sabato 30 dicembre 2023

Wonka

Una cioccolata calda


Il giovane Willy Wonka arriva in città con il sogno di aprire un negozio dove vendere le sue geniali creazioni a base di cioccolato. Tuttavia, i tre cioccolatai già presenti in città non vedono di buon occhio la sua concorrenza, e fanno di tutto per liberarsi di lui. Inoltre, la locanda presso cui finisce per alloggiare si rivela tutt'altro che rispettabile.

C'è un aggettivo inglese che non ha un'esatta corrispondenza in italiano, ma che è perfetto per descrivere Wonka: heart-warming, "scalda-cuore." Wonka è infatti un film che scalda il cuore, un perfetto musical natalizio in grado di far sognare, sperare, ridere e, perché no, commuoversi; un film in cui i cattivi sono cattivissimi e i buoni sono buoni, e in cui l'ostacolo principale è un mondo cinico che non solo non accetta i sognatori, ma li ostacola attivamente. Paul King può ormai essere considerato il maestro di questo genere di film, dato che ha realizzato Paddington e il suo sequel Paddington 2: due film che non solo sono perfetti rappresentanti del concetto di "scalda-cuore", ma hanno ottenuto un clamoroso successo di critica, oltre che di pubblico.

Wonka riprende ottimamente molti dei fattori di successo di Paddington, calandoli nella realtà a metà tra il dickensiano e lo steampunk del libro di Roal Dahl, in cui tutte le cose belle e desiderabili nascondono insospettabili lati oscuri. Ritroviamo quindi un protagonista sognatore e dal cuore d'oro, talmente naïf da terminare tutti i pochi soldi a sua disposizione non appena messo piede nella grande città (un misto tra il centro di Parigi durante la Belle Époque e i bassifondi di Londra durante l'età vittoriana); dei compagni che inizialmente sono increduli di fronte alle gesta del folle, adorabile protagonista, ma poi iniziano ad apprezzarlo; e Hugh Grant in un ruolo molto lontano da quelli cui ci ha abituato (se non avete visto il trailer, fatevi un favore: andate in sala senza sapere nulla e godetevi la sorpresa).

Narrativamente, il film ha un'idea geniale nel presentarci un Wonka molto diverso da quello che farà la sua comparsa ne La Fabbrica di Cioccolato: è già un geniale inventore (di macchinari, oltre che di ricette) e ha già uno straordinario carisma, ma gli mancano ancora quel cinismo e quell'oscurità che esibirà nella sua versione adulta. È un giovane entusiasta, non ancora indurito dal cinismo e dalla crudeltà del mondo, ancora fiducioso circa la possibilità di redimersi ed elevarsi dell'umanità. Come origin story, Wonka funziona meglio dei flashback presentati nel remake burtoniano, e lascia la curiosità per un seguito che spieghi come Wonka sia diventato quello che conosciamo nel romanzo. 


Chalamet offre al protagonista un entusiasmo fanciullesco e un aspetto elfico, oltremondano, che ben si adatta alla personalità sognatrice e dirompente del suo Willy, e dimostra anche ottime e inaspettate doti nel canto e nel ballo. I personaggi di contorno sembrano usciti direttamente da Dickens, sia per quanto riguarda gli alleati di Willy (ottima Calah Lane nel ruolo di Noodle), sia per quanto riguarda gli antagonisti. Per questi ultimi, King riprende sia la vena "drammatica" di Dickens (la Mrs. Scrubbit di Oliva Colman ricorda i grandi malvagi di Oliver Twist e David Copperfield), sia quella "comica", con i tre monopolisti del cioccolato che uniscono brillantemente malvagità e ridicolo.

Visivamente e musicalmente il film è una gioia per occhi e orecchie. La fotografia e le scenografie sono splendide, colorate e fiabesche, così come alcune trovate come i mini-macchinari di Wonka. Le canzoni, composte da Neil Hannon e scritte dallo stesso King insieme all'altro sceneggiatore Simon Farnaby, sono perfette per un musical di questo genere, e offrono il giusto mix di allegria, coreografie pazze, e intimismo. Ottimo anche il modo in cui vengono riprese le due canzoni più iconiche del film originale con Gene Wilder, utilizzate per marcare momenti chiave dal punto di vista emotivo anziché come semplice "momento nostalgia."

Wonka arrivava in sala accompagnato da quel comprensibile scetticismo che accompagna operazioni di questo genere: un prequel per un grande classico ha sempre il rischio di risultare una "copia inferiore", che non aggiunge nulla a quanto già detto nell'originale. King ha preso una strada decisamente inaspettata, persino rischiosa, tratteggiando un protagonista e un film decisamente diversi dall'originale, ma allo stesso tempo perfettamente connessi con esso.

La scommessa è decisamente vinta. Wonka è un perfetto dolce natalizio, una cioccolata calda che protegge contro i rigori del mondo e lascia lo spettatore con occhi sognanti, e il desiderio di averne ancora. Se non amate i film "scalda-cuore", passate oltre. Ma se amate perdervi in una fiaba fatta di immaginazione, riscatto, umorismo, colori, musiche (e dolciumi), non perdetelo (possibilmente in lingua originale): ve ne pentireste.

**** 1/2

Pier

giovedì 28 dicembre 2023

Wish

Magia di riflesso


Il regno di Rosas vive in pace e armonia grazie alla magia di Re Magnifico. Tutti i sudditi, al compimento della maggiore età, affidano i propri sogni al Re, affinché li custodisca e, in rari casi, li realizzi. Asha è una giovane che ambisce a diventare l'apprendista di Magnifico. Proprio quando pensa di aver ottenuto la posizione, tuttavia, scopre qualcosa che cambierà la sua percezione di Rosas, della magia, e del mondo. Decide allora di esprimere un desiderio a una stella...

Wish è un lungometraggio che nasce con una sfida impossibile: raccontare una storia originale e divertente, e al tempo stesso celebrare i 100 anni della Disney, e in particolare del suo comparto di animazione. A Wish si chiedeva di sposare novità e tradizione - anzi, peggio: novità e celebrazione, cambiamento e conservazione. 

L'impresa, improba, non riesce, ma non merita il dileggio cui è stata sottoposta dai critici statunitensi (in Italia siamo stati più equilibrati). A livello narrativo e musicale, Wish non riesce certo a essere la summa maxima del canone disneyano. La storia è leggerina, adatta a far sognare e intrattenere i più piccoli, con poche gemme per gli adulti (anche se la tematica centrale - il non rinunciare ai propri sogni - sicuramente risuonerà di più tra i genitori che tra figlie e figli). 

Wish rimane vittima del suo tentativo di omaggiare i suoi predecessori, con il risultato che siamo lontanissimi dalla profondità tematica e della vivacità dei lavori più recenti come Encanto o Oceania, per finire dalle parti di Frozen 2, con la differenza che qui la storia, in teoria, è originale. Qualche tema è interessante (il collettivo che sconfigge il singolo, con punte rivoluzionarie sorprendenti per la Casa del Topo), ma non abbastanza per sollevare il film oltre la soglia della sufficienza. Non aiuta una narrazione sbilanciata che, a parere di chi scrive, rivela troppo presto le sue carte, facendo perdere tutto il pathos a un colpo di scena (già spoilerato nel materiale promozionale) che aveva il potenziale di essere sconvolgente.
Anche la colonna sonora, pur orecchiabile, si dimentica facilmente, e non presenta nessuna traccia iperorecchiabile in grado di piantarsi in testa come Let It Go, You're Welcome, o We Don't Talk about Bruno.

A livello visivo, invece, il film è una degna celebrazione della storia della Disney: una storia di innovazione continua, spinta inizialmente dal genio di Walt ma poi proseguita, seppur a fasi alterne, per tutta la sua storia. Wish porta finalmente in un lungometraggio la tecnica inventata proprio dalla Disney con il corto Paperman, che permette di unire la qualità artistica del disegno manuale alla tridimensionalità della computer grafica - tecnica abbondantemente usata al cinema da altre produzioni, ma per qualche strano motivo mai adottata dai suoi stessi inventori. Il risultato è un film che sembra un quadro in movimento, in cui ai colori esuberanti di Encanto (e della produzione disneyana in generale) si sostituiscono colori più soft e caldi, che sembrano usciti da un film Ghibli, e che conferiscono a Wish un aspetto acquerellato e accogliente. Il disegno dei visi ha una qualità pittorica che conferisce espressività senza sacrificare la tridimensionalità. Un risultato, insomma, che omaggia il passato ma proietta la Disney nel futuro, esattamente come ci si poteva aspettare dal film del centenario.

Wish non brilla per originalità narrativa ma riesce comunque a intrattenere anche i più adulti, e presenta un'animazione innovativa che dimostra la continua vitalità creativa di una casa che esiste ormai da 100 anni. Era lecito aspettarsi qualcosa di più, certo, ma rimane un film che, pur dovendo barcamenarsi tra evidenti necessità commerciali e di marketing, riesce a trovare un proprio cuore emotivo che, se non fa sgorgare le lacrime, certamente riesce a riscaldare il cuore. È, in sintesi, un buon film delle feste, che strappa la sufficienza e non merita di essere massacrato né di essere derubricato alla visione streaming.

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Pier

sabato 16 dicembre 2023

Ferrari

Il motore sotto il cofano


Modena 1957. Enzo Ferrari, ex pilota e fondatore dell’omonima e celeberrima casa automobilistica, si trova ad affrontare una crisi personale e professionale. L’azienda è in grave difficoltà finanziaria, e il matrimonio con la moglie Laura è entrato in crisi in seguito alla morte del loro unico figlio, Dino, e la moglie non sa ancora che Enzo ha un figlio, Piero, nato fuori dal matrimonio. Il riscatto – professionale e, forse, anche personale – passa dalla vittoria nella “Mille Miglia”, leggendaria e folle gara di velocità.

In una scena di Ferrari, Enzo invita il piccolo Piero a immaginare il funzionamento di un motore senza averlo davanti, un motore sempre nascosto dal cofano ma così centrale al funzionamento dell’automobile; un motore la cui bellezza (o bruttezza) è importante tanto quanto la bellezza esteriore dell’automobile. Questo dialogo, all’apparenza secondario, racchiude in sé il tema centrale del film: il rapporto tra pubblico e privato, tra ciò che si vede e ciò che si nasconde sotto il cofano, invisibile, ma senza il quale l’auto non può nemmeno mettersi in moto.

Nonostante offra due diverse facce al mondo – energico e imperscrutabile in pubblico, fragile ed emotivo in privato, Enzo Ferrari scopre sulla sua pelle che le due sfere non sono separate, ma sono vasi comunicanti che è impossibile tenere completamente isolati. La sua crisi privata e famigliare si riverbera anche sulla sua azienda e sulla sua capacità di tenerla a galla. Ferrari, di fronte a questa doppia sfida, fa ciò che gli riesce meglio: rilancia, anziché arretrare, alzando il livello della sfida per sé e per i suoi dipendenti. 

Sembra strano che Michael Mann, in un film fatto di corse di automobili, di adrenalina e velocità, decida di occuparsi della sfera privata del protagonista. Eppure è proprio dalla tensione tra pubblico e privato che scaturisce la forza di Ferrari, l’energia che si accumula in silenzio, sotto traccia, e che poi esplode nel terzo atto, in cui la Mille Miglia, da semplice corsa, diventa molto di più: una sfida contro il tempo ma anche contro se stessi, contro un paese che non riesce a guardare avanti ma ha lo sguardo ostinatamente all’indietro e che però, nonostante questo, non riesce a distogliere lo sguardo dalle alchimie di motori del mago di Maranello. 

Mann evita la facile retorica e i pietismi che solitamente caratterizzano le descrizioni della sfera privata (chi scrive si è trovato, con un brivido di paura, a immaginare durante la proiezione come un regista medio italiano avrebbe trattato la materia, conferendole il classico taglio da “dramma da tinello”). Racconta il Ferrari privato con un taglio asciutto, cronachistico, aiutato anche dall’ottima prova di Adam Driver e Penelope Cruz (con buona pace di Favino e della sua sterile polemica veneziana), maestro e maestra dell’emozione trattenuta, della rabbia e della frustrazione accennate ma mai pienamente lasciate esplodere. 

Il Ferrari pubblico è invece raccontato con pathos, adrenalina, emozioni pulsanti, vive, di chi vede ogni giorno la morte in faccia. Mann dirige le scene delle corse con mano impeccabile, realizzando una Mille Miglia a tutto gas perfetta a livello visivo e di ritmo. 

Ferrari è un film di emozioni e ambizioni, sia realizzate che frustrate; è uno spaccato biografico di un uomo di contraddizioni, che sognava la normalità ma al tempo stesso desiderava l’immortalità, il brivido, il superare i propri limiti, ancora, e ancora, e ancora, fino alle estreme conseguenze.

****

Pier


Nota: questa recensione è stata originariamente pubblicata su Nonsolocinema.

mercoledì 6 dicembre 2023

Un Colpo di Fortuna - Coup de Chance

Il gioco del Fato



Fanny e Jean sembrano la coppia ideale. Sono ricchi, felici, e innamorati, nonostante le loro differenze: romantica e amante del rischio Fanny, metodico e deciso a controllare tutto Jean. Quando però nella vita di Fanny riappare Alain, suo ex compagno di liceo, tutto cambia all'improvviso. 

Bandito da Hollywood, Woody Allen si ritira in Francia (ironicamente, ciò che aveva previsto in Hollywood Ending) per il suo primo film non in inglese, e realizza un piccolo gioiello: un film brillante, poliedrico, sfaccettato. Un colpo di fortuna prende le mosse da un triangolo amoroso e diviene poi thriller, noir, tragedia greca senza perdere un'oncia di coesione e ritmo. Al centro, il ruolo della fortuna e del caso, un tema che sembra interessare molto Allen negli ultimi anni, da Match Point in poi. 

Alain è un agente del caso, e Fanny se ne fa travolgere, abbandonandosi al sentimento e agli eventi. Jean, invece, il caso lo combatte, lo sfida, cerca di domarlo, ghermirlo, incatenarlo. In queste due visioni della vita così opposte si trova il motore del film, il cuore di un dialogo platonico implicito in cui Allen, socraticamente, pone domande più che dare risposte, anche se si può facilmente intuire dove cadano le sue simpatie. 

La prima parte è inondata di dialoghi, in pieno stile alleniano, ma sono dialoghi ben scritti, brillanti, vivi e veri, che portano avanti l'azione anziché appesantirla, delineando un mondo ricchi inani e senza nulla da dire, intrappolati in gossip e routine di cui Fanny, nonostante tutti i suoi privilegi, finisce per sentirsi prigioniera. I personaggi sono ben delineati e interpretati, con Lou de Laâge che, come spesso accade alle protagoniste di Allen, brilla di luce propria (complice anche la splendida fotografia di Vittorio Storaro), donando alla sua Fanny il giusto mix di sensualità, humor, indolenza e innocenza. Valérie Lemercier è perfetta nel ruolo della madre di Fanny, e regala una prova che ricorda quelle di Diane Keaton negli anni più maturi della sua carriera. 

Nella seconda e nella terza parte i dialoghi si rarefanno, lasciando spazio all'inesorabile azione del Fato, con i personaggi che, anche quando credono di avere in mano la situazione, stanno solo creando le premesse per la loro disfatta. Il cinismo di Allen emerge più chiaramente in questa seconda parte, ma a differenza che in altri suoi film non supera l'affetto con cui il regista guarda ad alcuni dei suoi protagonisti. 

Un colpo di fortuna è il miglior film di Allen dai tempi di Blue Jasmine, un film che si presenta come una commedia sentimentale ma finisce per parlare della natura umana, del desiderio, e del destino, cinico e baro, sì, ma anche capace di catarsi e liberazione.

**** 1/2

Pier

Nota: questa recensione è stata originariamente pubblicata su Nonsolocinema.

lunedì 20 novembre 2023

The Old Oak

La necessità della solidarietà


L'Old Oak, pub una volta centro nevralgico della vita e delle proteste sindacali di una ex cittadina mineraria del Nord dell'Inghilterra, è ormai male in arnese, frequentato solo da pochi clienti regolari. Il proprietario, TJ Ballantyne lo tiene in piedi per lasciare un punto di ritrovo sociale nel paese, ma fa sempre più fatica. L'arrivo di alcuni rifugati siriani offre una nuova opportunità, a TJ, al suo pub, e al paese, ma rischia anche di essere la miccia che fa esplodere una tensione che serpeggia da quando la chiusura della miniera ha condannato la cittadina alla povertà e all'irrilevanza. 

C'è un aggettivo tremendamente abusato quando si parla di cinema: "necessario." Frasi come "è un film necessario" o "è una storia necessaria" vengono usate con incredibile prodigalità, e il risultato è che spesso, al termine della visione delle opere così descritte, lo spettatore si trova a pensare "mah, io forse non ne sentivo così tanto il bisogno".

Ken Loach è un regista per cui l'aggettivo incriminato non è fuori luogo, e The Old Oak, suo ultimo lavoro, non fa eccezione. Il cinema di Loach è necessario perché racconta valori e ideali profondamente umani, che dovrebbero essere il fondamento di qualunque società e cultura, e che oggi invece vengono visti quasi come deliri utopistici, impossibilità di fronte a una sperequazione sociale talmente incancrenita da essere vissuta come un fatto di natura, ineludibile e immodificabile come la composizione della materia. The Old Oak è un film necessario perché racconta l'ostinata sopravvivenza della solidarietà e del concetto di comunità in una società che spinge all'alienazione, allo sguardo miope verso il proprio ristretto orticello mentre tutto intorno a noi è in fiamme.

Tuttavia, lo sguardo di Loach è scevro di illusioni. Uno dei suoi personaggi, parafrasando una famosa intervista di Monicelli, dice che la speranza è una parola oscena, perché illude. The Old Oak non illude, e racconta una storia di speranza, sì, ma di speranza tradita, calpestata per piccole meschinità umane, troppo umane, con i perpetratori incuranti del dolore e della sofferenza che provocheranno con le loro azioni. Al tempo stesso, è una storia di speranza che non muore nemmeno quando è sconfitta, calpesta, e derisa, che si rialza di fronte alle difficoltà e marcia orgogliosa di fronte a un mondo che vorrebbe ucciderla.

Loach racconta due diverse povertà (quella dei profughi siriani, e quella del piccolo villaggio minerario inglese) con un piglio documentaristico ma senza scordarsi le emozioni, stringendo il cuore dello spettatore in una morsa di tristezza, brevi attimi di gioia, ma soprattutto facendogli provare empatia per tutti i protagonisti, intrappolati in un destino misero che non hanno fatto nulla per meritarsi. 

The Old Oak, tuttavia, non è solo un film di denuncia, ma anche una disperata ma accorata chiamata alle armi, al riconoscere che la guerra tra gli ultimi non aiuta nessuno se non i nostri istinti più biechi, e che è solo da una solidarietà veramente tale, capace di elevarsi oltre la carità per farsi comunità, rete di supporto e di ascolto, che possiamo sperare di guarire una società talmente malata da essere quasi terminale.

**** 1/2

Pier

giovedì 9 novembre 2023

The Killer

La routine dell'omicidio


Un killer senza nome vive la sua professione con ossessiva meticolosità. Un giorno, però, fallisce un obiettivo, e la sua vita ordinata e senza variazioni viene del tutto sconvolta. 

Fare il killer è un lavoro come un altro: questo sembra essere l’assunto che guida il nuovo film di David Fincher, in cui il protagonista ha la verve e le strette routine di un impiegato, l’approccio metodico e controllato di un contabile, la divisione vita-lavoro di chi timbra il cartellino. Il killer interpretato da Fassbender è anonimo e vuole esserlo, ripete continuamente le sue regole come un mantra, e medita per mantenere sotto controllo le sue emozioni: incarna, in sintesi, la banalità del male, un male fatto di apatia e meccanica ripetizione. 

Ma come reagisce un uomo del genere a un imprevisto che sconvolge, anzi, distrugge le sue routine e le sue abitudini? La rottura dei fragili equilibri che regolano le nostre esistenze è un leitmotiv della cinematografia fincheriana, e in particolare dei suoi film che si focalizzano su omicidi e killer come Se7en e Zodiac. Lì però il killer era l’elemento destabilizzante, il Male che si infiltrava nelle vite di persone comuni, sconvolgendole fino a farsi ossessione. Qui è il killer a subire, in un certo senso, la sua stessa medicina, e la sua reazione è il focus principale del film.

Sfruttando lo strumento della voce narrante, Fincher esplora la psiche del suo protagonista. I diversi approcci che usa per affrontare gli ostacoli di diversa natura che gli si parano davanti ci rivelano vari lati della sua personalità, che scopriamo essere più sfaccettata di quello che sembrava in prima istanza. Fassbender mette fisico e espressione glaciale al servizio di questo lavoro di introspezione, che risulta quindi ben riuscito. 

Ciò che manca, tuttavia, è la scintilla che elevi il film al di sopra di un “semplice” lavoro ben riuscito: Fincher realizza un film solido ma apatico, un’aggiunta interessante ma minore alla sua cinematografia in generale, e a quella dedicata alle pulsioni più oscure dell’animo umano (tra cui spiccano i due film sopracitati) in particolare. Alcune sequenze sono decisamente ben fatte, ma per il resto The Killer scorre verso il suo finale senza sussulti, con un ritmo regolare e ben strutturato che manca però di guizzi, sorprese, originalità. Un peccato per un regista che ci aveva abituato a uno sguardo sempre nuovo anche su tematiche e generi ben collaudati.

***

Pier

Nota: questa recensione è stata originariamente pubblicata su Nonsolocinema.

domenica 29 ottobre 2023

Killers of the Flower Moon

La banalità del male


Oklahoma, anni Venti. Ernest Burkhart torna dalla guerra e si reca dallo zio, William Hale, che gli ha promesso un lavoro. Hale è in ottimi rapporti con i nativi che vivono in quella zona, gli Osage, divenuti improvvisamente ricchi perché nella loro terra è stato trovata (inaspettatamente) una grande quantità di petrolio. Quando Ernest si invaghisce di Mollie, un'ereditiera Osage, lo zio non solo approva, ma favorisce la relazione. Il perché diverrà terribilmente chiaro di lì a poco, ed Ernest si troverà di fronte a una scelta.

Dopo l'epico e crepuscolare The Irishman, un inno al potere salvifico della memoria e dei ricordi a fronte di un presente di delusione, Martin Scorsese realizza un altro film che ha al suo cuore l'importanza del ricordo, declinato qui però come testimonianza, come memoria di un passato orribile, di vicende che vorremmo, ma non dobbiamo, dimenticare. In Killers of the Flower Moon, Scorsese continua a raccontare il tema che attraversa tutta la sua cinematografia, le mille manifestazioni del Male nel mondo, e lo fa con un piglio di denucia e quasi documentaristico degno di Michael Moore, regalandoci protagonisti che, per immensa idiozia o ancor più immensa avidità, non si fanno scrupolo nello sterminare un'intera popolazione.

A differenza che in altri suoi film, tuttavia, Scorsese non ammanta di alcun romanticismo i suoi villains e le loro azioni: i killer del titolo si comportano come contabili, e dispongono delle vite altrui come si disporrebbe di un masso che impedisce il passaggio sulla strada. Gli Osage sono de-umanizzati dai protagonisti e, in parte, anche dall'occhio del regista, che sembra voler costringere lo spettatore a "immedesimarsi" con gli omicidi per fargli comprendere appieno gli orrori che si nascondono nel passato degli USA: il West non è stato scoperto o conquistato, ma rubato, e l'indifferenza di oggi nei confronti di quella tragedia non è meno terribile delle atrocità di ieri. 

Ernest, interpretato con magnifica e credibile stolidità da Di Caprio, è il simbolo dell'ignavia di un intero paese, un utile idiota che si fa trascinare dagli eventi ma che, nonostante ne abbia più volte occasione, non sceglie mai la strada della redenzione, minimizzando di continuo la severità delle sue azioni.
Il vero Male è incarnato invece dallo zio Bill, un De Niro mai così spaventoso nonostante non maneggi mai nulla di più pericoloso di un'asse di legno: il  suo personaggio è il Satana biblico, un affascinante tentatore che, come il serpente, si insinua nel giardino dell'Eden fingendosi amico, per poi inquinare le vite di coloro che si sono fidati di lui.

La de-umanizzazione degli Osage, tuttavia, non è totale: Scorsese affida il cuore emotivo del film a Molly, una Osage che - nel bene e nel male - è sempre artefice del suo destino, e che vede il proprio mondo crollare a causa delle azioni abiette di chi aveva giurato di proteggere lei e la sua gente. È lei la vera vittima del Male che si insinua in Oklahoma, distruggendo la sua famiglia e devastandole il corpo e lo spirito. Non è un caso, in tal senso, che le scene della sua malattia siano riprese proprio come quelle di una possessione demoniaca, e che solo un salvifico intervento esterno riesca a liberarla del Male che la stava portando alla morte.

Se l'operazione di Scorsese è vincente a livello cognitivo, è invece parzialmente fallimentare a livello emotivo: l'oggettificazione degli Osage e la banalizzazione del male funzionano a livello di denucia, ma azzoppano il coinvolgimento dello spettatore, che non riesce davvero a empatizzare con protagonisti cui le cose sembrano sempre accadere, anche quando, come nel caso di Mollie, la loro attività nelle decisioni prese è presentata chiaramente sullo schermo. Anche Mollie, dunque, nonostante l'ottima (anche se non stratosferica come si è letto in giro) prova di Lily Gladstone, non riesce a conquistare il cuore dello spettatore dato che ogni coda che le accade sembra inevitabile, ineludibile: non si "tifa" per lei perché non c'è mai davvero un momento in cui sembra che possa sfuggire a quel che le sta succedendo, in cui possa fare una scelta diversa, congegnare un piano di azione per liberarsi del giogo cui è costretta.

Il risultato è un film forse troppo cerebrale, e che finisce quindi per avere un impatto infinitamente inferiore rispetto al potenziale della storia narrata, complice anche una durata che non sembra giustificata dallo svolgimento narrativo, soprattutto nella seconda metà, dove alcune situazioni risultano un po' ripetitive. La bellezza delle immagini e della costruzione bastano a rendere il film eccellente, ma non a elevarlo allo status di capolavoro.

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Pier

giovedì 19 ottobre 2023

Io Capitano (In pillole #27)

Narrami, o Musa...


Raccontare il viaggio di due ragazzi dal Senegal all'Italia, attraverso una delle tante "rotte dei migranti", non è un esercizio semplice. Altissimo il rischio di scadere nella retorica da una parte, e nella pornografia della violenza dall'altra. Garrone sceglie una terza via che evita ambedue questi problemi - la via della fiaba e del racconto epico. Nel farlo, realizza un film vero e onirico al tempo stesso, con personaggi non meno "assurdi" di un ciclope o delle sirene che però sono tristemente reali.

Tra deserti, prigioni, mare, nemici crudeli e insperati dei ex machina, Garrone dimostra di non essere  interessato a fare un film di denuncia, ma a raccontare un'Odissea contemporanea in cui però non si torna a casa, ma se ne cerca una nuova. L'impatto emotivo non è forte quanto avrebbe potuto essere, anche a causa dell'evoluzione psicologica quasi assente dei protagonisti, veri e propri archetipi narrativi. 

Ai protagonisti, tuttavia, ci si affeziona fin da subito, anche grazie alla loro prova straordinaria (in particolare quella di Seydou Sarr), e si fa attivamente il tifo per loro mentre si muovono in scenari in cui assistiamo a tutta la solidarietà e tutta l'atrocità di cui è capace l'uomo, con immagini che brillano di orrore e lirismo. Il finale è un urlo di liberazione, anche se chi guarda sa bene che quel punto di arrivo è solo l'inizio di un altro viaggio appena meno terribile di quello appena concluso.

Io Capitano è fiaba, epica, racconto di formazione: non si fa leva sulle emozioni negative della denuncia, ma su quelle positive dell'empatia e del desiderio di vedere il sogno altrui realizzato. Nonostante qualche passaggio a vuoto, il film funziona e crea un'alleanza tra pubblico e personaggi, umanizzando persone su cui leggiamo solo sterili cronache, e mostrandone tutta l'umanità.

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Pier


sabato 9 settembre 2023

Venezia 2023 - Il Totoleone

Anche quest'anno siamo giunti al termine della Mostra del Cinema, tra biciclette, caffè di corsa, e maître à penser in panama bianco: una Mostra che, nonostante lo sciopero di Hollywood, è riuscita ad andare in scena senza quasi nessun cambio di programma. finalmente tornata alla normalità, con sale piene, dibattiti in coda, feste, biciclette, e panama bianchi. Il programma è stato molto ricco e variegato, e ancora una volta non si possono che fare i complimenti ad Alberto Barbera: speriamo vivamente non sia giunto al suo penultimo o addirittura ultimo anno.

È stata una Mostra in cui ha trionfato il bianco e nero, scelto da tantissimi film, da El Conde a Maestro, passando per The Theory of Everything, Green Border e Poor Things (quest'ultimo solo in parte). È stata anche una mostra di biografie (Leonard Bernstein e Felicia Montealegre, Priscilla Presley, Enzo Ferrari, Isabelle Wilkinson, Pinochet, Salvatore Todaro) e con molti film di tema politico, che sia passato (El Conde, Bastarden, Lubo), presente (Green Border) o futuro (La Bête).

Qui trovate un elenco, con voti, dei film visti. Di seguito, invece, trovate i pronostici, quasi sicuramente sbagliati, per il Leone d'Oro e gli altri premi, corredati come sempre dalle mie preferenze personali.


Premio Mastroianni per il miglior attore emergente
Sembra esserci solo un giovane attore che si è distinto al punto di meritare il premio dedicato alla memoria del grande Marcello Mastroianni: è Seydou Sarr, giovane e carismatico protagonista di Io Capitano, il film di Matteo Garrone.
PronosticoSeydou Sarr, Io Capitano
Scelta personaleSeydou Sarr, Io Capitano

Coppa Volpi maschile
Sfida combattuta, con nomi forti: dall'Adam Driver di Ferrari (con buona pace di Favino) al Mads Mikkelsen di Bastarden, passando per Bradley Cooper in Maestro e Caleb Landry Jones di Dogman. Sul suo dolente antieroe canino ricade il mio pronostico, mentre la mia scelta personale va a Mads Mikkelsen, splendido contadino testardo.
PronosticoCaleb Landry Jones, Dogman
Scelta personaleMads Mikkelsen, Bastarden

Coppa Volpi femminile 
La coppa, in questo caso, dovrebbe andare a Emma Stone, la cui performance in Poor Things è una di quelle che gli anglosassoni chiamano for the ages, destinata a rimanere nella storia. Ma Emma Stone ha già vinto la Coppa per La La Land, e il film di Lanthimos è papabile per la vittoria del Leone d'Oro, che solitamente preclude altri premi. Il pronostico ricade quindi sulla bravissima Carey Mulligan, che domina la scena e offre una performance intensa e viva in Maestro. 
Pronostico: Carey Mulligan, Maestro
Scelta personale: Emma Stone, Poor Things

Leone d'Argento (Miglior Regia) 
Con Green Border, Agnieszka Holland ha realizzato un film autoriale ma dai fortissimi contenuti sociali: su di lei ricade il mio pronostico. La mia scelta personale va invece a Nikolaj Arcel e alle splendide immagini crepuscolari, girate interamente in luce naturale, del suo Bastarden.
Pronostico: Agnieszka Holland, Green Border
Scelta personale: Nikolaj Arcel, Bastarden

Gran Premio della Giuria 
Il favorito per il secondo premio più importante sembrerebbe Ryūsuke Hamaguchi e la sua favola (nera? Il finale desta ancora interrogativi a giorni dalla visione) ecologista Evil Does Not Exist, lirico e potente al tempo stesso. Su di lui ricade anche la mia scelta personale, anche se fino all'ultimo ho esitato con The Theory of Everything, una bellissima sorpresa ingiustamente snobbata da molti critici.
PronosticoEvil Does Not Exist
Scelta personaleEvil Does Not Exist

Leone d'Oro 
Sfida davvero accesa e incerta: se ci fosse giustizia dovrebbe trionfare Poor Things, l'unico film che ha unanimemente entusiasmato pubblico e critica, in cui tutto, dalla recitazione alla fotografia, passando per la scrittura, è semplicemente perfetto. Tuttavia, sembra poco nelle corde di Damien Chazelle e soci (anche se, forse, Jane Campion...) e, soprattutto, potrebbe soffrire la classica sindrome del film "che non ha bisogno di vincere." Ecco allora che il favorito, silenziosamente, potrebbe diventare quell'Odissea moderna, quel viaggio sospeso tra l'atroce realtà e il sogno che è Io Capitano di Matteo Garrone, riportando così il Leone d'Oro in Italia 10 anni dopo Sacro GRA
Pronostico: Io Capitano
Scelta personale: Poor Things

È tutto anche per quest'anno. Correte in SNAI a scommettere sull'opposto dei miei pronostici, e noi risentiamo per l'edizione 2024.

Pier

Telegrammi da Venezia 2023 - #7

Ultimo telegramma da Venezia, con l'ultimo film in concorso e l'elenco definitivo di tutti i film visti del concorso, con i relativi voti. 


Memory (Concorso), voto 7. Come suggerito dal titolo, la memoria è al centro del nuovo film di Michel Franco: la memoria del passato, fatto di traumi mai pienamente superati, e quella del presente che se ne va a causa di una malattia. Due solitudini che si incontrano, tante barriere da abbattere, in un film ricco di cuore grazie anche alle ottime performance dei due protagonisti, Jessica Chastain e Peter Saarsgard.

Film in Concorso

Di seguito l'elenco di tutti i film in Concorso e il relativo voto. Quando il voto era pari, ho messo davanti il preferito. Cliccando il titolo potete leggere la recensione breve pubblicata nei Telegrammi precedenti.
  1. Poor Things, voto 9.5
  2. Bastarden, voto 8
  3. Evil Does not Exist, voto 8
  4. Woman Of, voto 8.
  5. El Conde, voto 8
  6. Theory of Everything, voto 8
  7. Io Capitano, voto 7.5
  8. Enea, voto 7.5
  9. Ferrari, voto 7.5
  10. Maestro, voto 7
  11. Memory, voto 7
  12. Dogman, voto 7
  13. Adagio, voto 7
  14. The Killer, voto 6.5
  15. Holly, voto 6.5
  16. Comandante, voto 5.5
  17. Origins, voto 5.5
  18. Priscilla, voto 5
  19. Lubo, voto 5
  20. Finalmente l'Alba, voto 3.5
Non visti: Green Border, La Bete, Hors Saison.

Per i telegrammi è tutto, a più tardi per i pronostici.

Pier

venerdì 8 settembre 2023

Telegrammi da Venezia 2023 - #6

Sesto telegramma da Venezia, tra poteri curativi, rapimenti statalizzati di bambini, geni dell'arte, geni della musica e della comicità, e percorsi alla ricerca di un'identità.



Holly (Concorso), voto 6.5.  Un’interessante, seppur disunita, meditazione di afflato biblico su tematiche universali della condizione umana: utilizzo dei talenti, colpa, espiazione, sacrificio. Holly le racconta attraverso gli occhi di una bambina dolente, vittima di bullismo, ma in grado nonostante questo di rivolgere le sue energie ad aiutare gli altri, anziché vendicarsi dei torti subiti. Qui la recensione completa scritta per Nonsolocinema.

Lubo (Concorso), voto 5. Giorgio Diritti vorrebbe raccontare la tragedia dei figli della comunità rom rapiti dallo stato svizzero durante il secondo dopoguerra con la precisa finalità di eradicare la comunità stessa. Vorrebbe, appunto, perché a metà film il regista perde di vista l'obiettivo e dedica oltre metà delle tre ore di pellicola a un dramma borghese, in cui i figli rapiti vengono dimenticati da protagonista, regista, e spettatori. Il risultato è un film poco potente e di scarsa portata emotiva, un colpo a vuoto laddove poteva essere un colpo allo stomaco. La ricostruzione storica è ottima, ma non basta.

Vengo Anch'Io (Fuori Concorso), voto 8.5. Splendido documentario sul genio creativo di Enzo Jannacci, raccontato attraverso le sue parole, le sue musiche, e i ricordi e i commenti di tanti grandi della comicità e della musica, da Paolo Conte a Renato Pozzetto, da Vasco Rossi a Roberto Vecchioni, tutti legati dalla stima per un artista unico, folle, e geniale. 

Daaaaaali! (Fuori Concorso), voto 6. Piccolo e riuscito divertissement di Quentin Dupieux, che racconta Dalì attraverso la storia, stralunata e surreale, di un documentario, stralunato e surreale, sulla sua vita. Si ride, e si conosce un po' meglio l'artista: nulla di più, ma funziona.

Kobieta Z... (Woman of) (Concorso), voto 8. Un uomo polacco con moglie e figli si rende conto di sentirsi, da sempre, una donna nel corpo sbagliato, e comincia il processo di transizione, nonostante in Polonia non esista una legge in tal senso. Dopo un inizio folgorante, fatto di pochissime parole e immagini liriche ed evocative, il film si incanala su binari più classici ma comunque efficaci, risultando uno dei migliori film su disforia di genere e transessualità grazie alla delicatezza e intimità con cui racconta la storia e tratteggia i suoi protagonisti.

Phantom Youth (Orizzonti Extra), voto 8. Due ragazze kosovare fuggono da casa per andare all'università. Scopriranno che il loro sogno è destinato a infrangersi contro il più oscuro e frustrante dei nemici: la mancanza di fondi. Un film che racconta la ricerca di un futuro da parte di una generazione cui è stato negato e lo fa con la forza di una storia vera, autentica, divertente e disperata, che arriva dritta al cuore.

Pier

mercoledì 6 settembre 2023

Telegrammi da Venezia 2023 - #5

Quinto telegramma da Venezia, tra riflessioni sul ruolo del caso nelle nostre vite, generazioni perdute, viaggi della speranza, viaggi ricchi di cuore, e rapporto tra uomo e animali.



Coup de Chance (Fuori Concorso), voto 8.5. Il miglior film di Allen dai tempi di Blue Jasmine, un film che si presenta come una commedia sentimentale ma finisce per parlare della natura umana, del desiderio, e del destino, cinico e baro, sì, ma anche capace di catarsi e liberazione. Qui la recensione completa scritta per Nonsolocinema.

Enea (Concorso), voto 7.5. Dopo il convincente esordio di PredatoriPietro Castellitto torna alla regia con un film che racconta il vuoto di una generazione e di una classe sociale (la sua) con brutale onestà. Castellitto alza decisamente il tiro, realizzando un film complesso, sfaccettato e ambizioso: spesso gli sfugge di mano, e non tutti i momenti sono riusciti, ma ad avercene di giovani registi italiani così coraggiosi e creativi. Qui la recensione completa scritta per Nonsolocinema.

Snow Leopard (Fuori Concorso), voto 7.5. Un bel film sul rapporto tra uomo e natura, tra animali e uomini, quantomai attuale dopo la barbara uccisione dell'orsa Amarena in Abruzzo. L'incontro-scontro tra una troupe televisiva, una comunità locale, e un leopardo delle nevi viene raccontato con creatività e profondità, esplorando anche le tradizioni di un popolo, i Tibetani, da sempre abituati a convivere con una natura apparentemente ostile. 

Io Capitano (Concorso), voto 7.5. Garrone firma un film epico e onirico con al centro il viaggio di due migranti dal Senegal all'Italia. Deserti, prigioni, mare, nemici crudeli e insperati dei ex machina: Io Capitano non è un film di denuncia, ma un'Odissea moderna in cui però non si torna a casa, ma se ne cerca una nuova. L'impatto emotivo non è fortissimo e l'evoluzione psicologica dei personaggi quasi assente: ma l'atmosfera è quella della fiaba. I due protagonisti sono attori strepitosi e le immagini brillano di orrore e lirismo.

Origins (Concorso), voto 5.5. La storia della scrittrice Isabel Wilkerson, prima afroamericana a vincere il premio Pulitzer, e della scrittura del suo libro Caste. Il film si muove tra un'analisi sociologica documentaristica e una storia dai forti connotati emotivi e personali. La fusione a freddo tra le due parti non riesce, e quel che resta è quel che chi scrive definisce un "film-Balto": non è cane, non è lupo, sa soltanto quello che non è.

Gasoline Rainbow (Orizzonti), voto 9. Un ultimo viaggio insieme prima di diventare grandi, un'avventura on the road condotta ai margini, fatta di solidarietà, allegria, e affetto sincero. Una delle sorprese più belle del festival, un film che regala immagini innovative e di una bellezza abbacinante e, al tempo stesso, tracima di affetto, energia e vitalità grazie ad attori eccellenti e a dialoghi finalmente veri, vivi, pulsanti. Un piccolo gioiello.

Pier

lunedì 4 settembre 2023

Telegrammi da Venezia 2023 - #4

Quarto telegramma da Venezia, tra killer in crisi, l'impatto duraturo delle guerre, comunità rurali giapponesi, non morti, e mogli di celebri cantanti.

The Killer (Concorso), voto 6.5. Fincher racconta la storia di un killer dal piglio impiegatizio, con routine da cartellino e un'apatia latente. La banalità del male, dunque, raccontata con un abbondante uso di voice over e facendo leva sull'espressione glaciale di Fassbender. Il risultato è efficace, ma poco ispirato: un compito ben eseguito, ma nulla più. Qui la recensione completa scritta per Nonsolocinema. 

Evil Does Not Exist (Concorso), voto 8. Dal regista di Drive My Car, una riflessione a tutto tondo sul rapporto tra uomo e natura, affrontato senza retorica né desiderio di compiacere, ma focalizzandosi sul rapporto simbiotico tra comunità e paesaggio. Finale soprendente, fortemente metaforico, che scarta di lato e lascia più domande che risposte, dimostrando grande coraggio.

Le Vourdalak (Settimana della Critica), voto 5. Da un racconto di Tolstoj, una storia di vampiri molto convenzionale, evocativa nelle atmosfere ma un po' confusa nella narrazione, con un trucco del vampiro poco riuscito. 

Shadow of Fire (Orizzonti), voto 8.5. Gli orrori e le tragedie che la guerra lascia dietro di sé raccontati attraverso gli occhi di un bambino che si trova a interagire con reduci di vario genere. Il film alterna momenti cupi e riflessivi ad altri di pura poesia, una commistione di toni e linguaggi che conquista, commuove, e fa riflettere. 

Priscilla (Concorso), voto 5. Sofia Coppola firma un biopic poco ispirato su Priscilla Presley, raccontando il plagio operato - consciamente o inconsciamente - da Elvis nei suoi confronti. Il film scorre senza sussulti, e non riesce a offrire una prospettiva nuova su una storia conosciuta e mostrata con uguale efficacia e, paradossalmente, maggiore critica nei confronti di Elvis nel film omonimo.

Hit Man (Fuori Concorso), voto 8.5. La storia vera di un insegnante universitario che diviene collaboratore della polizia fingendosi un killer a pagamento. Linklater firma un film esilarante, perfetto per ritmo, costruzione e interpretazione, che strappa applausi a scena aperta.

Pier

domenica 3 settembre 2023

Telegrammi da Venezia 2023 - #3

Terzo telegramma da Venezia, tra maestri dell'horror, maestri d'orchestra, sciamani in fieri, sci-fi hitchcockiani, e geni sconsiderati della comicità.


Dario Argento Panico (Venezia Classici), voto 5.5. Interessante documentario su Dario Argento, che manca però di un filo conduttore ben definito e di quella passione per la materia che dovrebbe trasparire da questi lavori. La freddezza del materiale fa sì che chi è già appassionato ad Argento possa goderselo, ma "respinge" chi volesse scoprire il maestro dell'horror per la prima volta.

Thank You Very Much (Venezia Classici), voto 8. Ottimo documentario su Andy Kaufman, folle e geniale comico già reso immortale da Jim Carrey in Man on the Moon. Il film racconta in modo efficace e appassionato la sua vita, i suoi personaggi, il suo carattere del tutto imprevedibile, al punto che, ancora oggi, c'è chi crede abbia finto la propria morte.

City of Wind (Orizzonti), voto 7. Un adolescente che studia per diventare sciamano scopre l'amore, e non sarà più lo stesso. La storia del protagonista è quella del suo paese, la Mongolia, teso tra tradizione e modernità, radici ancestrali e nuovi desideri. Un'opera prima molto interessante, che conquista grazie a un protagonista indovinato e a una bella fotografia.

Maestro (Concorso), voto 7. Al suo secondo film da regista, Bradley Cooper realizza un biopic classico, forse un po' troppo viste le vite poliedriche dei suoi protagonisti, ma ben eseguito, raccontando il rapporto tra Felicia Montealegre e Leonard Bernstein. La fotografia adotta un bellissimo bianco e nero per le prime parti del film, salvo poi spostarsi sul colore per raccontare gli ultimi anni di una coppia artistica tormentata (soprattutto a causa della bisessualità e della depressione di lui) ma unita da un amore più forte delle convenzioni. Ottime prove dei due protagonisti, lo stesso Cooper e un'eccellente Carey Mulligan, vera forza trainante del film.

Theory of Everything (Concorso), voto 8. Come sarebbe la serie Netflix Dark se fosse girata da Alfred Hitchock? La risposta è questo thriller che si muove tra scienza e intrigo con un bianco e nero di stampo hitchockiano, in cui la porta per universi paralleli è nascosta vicino a un hotel nelle montagne svizzere, e misteriosi individui inseguono un protagonista geniale quanto imbelle. Tra Io ti salverò e Il terzo uomo, il film di Timm Kröger cita i grandi classici del genere e li rielabora in chiave filosofico-fantascientifico, realizzando uno dei film più curiosi e spiazzanti del festival. Fotografia splendida, con un uso del bianco e nero degno dei grandi maestri cui il film si ispira.

The Caine Mutiny Court-Martial (Fuori Concorso), voto 7.5. L’ultimo film di William Friedkin, scomparso di recente, è un tesissimo court drama che si concentra su una questione etica centrale nella poetica del regista: il sottile confine tra bene e male, giusto e sbagliato. Qui la recensione completa scritta per Nonsolocinema.

Pier e Simone

sabato 2 settembre 2023

Telegrammi da Venezia 2023 - #2

Secondo telegramma da Venezia, tra donne resuscitate, coloni testardi, pessime ricostruzioni storiche, cinepanettoni inaspettati, e gangster crepuscolari.


Bastarden (Concorso), voto 8. Un uomo caparbio, un territorio dimenticato da Dio e apparentemente sterile, un signorotto locale tanto privilegiato quanto crudele, due servi in fuga: questi gli ingredienti del film di Nikolaj Arcel, girato splendidamente in luce naturale, scelta che regala alcuni immagini mozzafiato della natura matrigna contro cui si battono i protagonisti. Ottima prova, come sempre, del protagonista Mads Mikkelsen, soldato caparbio prigioniero dei suoi principi e della sua ambizione.

The Wonderful Story of Henry Sugar (Fuori Concorso), voto 7. Un bel divertissement in forma di mediometraggio, tratto da un'opera di Roald Dahl. Wes Anderson realizza un film delizioso che parla del potere redentivo delle storie e del racconto, e lo condisce con il suo impeccabile gusto per la messa in scena, sempre più esplicitamente teatrale.

Poor Things (Concorso), voto 9.5. Lanthimos racconta una donna che ri-scopre da zero le convizioni sociali, il suo ruolo nel mondo, e il sesso, in un mix tra horror, commedia (si ride tantissimo) e fantastico che unisce idealmente la poetica del primo Lanthimos (The Lobster, Alps, Il Sacrificio del Cervo Sacro) con La Favorita. Sceneggiatura da manuale, che miscela alla perfezione risate e riflessione, il tutto immerso in un'estetica che strizza l'occhio a Tim Burton e Wes Anderson, ma rielaborati in modo originale, creativo, vivo. Prova superba di Emma Stone nel ruolo di una novella Frankenstein che cerca, anzi, si prende un'emancipazione sociale e sessuale. Un film travolgente, impeccabile, imperdibile.

Adagio (Concorso), voto 7. Tre anziani gangster (il trio Servillo-Mastandrea-Favino) ormai in pensione, un carabiniere non di specchiata onestà, figli da mantenere e figli che si mettono nei guai. Sollima firma un gangster movie all'amatriciana dolente e crepuscolare, che parla di redenzione, espiazione, ed eredità morale. Il film è teso come una corda di violino, senza un minuto di troppo, con protagonisti da tragedia greca, inseguiti da un fato inesorabile mentre Roma, sullo sfondo, brucia. 

Finalmente l'alba (Concorso), voto 3.5 Un accrocco di cose già viste, ma fatte meglio, il nuovo film di Costanzo si distingue per inutilità e per il peccato mortale per eccellenza per un regista: non avere nulla da dire. Non basta a salvarlo (soprattutto a fronte dell'assurdo budget di 30 milioni) una buona fotografia.

The Palace (Fuori Concorso), voto 3. Quella che poteva (e, probabilmente, voleva) essere una satira sociale sui super-ricchi, leggera e incisiva, finisce per essere poco di più di un cinepanettone. Inaccettabile da un regista della caratura di Polanski. Qui la recensione completa scritta per Nonsolocinema.

Pier

giovedì 31 agosto 2023

Telegrammi da Venezia 2023 - #1

Come ogni anno, Film Ora è a Venezia, e vi accompagnerà per tutta la Mostra del Cinema con i suoi telegrammi, recensioni brevi dei film visti nelle varie sezioni. Una Mostra con tantissimi titoli interessanti, che promette belle sorprese e anche qualche inevitabile delusione.


Ecco i film visti nel primo giorno e mezzo di Mostra:

Comandante (Concorso), voto 5.5. La storia vera di Salvatore Todaro, raccontata con un comparto visivo e attoriale di buon livello ma con una sceneggiatura da film TV Rai, troppo retorica e didascalica nonostante qualche guizzo ben riuscito. Belle le scene nel sommergibile, ma non basta a salvare il film.

Gli Oceani Sono i Veri Continenti (Giornate degli Autori), voto 8.5. Un film italiano fresco e poetico, esordio al lungometraggio di Tommaso Santambrogio, che racconta la vita a Cuba e l'eterno struggersi tra il desiderio di partire e quello di non perdere le proprie radici. Un film che parla di nostalgia, di abbandono, di un sogno cubano che non c'è più, delle sirene di un sogno americano che attrae e respinge, ma soprattutto parla di amore: amore fraterno, amori in crescendo, amori perduti, amore per un'isola decadente ma irrimediabilmente romantica, tutto fotografato in un bianco e nero struggente, pittorico. 

El Conde (Concorso), voto 8. Larrain racconta Pinochet attraverso un film ibrido, cangiante e multiforme, che mischia ingredienti apparentemente incompatibili come Nosferatu (e più in generale l'espressionismo tedesco, fin dalla scelta del bianco e nero), Wes Anderson, What We Do in the Shadows e la satira politica alla Armando Iannucci: un film che parla di fascismi e di ritorno degli stessi, con un Pinochet vampiro raccontato da una voce narrante la rivelazione della cui identità non mancherà di divertire lo spettatore. Il film si sfilaccia un po' troppo nel finale, ma regala grandissimi momenti di satira e visivi.

A Cielo Abierto (Orizzonti), voto 6. I figli di Guillermo Arriaga portano sul grande schermo una vecchia sceneggiatura del padre, interessante mix tra road e revenge movie, in cui tre ragazzi viaggiano per il Messico per vendicare un vecchio torto, finendo per scoprire se stessi. Nulla di eccessivamente originale, ma la trama funziona, i tre protagonisti sono bravissimi ed empatici, e la visione intrattiene. 

Dogman (Concorso), voto 7. Un ragazzo cresciuto in una gabbia per cani per scelta del padre violento ritrova se stesso grazie al rapporto con gli animali, scoprendo un'anima da performer e da paladino dei deboli. Partendo da una storia di cronaca, Luc Besson immagina la nascita di un individuo straordinario ma solitario (che ricorda a tratti il suo Lèon), segnato dalla vita ma deciso a viverla secondo i suoi termini. Quella che in superfice sembra un thriller che racconta la origin story di un villain di Batman diventa quindi una riflessione sulla diversità e la solitudine, sull'elaborazione del trauma, sul sadismo e sulla sofferenza subiti che, per una volta, non chiama altra sofferenza e altro sadismo, ma un tentativo di redenzione che passa dalla comunione con la natura e con gli animali. Non si raggiungono le vette di Joker, ma il film funziona e intrattiene. Ottima prova di Caleb Landry Jones nel ruolo del protagonista.

Ferrari (Concorso), voto 7.5. Un film che racconta il Ferrari pubblico e quello privato in un momento chiave della sua vita, e il rapporto ineludibile tra le due sfere. Ferrari è un film di emozioni e ambizioni, sia realizzate che frustrate; è uno spaccato biografico di un uomo di contraddizioni, che sognava la normalità ma al tempo stesso desiderava l'immortalità, il brivido, il superare i propri limiti. Qui la recensione completa scritta per Nonsolocinema.

Pier

domenica 27 agosto 2023

Oppenheimer

Il dramma di Prometeo


Il film racconta la vita di Robert J. Oppenheimer, dagli inizi nella fisica al progetto Los Alamos, in cui guidò il team che creò la prima bomba atomica, passando per gli anni successivi alla fine della guerra, quando si batté per la non-proliferazione.

Sulla carta, Oppenheimer potrebbe apparire un film poco nolaniano: si tratta, in primo luogo, di un film biografico, senza quell'elemento "di genere" che rimaneva comunque presente nell'altro film più "classico" di Nolan, Dunkirk. Ci sono molteplici piani narrativi, certo, ma sono molto semplici da decodificare, semplici "avanti e indietro" temporali che non disorientano nemmeno per un attimo, ben lontani dagli intricati e molteplici piani di trama di Inception e Tenet, ma anche dai semplici cambi di prospettiva di The Prestige. 

Eppure Oppenheimer è forse la summa del cinema nolaniano, l'apice (per ora) della sua analisi della finitezza dell'uomo, declinata in un'ossessione per il tempo (cronologico, ma soprattutto cinematografico) e nella sua attrazione per il sublime, per ciò che terrorizza e al tempo stesso attira, per quelle oscure pulsioni che ci portano a spingere sempre più in là i limiti di ciò che è umanamente possibile. Il tempo è materia plasmabile nelle mani di Nolan, che lo manipola a suo piacimento: anni di vita diventano pochi minuti di montaggio, mentre un'audizione al Congresso viene riportata praticamente in tempo reale. Non è un caso che Nolan dilati i momenti che si focalizzano sul percorso alla ricerca del Vero, uno dei grandi obiettivi della scienza, destinato però a eludere tutti, anche le menti più geniali, come ben illustrato dalla figura di Einstein e del misterioso dialogo tra lui e il protagonista che verrà rivelato solo a fine film: anche i geni, in fondo, vengono superati, sorpassati da una realtà che si rivela sempre più complessa di quel che vorremmo, sempre un passo avanti rispetto ai nostri tentativi di scoperta.

Oppenheimer è un moderno Prometeo, che nel fornire agli uomini il controllo su un'energia primordiale (l'atomo come il fuoco) dà anche loro la chiave per distruggersi. L'uomo vuole decifrare la natura, capirla, imbrigliarla, piegarla ai suoi voleri. Ma questo anelito ha un costo terribile, che spesso sfugge alla comprensione di chi lo persegue, fino a quando la realtà non gli sbatte in faccia la verità - la scena in cui Oppenheimer capisce che l'atomica non porterà alla "fine di tutte le guerre" ricorda da vicino il memorabile dialogo tra Michael Caine e Hugh Jackman in The Prestige, un altro momento in cui il lato oscuro della scienza veniva rivelato in tutto il suo dirompente orrore.

Oppenheimer è un uomo in perenne tensione, in balia di forze uguali e opposte che lo tirano in direzione diverse: scienza e politica, scoperta ed etica, lavoro e famiglia, passione e amore. Tutto, intorno a lui, è funzionale (il che ha portato a comprensibili polemiche circa la scarsa profondità di scrittura di alcuni personaggi, quello di Florence Pugh su tutti) al raggiungimento di un obiettivo che però è sempre cangiante, mutevole, il che fa sì che anche ciò che vuole Oppenheimer sia sempre indefinito, sfuggente, impossibile da comprendere per gli altri e, forse, anche per lui stesso. Nolan esalta la figura del genio solitario ma, al tempo stesso, la demitizza, la priva di ogni sovrastruttura, rendendola carne e calandola in un contesto collettivo, in cui il merito è condiviso ma la responsabilità ricade sulle spalle solo di alcuni. Più che un dramma di genialità, quello di Oppenheimer è un dramma del potere, che porta il protagonista sulla polvere e sull'altare nonostante le sue azioni non siano che il prodotto di un lavoro di gruppo, nel bene e nel male. 


La demitizzazione colpisce anche il progresso scientifico: ciò che eleva Oppenheimer non è solo la sua ricerca della verità e la sua passione per la scoperta, ma è il dubbio, un dubbio generativo che fa sì che, anziché preoccuparsi di difendere la sua eredità, si scagli senza patemi contro il figlio che ha contribuito a partorire una volta che ha compreso il vaso di Pandora che ha scoperchiato. Oppenheimer non è, infatti, solo Prometeo, ma anche Epimeteo, colui che porta il Male (per riprendere una geniale intuizione di David Lynch nell'ultima stagione di Twin Peaks) nel mondo ma, a differenza del suo grande rivale (non diremo chi per evitare spoiler) ha la capacità di riconoscerlo, di mettere la verità davanti al suo orgoglio scientifico, alla sua reputazione, al desiderio di gloria e onori.

Nolan firma una sceneggiatura ad orologeria di cui il montaggio è parte integrante, con dialoghi ad orologeria che si alternano in un crescendo di ritmo che non lascia un attimo di respiro, soprattutto nella prima parte. La fotografia indugia su primi piani di Oppenheimer, come a voler scavare in un animo che invece vuole solo nascondersi dal mondo, esibendo una facciata di volta in volta diversa, ma scarta spesso anche su immagini degli elementi, delle esplosioni, una rappresentazione visiva del sublime che riflette l'orrore e l'attrazione che attanagliano l'anima del protagonista. Il lavoro più clamoroso, però, è quello sul sonoro, elemento che Nolan cura come forse nessun regista in attività: Nolan sceglie il silenzio laddove ci si aspetterebbe rumore, e rumori assordanti laddove ci si aspetterebbe silenzio, creando una continua contraddizione che segue le tribolazioni di Oppenheimer e che si sposa perfettamente alla splendida colonna sonora di Ludwig Göransson.

Tutto il grande lavoro del regista sarebbe sprecato, però, se non fosse sostenuto da un cast di prima grandezza. Cillian Murphy si rivela finalmente al grande pubblico come uno dei più grandi attori in circolazione. La sua prova è un manuale di espressioni trattenute eppure rivelate, il suo sguardo di ghiaccio e il suo viso scavato che rivelano il rovello interiore dell'enigmatica sfinge che interpreta. Intorno a lui brillano un po' tutti, da un Josh Hartnett quasi irriconoscibile a un Kenneth Branagh perfetto nella parte di Bohr, passando per Matt Damon e per chi ha ruoli minoti ma comunque fondamentali, come Rami Malek e Gary Oldman. Robert Downey Jr conferma di essere un attore eccezionale, interpretando alla perfezione un personaggio complesso e centrale come Lewis Strauss. Una nota di merito va però alle due interpreti femminili, Florence Pugh ed Emily Blunt, che riescono a dare spessore e profondità a due personaggi che, come spesso capita a Nolan, sembrano scritti in maniera monodimensionale. Il cambio di intenzioni di Blunt durante la sua testimonianza alla commissione per l'energia atomica, in particolare, è un pezzo di bravura.

Nolan realizza un film complesso, ambizioso, stratificato, che riesce però a intrattenere nonostante una durata mastodontica e un tema non certo leggero. Oppenheimer è grande Cinema: è il lavoro di un grande regista in pieno controllo dei propri mezzi, capace di dosare sapientemente riflessione filosofica e spettacolo, introspezione e ritmo narrativo, realizzando un film che entra nella testa, nel cuore e nelle ossa, e ci pone di fronte a interrogativi vecchi come il mondo, ma che oggi più che mai ci sembrano lontanissimi dall'essere risolti. 

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Pier

lunedì 24 luglio 2023

Barbie

Life of plastic ain't fantastic

Barbie Stereotipo vive a Barbieland, un Eden rosa confetto dove tutto è perfetto e le varie Barbie conducono la vita che desiderano. Improvvisamente, però, Barbie Stereotipo viene assalita da pensieri di morte, e comincia a perdere la sua perfezione: per ritrovarla, dovrà avventurarsi nel nostro mondo, dove troverà una realtà molto diversa da quella che immaginava.

Cosa significa essere donne, e in particolare essere donne oggi? Domanda da un miliardo di dollari, che domina da tempo discorsi in circoli intellettuali e sui social media (con fazioni faziose l'un contro l'altra armate che troppo spesso soffocano le voci di chi ha davvero qualcosa da dire) e, in misura minore (fin troppo minore), quelli della politica. Molte, ma soprattutto molti, dei partecipanti a questo dibattito avrebbero sorriso condiscendenti se un mese fa qualcuno avesse detto loro che una delle risposte più convincenti, per quanto giocoforza non approfondite, a questa domanda sarebbe arrivata da un film mainstream hollywoodiano, uno di quelli progettati per guadagnare soldi. Il sorriso si sarebbe trasformato in risata sguaiata se questo qualcuno avesse detto loro che il film in questione avrebbe avuto per protagonista Barbie, colei che per le fazioni faziose rappresenta o il simbolo di quando le donne "facevano veramente le donne", prima che saltassero loro strani grilli per la testa come, che so, la parità di trattamento; oppure, dall'altra parte, il simbolo del patriarcato turbocapitalista con scappellamento a destra come fosse Soros.

Ambedue le fazioni avrebbero torto. Greta Gerwig realizza un film che qualcuno ha già definito, a ragione, un potenziale cult generazionale: un film divertentissimo, visivamente abbacinante e ipercreativo, e al tempo stesso in grado di parlare di condizione femminile in modo efficace, senza risultare né eccessivamente didascalico, né troppo superficiale. Chiariamoci, il livello di approfondimento avrebbe indubbiamente potuto essere maggiore, ma non in un film del genere, che mira a parlare a un pubblico grande, grandissimo: l'analisi più approfondita spetta a film come Una donna promettente, che hanno un target di pubblico (ed economico) molto più ristretto. Il miracolo di Gerwig sta nel riuscire a parlare comunque di condizione femminile, patriarcato e mascolinità in un film dai colori pastello che ha come protagonista Barbie, sfruttando proprio l'ambiguità culturale della bambola per portare avanti il proprio messaggio.


Barbie è uno di quei film che non si può fare a meno di descrivere con l'abusata parola stratificato: c'è il puro intrattenimento, con alcuni dei momenti più divertenti dell'anno cinematografico, ma c'è anche una metafora biblico-religiosa, un Eden a sessi invertiti in cui il patriarcato si insinua come il biblico serpente, e in cui la presa di coscienza porta all'emancipazione (sarebbe felice Milton); c'è una fantasia con momenti di follia degni dei Looney Tunes, ma c'è anche una riflessione sul riappropriarsi della propria narrativa, con il gioco "sbagliato" che si rivela più giusto di quello "corretto" e predefinito; c'è, come detto, una riflessione sulla femminilità, ma anche una sulla mascolinità fragile, perfettamente incarnata dal Ken di Ryan Gosling, co-protagonista flamboyant che cerca (e spesso riesce, in modo goffo ed esilarante) a rubare lo schermo all'eroina del film; c'è, infine, un film per ragazze che hanno appena dismesso le loro Barbie, e per donne che le hanno dismesse tempo fa, e che ora, forse, le riscoprono con le proprie figlie.

Ci sarebbe ancora tanto da dire sui temi del film, ma mi limiterò a dire che Gerwig ha il grande merito di non fermare la "critica a Barbie" a quella, delle sue impossibili proporzioni fisiche e al conseguente irraggiungibile ideale di perfezione, ma di sviscerare quello che è, forse, un problema ancora più grave creato dalle varie incarnazioni della bambola: quello di aver fatto credere a tantissime bambine di poter essere tutto ciò che volevano (artiste, astronaute, medici), come se tutto fosse a portata di mano: non è un caso che l'atto dirompente di Barbie, quello che mette in moto l'azione e squarcia il velo di Maya è il tentativo di creare Barbie che raccontino la realtà del nostro mondo, una realtà in cui le donne devono combattere contro barriere di ogni genere (esplicite e implicite, esterne e introiettate) per poter trovare un proprio posto nel mondo.

Gerwig, con abilità da equilibrista, riesce a mantenere in equilibrio tutte queste anime, realizzando uno dei prodotti più metatestuali mai visti al cinema (nemmeno Lego Movie aveva toccato queste vette). A volte il gioco le sfugge di mano, è vero, e ci sono alcuni punti in cui la trama è meno scorrevole: le scene con i dirigenti di Mattel, ad esempio, sono abbastanza superflue, e sembrano quasi un excusatio non petita con cui Gerwig cerca di far vedere che attacca anche l'azienda che sta producendo il film - un esercizio non necessario visto ciò che fa nel resto del film. 
La regista, tuttavia, riesce nella difficile impresa di non farsi intrappolare né in un eccessivo world building, né in una furia moralizzatrice che avrebbero azzoppato il film. Barbieland esiste, e basta: la spiegazione di "come funziona" è di quelle che ci aspetteremmo nei film di fiabe o, appunto, in un corto con Road Runner e Will. E. Coyote. Allo stesso modo, l'unico vero "spiegone" del film, un monologo affidato ad America Ferrera, viene declinato in modo geniale, e riesce a essere sia un momento di risveglio (il momento in cui ogni donna scopre di star giocando a un gioco truccato), sia una parodia dei discorsi motivazionali da film sportivo che tanto piacciono al pubblico maschile: se lo avete trovato ridondante o poco realistico, provate a riguardare un monologo come quello di Al Pacino in Ogni Maledetta Domenica e chiedervi chi farebbe un discorso del genere nella vita reale (risposta: nessuno, nella vita reale va più o meno come nel Maledetto United).


Visivamente, Barbie è un trionfo: dalla scenografia alla fotografia, passando per i costumi, raramente si è vista una perfezione di colori, forme e proporzioni (al di fuori di un film di Wes Anderson), che tocca il suo apice in un momento che coinvolge tutti i Ken verso la fine del film. Il comparto musicale non è da meno, tra canzoni in stile musical e musiche di successo che si integrano perfettamente nell'anima pop del film, che con piglio warholiano prende un'icona e la reimmagina con l'occhio dell'artista.
Il cast è semplicemente perfetto: Ryan Gosling domina la scena con un giusto mix di bovina idiozia, plasticosa avvenenza, e pericolosa stolidezza, ma Margot Robbie offre una performance fenomenale, meno appariscente ma tremendamente efficace, fatta di microreazioni e gesti che donano un'anima alla bambola di plastica più stereotipata che ci sia. Accanto a loro da segnalare anche le prove di America Ferrera, vero cuore morale ed emotivo del film, Kate McKinnon, fenomenale Barbie Strana, e Michael Cera, uomo anonimo e, al tempo stesso, molto più profondo dei suoi "amici" Ken.

Barbie è un animale mitologico che credevamo estinto, un blockbuster d'autore che adotta un taglio postmoderno che non tutti riusciranno a digerire. Per molti risulterà ipertrofico, un film che prova a dire troppo senza dire nulla: è una critica legittima, anche se chi scrive non concorda vista la complessità e la stratificazione che Gerwig è stata in grado di creare. A risultare artificiose o, peggio ancora, preconcette sono le critiche di alcuni commentatori (tutti di sesso maschile) che, come ben evidenziato da altre persone più qualificate di me, sembrano sorpresi e addirittura stizziti nel trovarsi davanti un prodotto di cui, udite udite, non sono il target principale. Ricordano, in tal senso, le critiche piombate addosso a Black Panther, accusato di non pensare abbastanza al pubblico bianco, classico target dei film di supereroi.

Barbie è un film scritto pensando alle donne, è vero; ma non è, nonostante quanto possano dire alcuni, un film che odia gli uomini, a meno che lo spettatore non veda come un insulto il fatto che una bambola anonima, accessoria e dal sorriso stolido come Ken venga rappresentato come un personaggio anonimo, stolido, e accessorio. Barbie è, invece, un film che ha tanto, tantissimo da dire anche agli uomini: basta voler ascoltare o, se proprio si vuol fare orecchie da mercante, farsi trascinare da un ottovolante forse un po' troppo lungo, ma coloratissimo e divertentissimo.

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Pier

domenica 23 luglio 2023

Mission: Impossible - Dead Reckoning (Parte 1)

L'inizio della fine



Un nuovo pericolo minaccia il mondo: è l'Entità, un'intelligenza artificiale divenuta senziente che ogni governo vorrebbe controllare. Per farlo servono però due chiavi e, soprattutto, conoscere la location della serratura che aprono. Ethan Hunt e il suo team vengono messi sulle tracce delle chiave, ma dovranno scontrarsi con nuovi amici e nemici, tra ladre internazionali, killer letali, e profeti dell'Entità stessa.

Non sappiamo se davvero Tom Cruise concluderà le sue missioni impossibili con il secondo capitolo di Dead Reckoning. Gli incassi sono ancora alti, e il pubblico non dà alcun segno di essersi stancato di una saga che ha saputo reinventarsi come poche altre. Mission: Impossible si è infatti costruita a poco a poco una mitologia interna che, pur rimasta sotto traccia fino a Ghost Protocol (complici anche i continui cambi di regista) è stata cristallizzata e "ufficializzata" con Rogue Nation, capitolo da cui la regia è finita nelle solide mani di Christopher McQuarrie, che la guida ancora oggi. Ethan Hunt ora ha un passato, sia prima che "nel mezzo" delle sue avventure già conosciute, ed è proprio quel passato il motore di molti degli eventi recenti della saga.

Tuttavia, gli indizi che questo possa essere l'inizio della fine ci sono tutti. Il tono dell'intero film è crepuscolare, tra committenti sempre più senza scrupoli, al punto da diventare quasi indistinguibili dai "cattivi", ad alleati che sembrano al canto del cigno. La sceneggiatura, pur non mancando di momenti di (riuscitissimo) humor, ha un tono più cupo delle precedenti, complice anche un villain tanto invisibile quanto potente, un'intelligenza artificiale che incarna tutti i nostri peggiori incubi, una versione "reale" della Skynet della saga di Terminator. La trama procede con un'inevitabilità da tragedia greca, come se tutto fosse già predefinito, prevedibile, con il braccio destro dell'Entità che prevede destini funesti come un novello Tiresia. Non tutti i passaggi sono riuscitissimi (in particolare il coinvolgimento di White Widow risulta un po' superfluo, per quanto rivedere Vanessa Kirby e il suo personaggio deliziosamente ambiguo faccia sempre piacere), ma il film azzecca in pieno il tono e, come sempre, il ritmo, che non cala mai di intensità nonostante la durata monstre e, appunto, un po' eccessiva.

I nuovi personaggi sono molto ben delineati, dal Gabriel, arcangelo della nuova divinità, interpretato con vena messianica da Esai Morales, alla Paris di Pom Klementieff, letale assassina dalla faccia d'angelo debitrice tanto di James Bond quanto di Quentin Tarantino. A brillare più di tutti è però la Grace di Hayley Atwell, scritta con un taglio da ladra hitchockiana che rende le sue scene riuscitissime e molto divertenti, con un taglio da caper movie che offre un benvenuto contrasto alla tensione dell'anima spionistica del film. Accanto a loro, i "soliti" protagonisti si muovono con l'esperienza di chi ormai indossa gli abiti del suo personaggio come fossero i propri.

McQuarrie si conferma ottimo regista action, con riprese che rimangono sempre sui personaggi, senza movimenti da mal di mare che rendono impossibile capire cosa stia succedendo. Ogni pugno, ogni colpo, ogni fuga rocambolesca sembra reale, e questo è soprattutto merito della sua capacità di costruire l'inquadratura e di preferire un montaggio ampio e avvolgente anziché frenetico e martellante. Ovviamente gran parte dei meriti va anche al cast, Tom Cruise in testa, per la scelta di effettuare i propri stunt, spesso con grande sprezzo per la propria incolumità. Ci sono almeno due pezzi di bravura mozzafiato (qui il dietro le scene del più spettacolare) che lasceranno lo spettatore a bocca aperta, oltre a uno dei car chase più divertenti visti al cinema negli ultimi anni, che non esiterei a definire "Lupiniano". 

La prima parte di Dead Reckoning si conferma all'altezza degli ultimi capitoli della saga, anche se la trama un po' troppo arzigogolata lo pone leggermente alle spalle di Rogue Nation e Fallout. Riesce anche a gestire bene, e non era semplice, il fatto di essere un film giocoforza incompleto, gestendo molto bene l'arco narrativo, senza lasciare una sensazione di incompiutezza ma, al tempo stesso, lasciando lo spettatore con il desiderio di sapere come andrà a finire.

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Pier