loro successori: la sua poliedricità è stato un marchio distintivo che allora pochi potevano permettersi, ed è stato uno dei punti di riferimento per l'affermazione del regista come autore. La sua capacità di affrontare temi così diversi rimanendo sempre fedele ai suoi temi prediletti rendono Howard Hawks uno dei primi veri registi moderni.

Alla prossima settimana!

Pier

lunedì 16 novembre 2009

Julie e Julia

Un piatto per pochi palati



Julie, giovane statunitense, vive nel mito di Julia Child, la scrittrice e presentatrice TV che sdoganò la cucina francese presso le casalinghe americane. Il sogno di Julie è di conoscere la sua beniamina, e incomincia a tenere un blog per raccontare le sue avventure tra i fornelli nel tentativo di realizzare le ricette rese celebri dalla Child. Le vicende delle due si incrociano, in un continuo alternarsi tra passato e presente.

Tratto dall'omonimo bestseller, Julie e Julia è un classico film culinario, dove le ricette sono il piatto forte della trama e la cucina è il set privilegiato: emergono anche altri spunti, certo, ma sono tutti secondari rispetto alla storia della Child e agli sforzi di Julie per emularla. I dialoghi sono simpatici e riescono spesso a strappare un sorriso, regia e fotografia sono invece abbastanza scolastiche.

Ottimi gli attori, con una Meryl Streep mattatrice, un grande Stanley Tucci e Amy Adams che si conferma come una delle giovani più interessanti del panorama hollywoodiano, anche se in una parte non certo complessa.
La nota più stonata è costituita dal doppiaggio, con Meryl Streep-Julia che sembra perennemente ubriaca.

Julie e Julia è un film da vedere solo per gli amanti della buona cucina: gli altri possono perderselo senza troppi rimpianti.
Rimane comunque un film grazioso, che passa piacevolmente senza accampare troppe pretese moralistiche o educative.

**1/2

Pier

Gli abbracci spezzati

Quando il cinema si mescola con la vita





Non sono mai stato un grande fan di Almodovar; ho sempre avuto difficoltà a decifrare quelle storie morbosamente al limite che sono il suo marchio di fabbrica. Tuttavia, ho sempre nutrito stima per il regista, unico nel descrivere in modo così profondo e complesso il mondo femminile e quelle tragiche ed estreme passioni che, per quanto malate, erano sempre colme di un amore puro e innocente.

Nel suo nuovo film, Gli abbracci spezzati, Almodovar riprende il filone passionale e, per la prima volta, lo immerge in un contesto cinematografico che richiama da un lato i torbidi noir hitchcockiani (non è un caso l'esplicita citazione di "Notorius"), e dall'altro le tragiche screw ball di Douglas Sirk. Il film si snoda attraverso due filoni temporali, uno presente e uno passato, l'uno la conseguenza diretta dell'altro. E' la storia di Mateo Blanco, regista talentuoso che, dopo aver perso la vista in un incidente stradale, ha cambiato nome e lavoro, diventando lo sceneggiatore Harry Caine. La notizia della morte di un ricco industriale, Ernesto Matel, riapre una vecchia ferita che lo spinge a raccontare a Diego, suo aiutante, i fatti che segnarono tragicamente la sua vita. E' una storia d'amore, morbosa, forte e complessa che lo ha segnato talmente nel profondo da averlo convinto a cambiare identità. Non racconterò il finale per non rovinare la sorpresa.

La trama è molto intricata, così come il suo significato. Diversamente dai suoi precedenti film, Almodovar racconta la passione e la gelosia, non come spauracchio delle sue paure ed esperienze personali vissute durante l'adolescenza, ma come elemento di riflessione sullo strumento cinematografico. Se fino a Gli abbracci spezzati, Almodovar ha utilizzato il cinema come mezzo personale, con il suo nuovo lavoro sembra quasi voler ragionare su questo suo utilizzo, cercando di evidenziare quanto dolore riserva la (sua) vita sempre più vicina alle (sue) storie raccontate al cinema (non è un caso che il film di Mateo Blanco è un'esplicita citazione al suo Donne sull'orlo di una crisi di nervi). Il risultato è un film per il, più o meno, grande pubblico, che si può appassionare alla storia curata, con la solita perfezione stilistica e di fotografia, e che, insieme ad una musica coinviolgente e incalzante, riempie di patos il film.

Questo cambiamento di stile e significato non gli risparmia, tuttavia, errori narrativi e di struttura generale, figli probabilmente di una complessità della trama non da poco. Molte scene allungano e non servono, e molti colpi di scena sono prevedibili e non scioccano come dovrebbero, o come sarebbe intenzione del regista.

Consigliato comunque a tutti, anche a chi non apprezza particolarmente Almodovar.

***1/2

Alessandro


venerdì 13 novembre 2009

Nemico Pubblico

Dillinger Secondo Mann


"Nemico pubblico" è il 18° film che ripercorre le ultime vicende della vita del rapinatore di banche John Dillinger. La struttura narrativa è tipica dei film di Mann dove il "buono", in questo caso Purvis, insegue il "cattivo", Dillinger, attraverso una caccia all'uomo che diventa il punto centrale del film. I due personaggi sono presentati nelle prime due scene, il capitano, come freddo poliziotto ambiguo e non del tutto comprensibile, il criminale, come un Robin Hood moderno che ruba alle banche ricche e cancella i debiti ai poveri.

A differenza dei film precedenti, Mann analizza freddamente i fatti , cercando di ricostruire chirurgicamente le vicende, i personaggi e le scene. Dillinger non viene presentato come un eroe, così come accadeva nei film precedenti (penso al film del '73 di Milius), ma raccontato con lo sguardo del cronista che non lascia trasparire nè simpatie e nè favoritismi.

La regia è da scuola di cinema, alcune scene, in particolare quella dello chalet nel Wisconsin e quella conclusiva, sono da brividi, l'accompagnamento sonoro è da Oscar e le ricustruzioni scenografiche e di scena da maestro del cinema; tuttavia, proprio questa esigenza, quasi "giornalistica", di ricostruzione dei fatti appesantisce il film e lo rende lento per buona parte della sua durata. I due attori sembrano scollegati dal loro ruolo e, se da una parte Bale non riesce a dare nè spessore nè personalità al suo personaggio, Depp si conferma attore poco polivalente, che non entusiasma senza il suo classico tocco comico goticheggiante.

Il film è assolutamente da vedere, ma se ci si aspetta un nuovo "Insider", "Heat - la sfida", "L'ultimo dei Mohicani" o "Manhunter", si rimane fortemente delusi.

***
Alessandro

lunedì 9 novembre 2009

Rivediamoli - Per un pugno di dollari

Il primo capitolo di una nuova era



Può sembrare banale scegliere per la prima puntata di questa rubrica proprio Per un pugno di dollari, film celebre in tutto il mondo.

Eppure la scelta mi è sembrata coerente con il tentativo, iniziato da Ale con Liberty Valance, di descrivere il momento di passaggio dal western classico a quello moderno, rinominato poi "spaghetti" e che segnerà il declino del genere. Tullio Kezich, pur essendo molto amico di Leone, rimproverò sempre al regista il fatto di aver di fatto sferrato un colpo fatale al western tradizionale. L'accusa, pur ingenerosa nei confronti di Leone, è senza dubbio fondata dal punto di vista degli amanti di quel tipo di western reso celebre da John Ford.

La pellicola racconta la storia di un eroe solitario, interpretato da Clint Eastwood, che arriva a San Miguel, una cittadina al confine tra gli Stati Uniti e il Messico. Dopo aver deciso di alloggiare nella locanda del paese, viene a sapere che la cittadina è divisa da una lotta tra due famiglie, i Rojo e i Baxter. Joe decide di vendersi, apparentemente per un pugno di dollari, a entrambe, facendo una sorta di doppio gioco.

Quali sono le differenze con il western fordiano? Innanzitutto il numero delle sparatorie e il livello di violenza presente nel film: classicamente, il duello a colpi di pistola era solo quello tra eroe e villain che aveva luogo alla fine del film. Leone invece moltiplica questi momenti all'inverosimile, creando numerosi scontri tra i protagonisti e insistendo a lungo su scene di tortura. Il modello qui non sono i western classici, ma i film di samurai di Kurosawa, cui il film è dichiaratamente ispirato.

Proprio l'eccessiva violenza segnerà la crisi del genere: produttori e registi, infatti, di fronte al grande successo ottenuto dalla trilogia del dollaro, credettero che bastasse infarcire di sparatorie le pellicole per attirare pubblico. Ebbero torto, e a lungo termine decretarono la morte del western: una brutta morte, a dire il vero, per un genere nobile che tanto aveva dato al cinema.

Il film di Leone, tuttavia, non è un'accozzaglia di scene di combattimento, ma un film ben strutturato e diretto, con un uso innovativo delle musiche, composte da Ennio Morricone: come il regista amava ricordare, le note del maestro italiano sono parte integrante della sceneggiatura, una sorta di coro greco che commenta beffardamente le sorti dei protagonisti.
La fotografia è molto ben curata, anche se mancano gli splendidi paesaggi che caratterizzavano il western classico.

Per un pugno di dollari lanciò Clint Eastwood, scelto da Leone quasi per disperazione e diventato il simbolo del western moderno. Il regista scherzava spesso a proposito della scarsa mimica facciale del suo primattore, dicendo che aveva solo due espressioni: con il cappello, e senza cappello.
L'altro protagonista è Gian Maria Volontè, che interpreta il sanguinario Ramon, di cui Leone non si preoccupa di far vedere i vizi in termini di donne, droghe ed alcool.
La scarsa moralità dei protagonisti è infatti una delle altre grandi differenze con il western classico, dove i
villains erano dotati di un proprio codice d'onore e gli eroi erano mossi da alti valori. Qui entrambi sono spinti solo da quei dollari che danno il titolo al film e alla trilogia.

Per un pugno di dollari ha certamente segnato un'epoca, introducendo molti degli stereotipi del western moderno, dal vecchietto del west al pistolero solitario e infallibile, che cavalca solitario verso il tramonto di un genere e di un modo di fare cinema.

Pier

domenica 8 novembre 2009

Rivediamoli - L'uomo che uccise Liberty Valance

Il Western al crepuscolo


E' la storia di Ransom Stoddard, interpretato da un grandissimo James Stewart, senatore di Stato a cui si deve grande riconoscenza per aver ucciso il bandito Liberty Valance. In realtà non fu lui, ma Tom Doniphon, John Wayne, il quale rinunciò alla notorietà per amore di una donna, centro di un tragico triangolo amoroso.

Uno degli ultimi film di Ford che si colloca in un momento cruciale per il genere; è infatti un momento di riflessione sulla mitologia dei film western e sulla crisi profonda che sta attraversando. Il film è dell'inizio degli anni '60 (1962), periodo nel quale Sergio Leone preparava la sua grande rivoluzione di genere con gli spaghetti-western che sancirono un punto di rottura con il passato. Il nuovo personaggio protagonista, infatti, non figura più come eroe impeccabile, ma piuttosto come antieroe, personaggio senza scrupoli, crudo e complesso.

Inutile cedere a facili elogi per un film di assoluta perfezione, dalla struttura narrativa basata sui flashback, all'interpretazione stoica dei due protagonisti, alla sceneggiatura che registra, forse, la battuta western più celebre di sempre("Qui siamo nel West, dove se la leggenda diventa realtà, vince la leggenda"). I punti che mi piacerebbe sottolineare di questo film, e che mi spingono a consigliarlo, sono due: per prima cosa i toni crepuscolari e malinconici di cui il film è permeato. In particolare le figure di Wayne e Valance, cowboy tradizionali usciti dai film fordiani degli anni '30, si trovano a combattere non solo fra loro, ma con quei valori provenienti dal crescente sviluppo dell'Est, incarnati nella figura di Stewart. Wayne è valoroso, eroico, solitario, e rappresenta l'americano-fondatore, Stewart è pragmatico, idealista, integerrimo e servitore della comunità, simboli sui quali si basa la moderna storia americana. E' questa dicotomia, rappresentata in modo non banale, ma approfondito e consapevole, che rende il film uno dei western più belli di sempre.

Il secondo punto, che vale la pena sottolineare, è il fatto che l'intero film è praticamente girato all'interno delle pareti di una cucina e di un ristorante; la capacità di Ford di sfornare un western da camera di questo livello è spiazzante e nel contempo da la certezza allo spettatore di trovarsi di fronte al più grande regista western mai esistito.

Alessandro

sabato 7 novembre 2009

Nuova rubrica: Rivediamoli


Dalla prossima settimana, inizierà una nuova rubrica, intitolata
Rivediamoli: a ogni "uscita" vi proporremo due film che hanno fatto la storia di un diverso genere, recensendoli e contestualizzandoli nel loro periodo storico.

Un piccolo e modesto tentativo di presentarvi quei film del passato che influenzano ancora oggi il linguaggio cinematografico.

Alla prossima settimana per la prima puntata!


giovedì 5 novembre 2009

L'uomo che fissa le capre

Quando la realtà è più assurda della fantasia



Bob Wilton è un giornalista di provincia. Per dimostrare alla sua ex-moglie che ha fegato, si reca in Medio Oriente, dove conosce Lyn Cassidy, militare che gli confida di essere membro di un reparto segreto dell’esercito statunitense che utilizza facoltà paranormali in campo bellico. Lyn è alla ricerca del fondatore del reparto, Bill Django, scomparso misteriosamente nel nulla. Convinto di avere in mano uno scoop, Bob decide di accompagnarlo nella sua missione.

Se pensate che la trama sia assurda e che sia stata creata dalla mente di uno sceneggiatore molto fantasioso, vi sbagliate di grosso: è tutto vero. Vero il "Battaglione Terra" (questo il nome del reparto di cui fa parte Cassady), vero l'interesse dell'esercito (non solo statunitense) per il paranormale.

Basandosi sul libro Capre di Guerra, che racconta l'incontro tra militare e poteri mistici, il regista Grant Heslov firma un lavoro molto particolare, che unisce la critica anti-bellica ai toni brillanti di quella commedia dell'assurdo tanto cara ai fratelli Coen.

Il film rischia di non piacere a tutti, ma è sicuramente esilarante per i cultori del genere, con attori strepitosi a interpretare dei personaggi ben costruiti: Clooney è un meraviglioso sconclusionato, Spacey uno psicotico perfetto, e Jeff Bridges è sui livelli de Il grande Lebowski.

La sceneggiatura è ottima, la regia per nulla banale. A volte il film eccede nelle situazioni inverosimili, ma alla fine le risate la fanno da padrone. Non mancano tuttavia i momenti di riflessione, in quanto l'apparente assurdità del battaglione ideato da Django riflette in realtà un profondo messaggio pacifista e antibellico.

Se amate i complotti, i personaggi sopra le righe e Guerre Stellari, non perdete L'uomo che fissa le capre: vi farà morire dalle risate.

***

Pier

martedì 3 novembre 2009

Parnassus

L'immagine più della storia



L'ultimo lavoro di Terry Gilliam narra la storia di Parnassus, santone e monaco incapace di resistere alle sfide postegli dal diavolo e per questo "condannato" alla vita eterna. La sua ultima scommessa con Satana potrebbe però costargli ciò che ha di più caro al mondo.

Parnassus è un film visivamente eccezionale. Se considerassimo solo la qualità di regia, immagini e inquadrature, ci sarebbe solo una parola per definirlo: capolavoro. I costumi sono splendidi, e Gilliam dà fondo a tutto il suo patrimonio artistico per disegnare sfondi e scenografie e per coreografare balli e movimenti di gruppo. La fotografia è splendida, ricca di colori sgargianti e di immagini da fiaba, che rievocano le fantasie e i sogni di ciascuno di noi.

Nel valutare un film, tuttavia, non si può non considerare la trama: questa è il vero punto debole del'opera, in grado di affossare la meraviglia per gli occhi creata da Gilliam. Inizialmente scorrevole, con il passare dei minuti la storia si ingarbuglia sempre più su se stessa, arrivando a un finale indubbiamente impeccabile sotto il punto di vista estetico, ma altrettanto indubbiamente debole sotto quello narrativo. La sensazione è che la morte di Heath Ledger abbia cambiato i piani iniziali ben più di quanto lasci intuire il prodotto finito, e che alcune scene siano state aggiunte per dare più spazio alle tre celebrità che lo hanno sostituito. Il personaggio "pluri-interpretato" risulta così tra i meno convincenti per la mancanza di coerenza e continuità della sua evoluzione e delle sue scelte. Tra gli attori, ottimi Ledger e Depp, meno convincenti i pur bravi Farrell e Jude Law, un po' troppo sopra le righe.
Una nota a parte merita Tom Waits, strepitoso Satana con il vizio del gioco d'azzardo, il cui ghigno diabolico e la cui voce varrebbero da soli il prezzo del biglietto.


La sensazione che resta è quindi quella di un'occasione sprecata, in cui il desiderio di stupire lo spettatore ha fatto perdere di vista a Gilliam la coerenza narrativa dell'opera, rendendo così quasi artificiosi i geniali spunti visivi elaborati dal regista.

***

Pier

lunedì 2 novembre 2009

Oggi Sposi

Quattro matrimoni per i personaggi e un funerale per lo spettatore




La nuova commedia italiana di Luca Lucini riprende per l'ennesima volta l'argomento "matrimonio" come collante di quattro storie e coppie di personaggi diversi. Non fa niente se Verdone, con viaggi di nozze, avesse già raggiunto tutto quello che si poteva chiedere ad un film di questo genere, o che Hugh Grant, con quattro matrimoni e un funerale, avesse tirato fuori tutta l'ironia e la comicità banale da situazioni tragi-comiche che ruotano intorno agli avvenimenti nuziali.
Oggi Sposi racconta i preparativi di nozze di 4 coppie: i precari, il finanziere e la soubrette, il cafone e la figlia dell'ambasciatore, il vecchio e la ragazza di vent'anni che punta solo ai soldi. La storia è molto semplice e l'intenzione dello sceneggiatore è chiaramente quella di strappare il sorriso allo spettatore distrendolo dal teatrino della banalità messo in piedi: i luoghi comuni abbondano e sono portati all'eccesso, come il personaggio del PM, incapace con le donne e focalizzato solo sul lavoro, il cafonazzo pugliese che si scontra con la famiglia "perfettina" dell'ambasciatore indiano, i soliti precari, che in un film italiano moderno non mancano mai (non so quanti di loro nella realtà riderebbero delle peripezie di questa coppia), o la soubrette stupidissima e vacua che, insieme ad un finanziere, si preoccupa solo di organizzare il matrimonio dell'anno per pubblicità e notorietà.
Sembra davvero una barzelletta solo che al posto del francese, dell'inglese e del tedesco ci sono le moderne classi sociali italiane che hanno trovato improvvisa notorietà sui, mica tanto, rotocalchi italiani. La barzelletta però, smette improvvisamente di far ridere quando si realizza di aver pagato 7 euro per averla ascoltata. Il solito filmaccio italiano.

Alessandro

*1/2

giovedì 29 ottobre 2009

Otto Preminger - I dimenticati: puntata 6


Ritorna la rubrica "I dimenticati", dedicata a personaggi del mondo del cinema che oggi pochi conoscono, e che tuttavia sono stati importanti per il suo sviluppo.
Oggi parliamo di Otto Preminger (1906-1986), regista austriaco che raggiunse la celebrità negli Stati Uniti, dove si trasferì nel 1934.
Dopo una buona carriera da caratterista, nel 1943 fa il suo esordio dietro la macchina da presa con il film Vertigine, che influenzò fortemente il quasi omonimo capolavoro di Hitchcock, Vertigo (1958). Nonostante l'ottimo successo commerciale,la vena di necrofilia presente nel film desta scandalo al tempo dell'uscita, e anticipa quella che rimarrà una delle caratteristiche peculiari di Preminger: la passione per la psicanalisi, e in particolare per l'influenza che le pulsioni e le emozioni negative hanno sull'animo umano

Dopo alcuni film commerciali (tra cui spicca La signora in ermellino, iniziato da Lubitsch ma mai completato), Preminger realizza due dei suoi capolavori: il primo, Seduzione mortale (1952), è un noir riprende il tema della distruttività di sessualità e seduzione già presente nel film d'esordio,con un ottimo Robert Mitchum; il secondo, La vergine sotto il tetto (1953), è una commedia a impostazione fortemente teatrale, che ha i suoi momenti migliori nei dialoghi tra William Holden e David Niven.

Del 1954 sono Carmen Jones, prima collaborazione di Preminger con Saul Bass, il futuro miglior titolista di Hollywood, e La magnifica preda. Il primo genera nuovamente polemiche per la presenza di donne seduttive e pericolose, mentre il secondo, interpretato da Robert Mitchum e Marilyn Monroe, è apprezzato da critica e pubblico. Le peripezie dei protagonisti in un selvaggio West crepuscolare, insieme al rapporto padre-figlio appassionano e commuovono, rendendo la pellicola una delle migliori di Preminger.


 

Nel 1955 Preminger firma il suo capolavoro, L'uomo dal braccio d'oro, storia di un eroinomane con la passione per il gioco d'azzardo, magnificamente interpretato da Frank Sinatra. Il film diviene celebre, oltre che per la prova di Sinatra, per i titoli di Saul Bass, per la prima volta ascritti a vera forma d'arte. Non mancano naturalmente le polemiche per la decisione di rendere un eroe quello che, per la società americana del tempo, è a tutti gli effetti un relitto della società. Dopo l'uscita del film Preminger decide di denunciare apertamente il maccartismo, e si trasferisce in Europa.
Tornato negli USA, nel 1960 dirige Anatomia di un omicidio, con un grande James Stewart: il film è uno dei migliori legal movie mai realizzati, portatore tra l'altro di un messaggio pacifista ante-litteram, con unreduce della guerra in Corea che si macchia di omicidio. Anche questo film non manca di sollevare polemiche, sebbene per motivi che oggi fanno sorridere: lo scandalo è generato dal fatto che, per la prima volta, si usano in un film parole come "mutandine".  

 

Da segnalare anche un film del 1965, Bunny Lake è scomparsa, un thriller psicoanalitico in cui una madre denuncia la scomparsa della figlia, che però nessuno sembra avere mai visto. Il valore della pellicola fu riconosciuto solo molti anni dopo la sua uscita, nonostante l'originalità di soggetto e sceneggiatura. 

L'importanza di Preminger risiede nella sua capacità di trattare argomenti fino ad allora tabù avvalendosi di una tecnica registica di primo livello: la sua influenza su posteri e contemporanei, Hitchcock compreso, è assolutamente innegabile. 
Tra i suoi meriti, anche quello di aver lanciato Saul Bass, maestro dei titoli di testa di cui parleremo prossimamente.

Pier

venerdì 23 ottobre 2009

Lebanon

La guerra come non la avete mai vista





Una giornata all'interno di un carroarmato israeliano durante la prima guerra in Libano, nel 1982.
Questa la trama di Lebanon, vincitore di un meritato Leone d'oro all'ultima Mostra del Cinema di Venezia.
E' la storia di quattro giovani senza alcuna esperienza militare, costretti nello spazio opprimente del carro e stremati da caldo e sete.

Il carro diventa il loro mondo, la loro casa, e anche il luogo dove impareranno cosa significa uccidere. La regia del film, serrata e incalzante, trasporta lo spettatore accanto ai soldati, e gli fa provare il senso di claustrofobia e impotenza che li attanaglia.
Lebanon non vuole raccontare l'azione bellica, bensì la sofferenza e la situazione inumana cui vengono sottoposti i quattro protagonisti, le cui reazioni esasperate rappresentano la loro incapacità di comprendere l'orrore che li circonda. L'angustia del carroarmato fa crescere a dismisura il desiderio di essere altrove, fino a renderlo quasi insopportabile.

Il film è stilisticamente perfetto, con montaggio e fotografia che supportano efficacemente la regia quasi in soggettiva. L'uso della macchina a mano accresce ulteriormente la sensazione di oppressione generata dallo spazio ristretto del carro.
I giovani interpreti sono bravi e convincenti, e le situazioni sono descritte in modo realistico, con grande vividezza di particolari.

Lebanon non è emozionante: non c'è commozione, non si cercano motivazioni o giustificazioni morali, e la durezza dello stile di ripresa si riflette anche sulla storia. Il risultato è un duro colpo allo stomaco, che impone allo spettatore una riflessione severa sulla guerra e sulle profonde ferite che questa lascia, anche a distanza di anni, sulle coscienze e sulle anime dei soldati e di interi paesi.

****1/2

Pier

domenica 11 ottobre 2009

UP

La meraviglia della vecchiaia

 
  
Carl, anziano venditore di palloncini, è rimasto vedovo della sua amata Ellie. La perdita lo ha reso scorbutico e misantropo, ma un giorno decide di partire per l'avventura che Ellie avrebbe sempre voluto vivere. Per farlo, gonfia migliaia di palloncini e li attacca alla sua casa, facendole prendere il volo. Quello che Carl ancora non sa è che non sarà solo... 

Non ci sono parole sufficienti per descrivere la meraviglia e la poesia del nuovo lavoro targato Pixar: un film che parla ai bambini ma anche agli adulti, che stupisce, diverte, commuove e incanta allo stesso tempo; un film che ci regala il più bel ritratto della terza età visto al cinema da molti anni; un film, insomma, capace di far sognare lo spettatore, cui sembra di volare insieme alla casa di Carl, moderno Don Chisciotte. 

Pete Docter, già regista di Monsters, Inc., conferma ancora una volta di essere il regista di casa Pixar più dotato di talento comico: alcune scene sono davvero irresistibili e i dialoghi sono scoppiettanti. In questo film però Docter riesce anche a commuovere, e lo fa con la delicatezza e la sapienza artistica che caratterizzano tutti i film Pixar: i primi venti minuti sono da antologia del cinema. 

Questa volta l'animazione è meno realistica che in altri lavori della casa californiana, ma la scelta è vincente: la caricaturalità dei tratti dei protagonisti contribuisce ad evidenziarne le caratteristiche peculiari e aiuta lo spettatore a conoscerli meglio. Lo spettatore viene trascinato in un vortice di fantasia e sogno, tra case volanti, animali estinti e cani parlanti, in un film capace di ammaliare e incantare come solo le fiabe che ci raccontavano da bambini erano capaci di fare. 

Up è una meravigliosa fiaba moderna: non perdetelo. 

***** 

Pier

La doppia ora

Un esordio promettente



Guido e Sonia si conoscono a uno speed date, e si innamorano. Durante una rapina, lui muore nel tentativo di proteggerla. Sembra finita, ma Guido continua a riapparire alla donna come fosse un fantasma. Sconvolta, Sonia cerca una soluzione, ma scopre che le cose non sono esattamente come sembrano...

Ho cercato di non svelare troppo della trama, ricca di colpi di scena e vero pezzo forte del film, insieme alla solida interpretazione dei due protagonisti, Ksenia Rappoport, premiata con la Coppa Volpi alla Mostra del cinema, e Filippo Timi, che si conferma il migliore attore italiano emerso negli ultimi anni. Entrambi sono intensi e comunicativi, e riescono a esprimere con gli occhi più di quanto facciano con le parole.

Capotondi, regista esordiente, costruisce una storia non banale, molto lontana dai generi cui il cinema italiano ci ha abituato, e andrebbe lodato anche solo per questo motivo. La sua regia inoltre è dotata di una notevole forza visiva, e riesce a creare suspense e tensione mescolando melò, giallo e thriller paranormale.
In alcuni momenti il film è lento e la trama si accartoccia su se stessa, perdendo l'energia creata con le scene più coinvolgenti. Questi sono tuttavia difetti accettabili per un'opera prima così ambiziosa, che lancia un potenziale talento su una scena italiana sempre uguale e che ha
spesso paura di osare qualcosa di nuovo.

***

Pier

mercoledì 7 ottobre 2009

Inglorious Basterds

Quando il (grande) cinema cambia la storia



Seconda Guerra Mondiale: un gruppo di soldati americani di origine ebrea viene paracadutato in Francia con un solo scopo: uccidere e fare lo scalpo al più alto numero possibile di nazisti.
La loro strada si incrocia con quello di un comandante delle SS specializzato nello scovare ebrei e con quella di una ragazza dal passato travagliato. L'incontro non sarà piacevole per nessuno...

Tarantino torna sugli schermi, dopo il pessimo Grindhouse e i due episodi non proprio convincenti di Kill Bill, e lo fa con il suo film migliore dai tempi di Pulp Fiction: dialoghi strepitosi, attori in stato di grazia e citazioni a non finire, da Sergio Leone a Charlie Chaplin, passando per Lubitsch e l'italiano Quel maledetto treno blindato.

Inglorious Basterds è un inno d'amore per il cinema: Tarantino mescola senza timore i generi più disparati, unendo western, commedia brillante e film di guerra. Il risultato è un film folle e geniale, che usa quattro lingue (da applausi a scena aperta la sequenza in italiano) ed è capace di reinventare la Storia, regalando allo spettatore divertimento e suspence. Tarantino riesce a evitare i difetti dei suoi film più recenti, che si dilungavano in citazioni perdendo di vista il senso della trama. Qui tutti i pezzi si incastrano perfettamente, creando un'alternanza di stili e generi che dona al film un aspetto e una struttura assolutamente unici.

Tra gli attori merita una menzione Christoph Waltz, l'interprete del colonnello Alda, semplicemente strepitoso.

Inglorious Basterds è un film da vedere assolutamente, meglio ancora se in lingua originale, in modo da cogliere appieno le sfumature e l'ironia di un Quentin Tarantino tornato finalmente grande.

*****

Pier