Visualizzazione post con etichetta Ryan Gosling. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Ryan Gosling. Mostra tutti i post

domenica 10 marzo 2024

Oscar 2024 - I pronostici

Questa notte, come ogni anno, gli occhi del mondo cinematografico si sposteranno sul Dolby Theatre di Los Angeles per la cerimonia di premiazione della novantaduesima edizione degli Academy Awards. 
Il 2023 è stato un anno di eccellenza dal punto di vista cinematografico: moltissimi film - statunitensi e non - hanno ottenuto un largo consenso di critica, e alcuni (Barbie e Oppenheimer su tutti) hanno conquistato anche il pubblico. Se il trionfo (al botteghino e nella stagione dei premi) di Everything, Everywhere, All at Once aveva suggerito che un altro cinema di intrattenimento - creativo, autoriale, di genere - era possibile, quest'anno lo ha sonoramente confermato (e anche la prossima stagione inizia, in tal senso, sotto i migliori auspici). 

Ma chi sono, dunque, i favoriti? Senza ulteriore indugio passiamo ai pronostici, infallibili come sempre: correte in SNAI, e puntate sull'opposto di quanto scrivo. I film recensiti sono linkati ogni volta che vengono nominati.


Miglior montaggio
La grande favorita sembra Jennifer Lame per Oppenheimer, con Yorgos Mavropsaridis per Povere Creature! possibile sorpresa. Su Lame ricade anche la mia scelta personale
Pronostico: 
Jennifer Lame, Oppenheimer
Scelta personale: Jennifer Lame, Oppenheimer

Miglior fotografia
Sezione molto competitiva, con tutti i cinque nominati che potrebbero a buon diritto aggiudicarsi il premio. Rodrigo Prieto fa un ottimo lavoro con Killers of the Flower Moon, così come Edward Lachman per El Conde (felice che il film di Larrain sia riuscito a entrare, per quanto in sordina, nella competizione) e Matthew Libatique per Maestro. I due contendenti più accreditati sembrano però essere il "solito" Hoyte van Hoytema per Oppenheimer e Robbie Ryan per Povere Creature! . Sul primo ricade il mio pronostico, mentre la mia preferenza personale va alle atmosfere tra il gotico e Wes Anderson create dal secondo.
Pronostico: Hoyte van Hoytema, Oppenheimer
Scelta personale: Robbie Ryan, Povere creature!

Miglior film d'animazione
Altra sezione molto competitiva. Elemental è l'ennesima perla della Pixar, un film solo all'apparenza minore, capace di riprendersi da una partenza stentata al botteghino (complice anche una critica pigra e superficiale) per diventare un successo. Nimona, produzione Netflix, è un gioiellino che dovete assolutamente recuperare. I due contendenti principali sembrano però essere Hayao Miyazaki con il suo film più personale e innovativo, Il Ragazzo e l'Airone, e il secondo capitolo delle avventure dello Spider-Man di Miles Morales, un film che, così come il primo capitolo, ridefinisce le regole di cosa sia l'animazione. Scelta difficilissima, ma il mio pronostico ricade sul maestro giapponese, mentre la scelta personale premia il secondo capitolo dello Spider-Verse.
PronosticoIl ragazzo e l'airone
Scelta personale: Spider-Man - Across the Spider-Verse

Miglior attore non protagonista
La ragione dice Robert Downey Jr, che in Oppenheimer  ricorda a tutti di essere, prima ancora che Iron Man, un attore drammatico di livello eccelso, regalandoci uno dei villain cinematografici più interessanti degli ultimi anni. Su di lui ricade il mio pronostico. Il cuore, però, non può che dire Ryan Gosling, sia perché il suo Ken è uno dei personaggi più esilaranti della stagione, sia come risarcimento per aver quasi del tutto ignorato Barbie, sia perché il momento che più attendo della cerimonia sarà la sua esibizione quando canterà I'm just Ken, nominata per la miglior canzone.
Pronostico: Robert Downey Jr, Oppenheimer
Scelta personale: Ryan Gosling, Barbie


Miglior attrice non protagonista
Qui sembra esserci una favorita molto chiara, Da'Vine Joy Randolph per The Holdovers. Purtroppo non ho ancora avuto occasione di vedere il film, quindi la mia scelta personale ricade su America Ferrera per Barbie.
Pronostico: Da'Vine Joy Randolph, The Holdovers. 
Scelta personale: America Ferrera, Barbie

Miglior sceneggiatura originale
Qui i favoriti sono Justine Triet e Arthur Harari per Anatomia di una Caduta, la grande sorpresa di questa stagione dei premi. Non ho ancora visto il film se non una scena, ma è talmente clamorosa come scrittura che mi basta per dare loro anche la mia preferenza personale.
Pronostico: Justine Triet e Arthur Harari, Anatomia di una Caduta
Scelta personale: Justine Triet e Arthur Harari, Anatomia di una Caduta

Miglior sceneggiatura non originale
Sezione decisamente più competitiva di quella per la sceneggiatura originale. La favorita sembra essere Greta Gerwig (con Noah Baumbach) per Barbie, anche se non si può escludere la vittoria di Cord Jefferson per American Fiction. Su Gerwig ricade anche la mia scelta personale.
Pronostico: Greta Gerwig e Noah Baumbach, Barbie
Scelta personale: Greta Gerwig e Noah Baumbach, Barbie


Miglior attrice protagonista
La sezione in cui è pronto a consumarsi il grande scandalo, con la vittoria quasi certa di Lily Gladstone per Killers of the Flower Moon: ottima prova la sua, ma decisamente non indimenticabile. In patria è spinta dalla solita coda di paglia degli statunitensi nei confronti di popolazioni/etnie contro cui hanno compiuto crimini indicibili, e la cosa è resa ancora più evidente dal fatto che non ha vinto alcun premio tra quelli assegnate da giurie non USA (BAFTA e Golden Globes). Il premio, se esistesse giustizia, dovrebbe andare alla prova ipnotica e irripetibile di Emma Stone in Povere Creature!, o al massimo all'eccellente Carey Mullighan di Maestro- Sulla Stone ricade la mia scelta personale.
Pronostico: Lily Gladstone, Killers of the flower moon
Scelta personale: Emma Stone, Povere creature!

Miglior attore protagonista
By order of the Peaky Blinders, questo premio non può che andare a quell'attore fenomenale (e fonte inesauribile di meme) che è Cillian Murphy, che finalmente sta ottenendo il riconoscimento che si merita. Gli altri candidati possono fare a meno di presentarsi.
Pronostico: Cillian Murphy, Oppenheimer
Scelta personale: Cillian Murphy, Oppenheimer

Miglior regia
Questo è l'anno in cui, finalmente, Christopher Nolan otterrà una statuetta che avrebbe già meritato innumerevoli volte ma che, come tanti altri grandi prima di lui (Kubrick, cui spesso viene paragonato, l'esempio più preclaro), finora non ha mai ottenuto. Su di lui ricadono sia il mio pronostico che la mia scelta personale, considerando che Greta Gerwig, unica regia che mi aveva convinto quanto quella di Nolan, non è nemmeno stata nominata.
Pronostico: Christopher Nolan, Oppenheimer
Scelta personale: Christopher Nolan, Oppenheimer


Miglior film
Per il sottoscritto il discorso non dovrebbe nemmeno aprirsi: Oppenheimer è il miglior film dell'anno, l'apice della carriera di Nolan per capacità di unire ambizione narrativa, impronta autoriale, e appeal commerciale. Chi scrive sarebbe felice anche per un successo di Barbie, ma visto come l'Academy ha snobbato il film un trionfo nella categoria più importante appare improbabile. Fino alla vigilia Oppenheimer appariva favorito, ma sotto traccia si comincia a parlare di una possibile vittoria a sorpresa, che però sarebbe perfettamente in linea con il trend di premiare film che hanno un messaggio sociale: quella de La Zona di Interesse. Su di esso, dunque, ricade il mio pronostico.
Pronostico: La zona di interesse
Scelta personale: Oppenheimer

Che aspettate? Correte in sala scommesse!

Pier

lunedì 24 luglio 2023

Barbie

Life of plastic ain't fantastic

Barbie Stereotipo vive a Barbieland, un Eden rosa confetto dove tutto è perfetto e le varie Barbie conducono la vita che desiderano. Improvvisamente, però, Barbie Stereotipo viene assalita da pensieri di morte, e comincia a perdere la sua perfezione: per ritrovarla, dovrà avventurarsi nel nostro mondo, dove troverà una realtà molto diversa da quella che immaginava.

Cosa significa essere donne, e in particolare essere donne oggi? Domanda da un miliardo di dollari, che domina da tempo discorsi in circoli intellettuali e sui social media (con fazioni faziose l'un contro l'altra armate che troppo spesso soffocano le voci di chi ha davvero qualcosa da dire) e, in misura minore (fin troppo minore), quelli della politica. Molte, ma soprattutto molti, dei partecipanti a questo dibattito avrebbero sorriso condiscendenti se un mese fa qualcuno avesse detto loro che una delle risposte più convincenti, per quanto giocoforza non approfondite, a questa domanda sarebbe arrivata da un film mainstream hollywoodiano, uno di quelli progettati per guadagnare soldi. Il sorriso si sarebbe trasformato in risata sguaiata se questo qualcuno avesse detto loro che il film in questione avrebbe avuto per protagonista Barbie, colei che per le fazioni faziose rappresenta o il simbolo di quando le donne "facevano veramente le donne", prima che saltassero loro strani grilli per la testa come, che so, la parità di trattamento; oppure, dall'altra parte, il simbolo del patriarcato turbocapitalista con scappellamento a destra come fosse Soros.

Ambedue le fazioni avrebbero torto. Greta Gerwig realizza un film che qualcuno ha già definito, a ragione, un potenziale cult generazionale: un film divertentissimo, visivamente abbacinante e ipercreativo, e al tempo stesso in grado di parlare di condizione femminile in modo efficace, senza risultare né eccessivamente didascalico, né troppo superficiale. Chiariamoci, il livello di approfondimento avrebbe indubbiamente potuto essere maggiore, ma non in un film del genere, che mira a parlare a un pubblico grande, grandissimo: l'analisi più approfondita spetta a film come Una donna promettente, che hanno un target di pubblico (ed economico) molto più ristretto. Il miracolo di Gerwig sta nel riuscire a parlare comunque di condizione femminile, patriarcato e mascolinità in un film dai colori pastello che ha come protagonista Barbie, sfruttando proprio l'ambiguità culturale della bambola per portare avanti il proprio messaggio.


Barbie è uno di quei film che non si può fare a meno di descrivere con l'abusata parola stratificato: c'è il puro intrattenimento, con alcuni dei momenti più divertenti dell'anno cinematografico, ma c'è anche una metafora biblico-religiosa, un Eden a sessi invertiti in cui il patriarcato si insinua come il biblico serpente, e in cui la presa di coscienza porta all'emancipazione (sarebbe felice Milton); c'è una fantasia con momenti di follia degni dei Looney Tunes, ma c'è anche una riflessione sul riappropriarsi della propria narrativa, con il gioco "sbagliato" che si rivela più giusto di quello "corretto" e predefinito; c'è, come detto, una riflessione sulla femminilità, ma anche una sulla mascolinità fragile, perfettamente incarnata dal Ken di Ryan Gosling, co-protagonista flamboyant che cerca (e spesso riesce, in modo goffo ed esilarante) a rubare lo schermo all'eroina del film; c'è, infine, un film per ragazze che hanno appena dismesso le loro Barbie, e per donne che le hanno dismesse tempo fa, e che ora, forse, le riscoprono con le proprie figlie.

Ci sarebbe ancora tanto da dire sui temi del film, ma mi limiterò a dire che Gerwig ha il grande merito di non fermare la "critica a Barbie" a quella, delle sue impossibili proporzioni fisiche e al conseguente irraggiungibile ideale di perfezione, ma di sviscerare quello che è, forse, un problema ancora più grave creato dalle varie incarnazioni della bambola: quello di aver fatto credere a tantissime bambine di poter essere tutto ciò che volevano (artiste, astronaute, medici), come se tutto fosse a portata di mano: non è un caso che l'atto dirompente di Barbie, quello che mette in moto l'azione e squarcia il velo di Maya è il tentativo di creare Barbie che raccontino la realtà del nostro mondo, una realtà in cui le donne devono combattere contro barriere di ogni genere (esplicite e implicite, esterne e introiettate) per poter trovare un proprio posto nel mondo.

Gerwig, con abilità da equilibrista, riesce a mantenere in equilibrio tutte queste anime, realizzando uno dei prodotti più metatestuali mai visti al cinema (nemmeno Lego Movie aveva toccato queste vette). A volte il gioco le sfugge di mano, è vero, e ci sono alcuni punti in cui la trama è meno scorrevole: le scene con i dirigenti di Mattel, ad esempio, sono abbastanza superflue, e sembrano quasi un excusatio non petita con cui Gerwig cerca di far vedere che attacca anche l'azienda che sta producendo il film - un esercizio non necessario visto ciò che fa nel resto del film. 
La regista, tuttavia, riesce nella difficile impresa di non farsi intrappolare né in un eccessivo world building, né in una furia moralizzatrice che avrebbero azzoppato il film. Barbieland esiste, e basta: la spiegazione di "come funziona" è di quelle che ci aspetteremmo nei film di fiabe o, appunto, in un corto con Road Runner e Will. E. Coyote. Allo stesso modo, l'unico vero "spiegone" del film, un monologo affidato ad America Ferrera, viene declinato in modo geniale, e riesce a essere sia un momento di risveglio (il momento in cui ogni donna scopre di star giocando a un gioco truccato), sia una parodia dei discorsi motivazionali da film sportivo che tanto piacciono al pubblico maschile: se lo avete trovato ridondante o poco realistico, provate a riguardare un monologo come quello di Al Pacino in Ogni Maledetta Domenica e chiedervi chi farebbe un discorso del genere nella vita reale (risposta: nessuno, nella vita reale va più o meno come nel Maledetto United).


Visivamente, Barbie è un trionfo: dalla scenografia alla fotografia, passando per i costumi, raramente si è vista una perfezione di colori, forme e proporzioni (al di fuori di un film di Wes Anderson), che tocca il suo apice in un momento che coinvolge tutti i Ken verso la fine del film. Il comparto musicale non è da meno, tra canzoni in stile musical e musiche di successo che si integrano perfettamente nell'anima pop del film, che con piglio warholiano prende un'icona e la reimmagina con l'occhio dell'artista.
Il cast è semplicemente perfetto: Ryan Gosling domina la scena con un giusto mix di bovina idiozia, plasticosa avvenenza, e pericolosa stolidezza, ma Margot Robbie offre una performance fenomenale, meno appariscente ma tremendamente efficace, fatta di microreazioni e gesti che donano un'anima alla bambola di plastica più stereotipata che ci sia. Accanto a loro da segnalare anche le prove di America Ferrera, vero cuore morale ed emotivo del film, Kate McKinnon, fenomenale Barbie Strana, e Michael Cera, uomo anonimo e, al tempo stesso, molto più profondo dei suoi "amici" Ken.

Barbie è un animale mitologico che credevamo estinto, un blockbuster d'autore che adotta un taglio postmoderno che non tutti riusciranno a digerire. Per molti risulterà ipertrofico, un film che prova a dire troppo senza dire nulla: è una critica legittima, anche se chi scrive non concorda vista la complessità e la stratificazione che Gerwig è stata in grado di creare. A risultare artificiose o, peggio ancora, preconcette sono le critiche di alcuni commentatori (tutti di sesso maschile) che, come ben evidenziato da altre persone più qualificate di me, sembrano sorpresi e addirittura stizziti nel trovarsi davanti un prodotto di cui, udite udite, non sono il target principale. Ricordano, in tal senso, le critiche piombate addosso a Black Panther, accusato di non pensare abbastanza al pubblico bianco, classico target dei film di supereroi.

Barbie è un film scritto pensando alle donne, è vero; ma non è, nonostante quanto possano dire alcuni, un film che odia gli uomini, a meno che lo spettatore non veda come un insulto il fatto che una bambola anonima, accessoria e dal sorriso stolido come Ken venga rappresentato come un personaggio anonimo, stolido, e accessorio. Barbie è, invece, un film che ha tanto, tantissimo da dire anche agli uomini: basta voler ascoltare o, se proprio si vuol fare orecchie da mercante, farsi trascinare da un ottovolante forse un po' troppo lungo, ma coloratissimo e divertentissimo.

****

Pier

sabato 25 aprile 2020

Nuovo Cinema Paravirus - Puntata 43

Nuova puntata di Nuovo Cinema Paravirus, la rubrica che vi suggerisce film da vedere in quarantena.


Il genere di oggi sono i film di motori.

I film segnalati sono:

1) Duel (disponibile su Sky). Il primo capolavoro di Steven Spielberg, la folle corsa di un uomo che deve sfuggire a un camion guidato da un autista senza volto, simbolo di un destino cieco che travolge chi non è preparato a combatterlo.

2) Drive (disponibile su ). Una storia scarna, essenziale, sorretta e magnificata da una regia forte, visionaria, capace di accostare con sapienza dolcezza e violenza, scene pulp e momenti introspettivi, dialoghi intimistici e scene d'azione di altissimo livello. Qui la recensione completa.

3) Cars (disponibile su Disney+). Non uno dei film migliori della Pixar, ma comunque dotato di una forte anima, un inno alla semplicità che usa il viaggio on the road come metafora del viaggio interiore, un tema che verrà dimenticato nel deludente secondo capitolo per poi venire recuperato con successo con il terzo film della trilogia.

A domani per la quarantaquattresima puntata!

Pier


sabato 8 settembre 2018

Venezia 2018 - Il Totoleone

E anche quest'anno siamo arrivati alla fine della Mostra del Cinema. Le maschere festeggiano, i chioschi sbaraccano, e i giornalisti si preparano per il gran finale, prima di lasciare il Lido per altri lidi.

È stata una Mostra molto interessante, in cui quasi tutti i film hanno messo d'accordo sia il pubblico che la critica, e in cui i picchi negativi sono stati ancora più ridotti che nello scorso anno.

Di seguito i pronostici, quasi sicuramente sbagliati, per il Leone d'Oro e gli altri premi, corredati come sempre dalle mie preferenze personali.


Premio Mastroianni per il miglior attore emergente
Competizione molto accesa quest'anno, con molti film che hanno lanciato giovani attori molto promettenti. Le favorite sembrano essere Raffey Cassidy, che in Vox Lux interpreta la giovane popstar Celeste, e l'italoirlandese Aisling Franciosi, già vista brevemente in Game of Thrones, protagonista indiscussa del potente revenge movie The Nightingale. Più staccate gli altri possibili candidati, anche se Yalitza Aparicio, attrice non professionista protagonista di ROMA, ha conquistato molti cuori. Penso che alla fine si imporrà la Franciosi, autrice di una performance davvero potente, cui va anche la mia preferenza personale.
Pronostico: Aisling Franciosi, The Nightingale
Scelta personale: Aisling Franciosi, The Nightingale

Coppa Volpi maschile
Sfida accesissima, con i protagonisti di Sisters Brothers che sarebbero i favoriti se non fosse per le voci di corridoio, che danno la Biennale restia ad autorizzare una nuova Coppa Volpi di coppia dopo quella concessa per The Master, peraltro proprio a Joaquin Phoenix. Risalgono quindi le quotazioni di altri attori, e in particolare di Ryan Gosling (First Man) e Willem Defoe (At Eternity's Gate). Punto su Gosling per il pronostico, mentre la mia preferenza personale, in barba alle voci di corridoio, va ai protagonisti di Sisters Brothers.
Pronostico: Ryan Gosling, First Man
Scelta personale: Joaquin Phoenix e John C. Reilly, The Sisters Brothers

Coppa Volpi femminile
Come lo scorso anno, la sfida è agguerritissima, con le protagoniste di The Favourite  tutte papabili vincitrici, con Olivia Colman favorita tra di loro sia per la precedente vittoria di Emma Stone (con La La Land), sia perché la sua parte è quella centrale allo splendido film di Lanthimos. Aisling Franciosi rischia di essere penalizzata dalla giovane età, e Natalie Portman (Vox Lux) dalle stesse ragioni che penalizzano la Stone. Tra le possibili sorprese Yalitza Aparicio (ROMA), che però sarebbe una scelta davvero azzardata, e la Tilda Swinton di Suspira, dove interpreta tre parti, compresa quella di un uomo.
Per il pronostico dico Colman, mentre la mia preferenza personale va a tutto il cast di The Favourite.
Pronostico: Olivia Colman, The Favourite
Scelta personale: Olivia Colman, Rachel Weisz, ed Emma Stone, The Favourite

Osella per la miglior sceneggiatura
Qui il favorito sembra essere Doubles Vies di Assayas, fatto di una serie di dialoghi davvero travolgenti per profondità e ritmo. La mia preferenza personale va però a Deborah Davis e Tony McNamara, autori di The Favourite.
Pronostico: Doubles Vies
Scelta personale: The Favourite

Gran Premio della Giuria
Vox Lux, che pure sarebbe un buon candidato, pare non essere piaciuto alla giuria presieduta da Guillermo del Toro. Ecco quindi emergere con prepotenza la candidatura di Opera senza autore, film dell'autore de Le vite degli altri, Florian Henckel von Donnersmarck, che è piaciuto moltissimo al pubblico. von Donnersmarck si aggiudica quindi il mio pronostico, mentre il mio voto personale va a Vox Lux, opera seconda imperfetta ma di grande potenza e ambizione di Brady Corbet.
Pronostico: Opera senza autore
Scelta personale: Vox Lux

Leone d'Argento (Miglior Regia)
Se Del Toro non fosse presidente di giuria, ROMA sarebbe forse il favorito per la vittoria finale. Possibile però che la Biennale consigli a Del Toro di assegnare al film dell'amico Cuarón un premio minore, memore delle polemiche del 2010 quando Quentin Tarantino assegnò il Leone al men che mediocre Somewhere di Sofia Coppola, sua ex fidanzata. Ecco quindi perché Cuarón potrebbe essere il favorito per la corsa alla miglior regia. Il mio voto personale va a Yorgos Lanthimos, sia per aver realizzato il miglior film in costume dai tempi di Barry Lyndon, sia per aver dimostrato di saper girare un film profondamente diverso da quelli che lo hanno consacrato.
Pronostico:  Alfonso Cuarón, ROMA
Scelta personale: Yorgos Lanthimos, The Favourite

Leone d'Oro
Sfida davvero accesa, senza un chiaro favorito, e pronostico quindi davvero difficile. Suspiria potrebbe essere una possibile sorpresa, così come What you are going to do when the world is on fire? di Minervini. Il mio pronostico ricade però su The Sisters Brothers di Jacques Audiard, film di genere ma anche storia universale che ha il potenziale per piacere a una giuria variegata come quella di quest'anno. La mia scelta personale va invece a un film che non è quello che mi è piaciuto di più, ma quello cui mi sono ritrovato a pensare più spesso dopo la proiezione, ovvero Zan di Tsukamoto: un film che racconta la fine di un'epoca e di un sistema di valori attraverso una storia solo all'apparenza semplice, ma in realtà dotata di molteplici livelli di lettura e di una raffinatezza narrativa di altissimo livello; un film, in sintesi, che coniuga forse meglio di altri la dimensione artistica e quella commerciale del cinema, e che quindi potrebbe essere apprezzato dalla giuria.
Pronostico: The Sisters Brothers
Scelta personale: Zan (Killing)

È tutto per quest'anno, ci risentiamo per l'edizione 2019.

Pier

venerdì 31 agosto 2018

Telegrammi da Venezia 2018 - #1

Come ogni anno, Film Ora è a Venezia, e vi accompagnerà per tutta la Mostra del Cinema con i suoi telegrammi, recensioni brevi dei film visti nelle varie sezioni.


First Man - Il primo uomo (Concorso), voto 7.5. Dopo un capolavoro come La La Land, Chazelle torna con un film più tradizionale, ma comunque efficace ed emozionante. Chazelle racconta il primo allunaggio ricostruendo fedelmente le esperienze provate dai protagonisti, e facendo sentire lo spettatore parte di ogni volo, ogni test. La fragilità e artigianalità di materiali e tecnologia si percepisce a ogni inquadratura, aiutandoci a comprendere la straordinarietà dell'impresa. Chazelle riprende con mano sicura, regalando anche alcune sequenze (tra tutte quella d'apertura) davvero indimenticabili.

The Mountain (Concorso), voto 3. La storia di un neurologo esperto di lobotomia e del suo apprendista era potenzialmente interessante, ma viene raccontata in modo noioso e pedissequo, con un ritmo praticamente assente e un'afasia che si fa noia mortale dopo pochi minuti, favorita anche dall'espressione frigoriferesca di Tye Sheridan. Jeff Goldblum e una fotografia splendida risollevano il film dal marchio dell'infamia sempiterna, ma il risultato è comunque pessimo.

ROMA (Concorso), voto 6.5. Un racconto intimista ispirato all'infanzia del regista Alfonso Cuaròn, con immagini struggenti ma una storia inspiegabilmente fredda. Qui la recensione estesa fatta per Nonsolocinema.

La favorita (Concorso), voto 8.5. Yorgos Lanthimos, autore di The Lobster, racconta la storia del rapporto tra la regina Anna Stuart e le sue due favorite con un taglio tra il grottesco e il tragico. Il risultato è un film esilarante che però stimola anche profonde riflessioni sul tema del potere e dell'autorità. Fotografia sontuosa, che fa de La favorita forse il miglior film in costume a livello visivo dai tempi di Barry Lyndon, e interpreti strepitose, su tutte Olivia Colman.

The other side of the wind (Fuori concorso), voto 9. Il film perduto di Orson Welles, girato per intero negli anni Settanta ma mai completato dal regista, viene restituito al mondo grazie al finanziamento di Netflix. Il film, dai forti risvolti autobiografici, merita certamente l'appellativo di testamento artistico di Welles: una riflessione sull'arte del cinema e sull'identità personale e artistica, un gioco di incastri solo apparentemente sconnesso in cui il talento del regista si esprime in totale libertà. Il risultato è un film di una creatività dirompente, il più innovativo visto finora alla Mostra, il che la dice lunga sulla visionarietà di Welles, che in un film degli anni Settanta anticipa istanze visive e narrative poi portate avanti da maestri come Lynch e Kubrick.

Sulla mia pelle (Orizzonte), voto 7.5. Il film racconta il caso di Stefano Cucchi con piglio cronachistico, cercando di attenersi il più possibile agli atti processuali e lasciando che siano le immagini a parlare. Il risultato è un film potente, un atto di denuncia fortissimo che arriva dritto allo stomaco anche grazie alla fenomenale interpretazione di Alessandro Borghi: se Sulla mia pelle fosse una produzione americana staremmo già parlando di nomination all'Oscar.

L'EnKas (Orizzonti), voto 6. Solido e coinvolgente film francese che racconta il tentativo disperato di due emarginati di guadagnare qualche soldo: vendere ketamina a un rave. Nulla va come previsto, ma l'esperienza aiuterà i due protagonisti a fare i conti con se stessi, le proprie famiglie, e il proprio passato.

Pier

venerdì 13 ottobre 2017

Blade Runner 2049

Tornare indietro, andare oltre



2049, Los Angeles: in una terra sovrappopolata, le industrie Wallace hanno ripreso il programma delle defunte industrie Tyrell, creando nuovi replicanti per eseguire lavori troppo pesanti per l'uomo. A differenza dei propri predecessori, tuttavia, i nuovi replicanti sono in tutto e per tutto obbedienti. Uno di questi, l'agente K, lavora per la polizia di Los Angeles, ed è un blade runner: il suo compito è di trovare i replicanti di vecchia generazione ed eliminarli. Durante le sue indagini, tuttavia, scopre un segreto che ha il potenziale di distruggere il fragile equilibrio che mantiene in pace la razza umana.

Blade Runner è una delle pietre miliari del cinema di fantascienza, e in generale della cinematografia moderna. Ha segnato in modo indelebile l'immaginario narrativo, filosofico e visivo grazie a una perfetta commistione tra fotografia, musica, scenografia e sceneggiatura, tra inquadrature indimenticabili e monologhi profondi e memorabili
Realizzare il seguito di un film del genere sembrava un'impresa impossibile, e non solo per le immense aspettative: Ridley Scott aveva creato dal nulla un intero mondo, prendendo le mosse da un racconto di Dick e portandolo alla vita con una vividezza e una profondità mai viste prima. Non si trattava, insomma, solo di essere in grado di riprendere le redini di questo mondo, ma di creare un'opera che fosse in grado di cambiare la conversazione sul cinema di fantascienza come aveva fatto l'originale.

Denis Villeneuve - che merita un applauso solo per il coraggio dimostrato nel farsi carico di un tale fardello - ci è riuscito, almeno in parte. A livello visivo, il film si rivela addirittura superiore all'illustre predecessore, e non solo grazie alle maggiori risorse a disposizione: queste potrebbero spiegare le straordinare sequenze che estendono il mondo creato da Scott, aggiungendo nuovi capitoli, nuovi spazi alla mitologia di un futuro distante ma non troppo, distopico e allo stesso momento realistico. 

Lo fa soprattutto grazie allo straordinario lavoro fatto da Roger Deakins, il direttore della fotografia, che assorbe la lezione dell'originale, la fa sua, e la rielabora in modo completamente nuovo. Blade Runner dava il suo meglio negli esterni, nelle ambientazioni grigie e crepuscolari di una Los Angeles decadente. Deakins riesce a ricreare alla perfezioni quei momenti, aggiungendovi però nuove ambientazioni che si discostano del tutto dalla scala cromatica e visiva del film precedente: come esempio bastino le scene ambientate in una Las Vegas in tinte arancio viste e riviste nei vari trailer.  semplicemente eccezionali, e che tuttavia non costituiscono l'apice del film. 


Deakins dà il suo meglio negli interni, creando interi microcosmi con giochi di luce e di colore che sfruttano alla perfezione i meravigliosi design di Dennis Gassner, segnando una decisa innovazione rispetto al mondo quasi esclusivamente "esterno" di Scott, e dando vita ad alcune sequenze davvero abbacinanti, in cui l'abbondanza di dettagli non sacrifica la nitidezza della composizione. 

Ci sono più idee in un frame di Blade Runner 2049 di quante se ne trovino in molti blockbuster hollywoodiani. Giochi di luce e ombre, immagini desaturate, colori caldi che contrastano con la freddezza di ambienti e azioni, edifici morenti ed edifici monumentali: tutto si compenetra alla perfezione per creare una maestosa opera visiva. Il risultato è un mondo che è quello di Scott ma è anche altro, è oltre; è futuro, ma è anche presente e passato; è, insomma, grande cinema, che assorbe completamente occhi, cuore e mente, con immagini e suono che creano un'atmosfera aliena eppure sinistramente familiare. Il lavoro sul sonoro supporta quello visivo, grazie anche a una colonna sonora che, pur non all'altezza di quella di Vangelis (a parere di chi scrive una delle migliori della storia del cinema), contribuisce a creare quel vortice di sensazioni in cui il film ci trascina fin dal primo minuto.


Sul piano narrativo, invece, il film rimane lontano la profondità del suo illustre predecessore, limitandosi a narrare una storia avvincente ma incapace di toccare nel profondo le corde intellettuali ed emotive dello spettatore. Questo non è necessariamente un difetto, ma lo diventa nel momento in cui vengono lasciate cadere alcune tematiche che avrebbero potuto portare l'afflato del film ai livelli dell'originale: dalla sovrapposizione tra reale e virtuale al significato stesso di vita e creazione (valga per tutte la splendida sequenza della "nascita" della replicante), Blade Runner 2049 aveva il potenziale per diventare un film universale, in cui la storia narrata trascende il proprio contenuto narrativo per diventare metafora di qualcosa di più grande. Rimane il rammarico che non si sia seguita questa strada, soprattutto perché si ha la sensazione che ciò non sia accaduto per il desiderio di "pagare i propri debiti" con il passato: alcuni momenti sono infatti puri omaggi che poco aggiungono al film, e viene persino il dubbio quasi sacrilego che, forse, la presenza di Deckard non fosse così fondamentale. A questo si aggiungono alcuni personaggi decisamente poco interessanti, che forse sarebbe stato meglio tagliare per lasciare più spazio a questioni e vicende di maggior interesse e potenziale.

Gli attori sono stati scelti e diretti alla perfezione, con l'eccezione di Jared Leto, che riesce a rendere noioso un personaggio potenzialmente interessantissimo come Wallace. Gosling sembra nato per la parte, e la sua inespressività ben si adatta al carattere di K, replicante obbediente che si trova schiacciato tra forze più grandi di lui; Ford riprende bene il suo personaggio, donandogli quel carisma che lo aveva consacrato come uno degli antieroi più interessanti mai visti al cinema. Infine, il cast femminile è azzeccato e offre un'ottima prova: tra tutte si distingue Ana de Armas, perfetta nella parte dell'iperrealistica compagna virtuale Joi.

A controllare tutto con la sapienza di un consumato direttore d'orchestra c'è Dennis Villeneuve, che con questo film si consacra definitivamente come uno dei grandi autori di Hollywood. La sua mano è evidente in ogni scelta, su tutte quella di limitare al minimo l'uso della computer grafica per garantire quel decadente realismo che è fondamentale per la riuscita di un film del genere. Ogni elemento si integra alla perfezione con l'altro, e Villeneuve crea così un meccanismo quasi perfetto che trasporta lo spettatore come solo i grandi film sanno fare.

Blade Runner 2049 era un film quasi impossibile da realizzare in maniera soddisfacente. Villeneuve non solo ci riesce, ma va anche oltre, dirigendo un'opera destinata a divenire a sua volta iconica per la potenza visiva di alcune sequenze. La narrazione non assurge mai alle vette del primo, ma è un difetto perdonabile per un film che comunque appassiona, assorbe e intrattiene per quasi tre ore senza annoiare mai, lasciando spesso a bocca aperta per la perfezione delle scene, anche quelle all'apparenza più semplici. Non perdetelo.

****

Pier

martedì 24 gennaio 2017

La La Land

L'arte della realtà



Los Angeles, oggi: Mia sogna di fare l'attrice, ma tra un provino e l'altro fa la barista per mantenersi; Sebastian è un musicista, fervido sostenitore del jazz classico, che vorrebbe aprire il suo locale ma è costretto a suonare in cover band anni '80 e nei piano bar. Il loro incontro-scontro darà loro la forza per inseguire i propri sogni, in una realtà che sembra non aver più posto per i sognatori.

Ci sono film che commuovono, divertono, fanno riflettere; ci sono film che stupiscono per la bellezza delle immagini, per la perfezione tecnica di ogni dettaglio, per una visione d'insieme che si merita l'appellativo, spesso usato a sproposito, di Regia. Ci sono poi film che riescono a combinare ambedue le cose, e che sono destinati a rimanere nella storia del cinema: questi sono i capolavori. La La Land, signori e signori, è un capolavoro, un film destinato a restare, a segnare l'immaginario di un genere (il musical) e della cinematografia esattamente come fece Cantando sotto la pioggia più di 60 anni fa, raccontando la transizione dal muto al sonoro.
Damien Chazelle, reduce dal successo di Whiplash, racconta il tramonto di un genere, di un modo di fare cinema, di un mondo. Racconta la fine della fabbrica di cui sono fatti i sogni, del cinema come lo abbiamo inteso fino a oggi, incapace di sopravvivere in un mondo in cui i sogni non hanno cittadinanza, e lo fa utilizzando il genere che ha fatto del sogno a occhi aperti il suo marchio di fabbrica, il musical romantico, e attraverso la cronaca di una storia d'amore che, ambizioni artistiche a parte, sembra riflettere nella sua evoluzione realistica e cinematograficamente atipica quella di uno dei capolavori di Woody Allen, Io e Annie. 

Il film si apre con una sequenza mozzafiato, un numero musicale ripreso interamente in piano sequenza sull'autostrada di Los Angeles, con centinaia di comparse che ballano, cantano e fanno acrobazie come nei musical dell'età dorata di Hollywood, accompagnati dalla prima geniale canzone del film (di cui Jimmy Fallon ha fatto una bella parodia per aprire i Golden Globes), Another day of sun, che unisce i suoni della città a una partitura vivace e accattivante. Già questa sequenza basterebbe per annichilire qualunque film visto quest'anno, ma è nello sviluppo che il film trova la sua forza. Chazelle crea una prima metà "sognante", in cui i protagonisti sembrano vivere in una favola, tra tip tap nelle strade e balli sospesi nel cielo stellato, ma mantiene comunque un elemento stonato che li ancora alla realtà: il tip tap non è perfetto, perché i due personaggi non sono ballerini; il canto è ottimo, ma "realistico", senza picchi di virtuosismo fino alla splendida audizione di Mia nel finale (su cui torneremo). A questa prima metà ne segue una in cui la realtà prende prepotentemente il sopravvento, quasi con violenza, strappando personaggi e spettatore dall'atmosfera onirica in cui erano immersi: i numeri musicali scompaiono, i colori si fanno più cupi, i compromessi più accettabili, i sogni divengono illusioni.

E' in questa parte che emerge maggiormente la grande bravura degli attori protagonisti. Ryan Gosling è un Sebastian quasi odioso nella sua rigidità e nella sua incapacità di evoluzione, eppure talmente "romantico" da farci comunque parteggiare per lui; Emma Stone dona al suo personaggio un mix di grazia, comicità e malinconia che rendono Mia una versione moderna dei comici del muto, da Chaplin (soprattutto) a Buster Keaton. La splendida prova della Stone ha il suo culmine nella già menzionata audizione, in cui Mia si esibisce in The fools who dream, struggente lettera d'amore a un tempo-un cinema-che non c'è più, e primo numero musicale della seconda metà. Detto degli attori e della magistrale regia di Chazelle, non si può non lodare tutto il comparto tecnico del film, capitanato da Linus Sandgren, direttore della splendida fotografia in Technicolor, e soprattutto da Justin Hurwitz, autore di una colonna sonora semplicemente clamorosa per eclettismo e abilità nel mischiare musical, jazz, suoni naturali, e altre suggestioni musicali, con alcune canzoni (City of Stars su tutte) che rimangono per molti giorni in testa allo spettatore.  La presenza del jazz (grande passione del regista) definisce l'atmosfera del film. La parabola di un genere intrappolato in un classicismo che è ormai sorpassato, e che è destinato a scomparire se non riesce a rinnovarsi, diventa quella del cinema "classico" di cui la prima metà del film è degna rappresentante.

Arriva infine l'ultima, abbacinante sequenza musicale, in montaggio che metterà a dura prova anche il più arido degli spettatori, in cui cinema e metacinema si intrecciano: Chazelle non racconta solo il "cosa sarebbe successo se...", le strade non prese dei due protagonisti, ma anche il "film non fatto", la storia che avrebbe dovuto raccontare il film se fosse stato davvero solo un omaggio al musical classico di Hollywood (qui trovate un'analisi più dettagliata di questo punto). Questa sequenza è un perfetto riassunto del perché La La Land è un capolavoro: il film offre infatti molteplici piani di lettura, con una storia malinconica in grado di divertire ed emozionare tutti gli spettatori, e una riflessione sul cinema e una perizia tecnica in grado di mandare in brodo di giuggiole i cinefili.

La La Land non è solo il miglior film da un anno a questa parte ma, a parere di chi scrive, uno dei migliori degli ultimi dieci, ed è destinato a entrare nella storia del cinema dalla porta principale. Non perdetelo.

*****

Pier

sabato 3 settembre 2016

Telegrammi da Venezia 2016 - #1

Come ogni anno, Film Ora è a Venezia per seguire il festival.
Cominciamo con le recensioni dei film visti nei primi due giorni:



La La Land (Concorso), voto 9. Non è più tempo di musical, o forse sì: dopo il successo di Whiplash, Damien Chazelle realizza un musical solo apparentemente classico, che in realtà usa in modo geniale il genere per esplorare il rapporto tra verità e finzione, tra realtà e sogno. Sequenza d'apertura da Oscar istantaneo.

Les Beaux Jours d'Aranjeuz (Concorso), voto 3. Wim Wenders torna alla Mostra con un film insulso, un non-film, sicuramente l'opera peggiore della sua cinematografia. Qui la recensione estesa fatta per Nonsolocinema.

The Light Between Oceans (Concorso), voto 5.Premessa: questo film è un melò, e chi scrive detesta i melò. Tuttavia, il film non brilla per originalità visiva né narrativa, e manca di ritmo. Riesce però, a tratti, a emozionare, grazie soprattutto alle ottime prove di Fassbender e della Vikander.

Arrival (Concorso), voto 8. Decenni dopo Incontri ravvicinati del terzo tipo, finalmente un film di fantascienza torna a occuparsi del potere del linguaggio, dell'incontro-scontro con una civiltà aliena, anziché solo dello scontro. Villeneuve dirige con piglio autoriale un'opera dal buon potenziale commerciale, realizzando un film che intrattiene e fa riflettere.

El Cristo Ciego (Concorso), voto 6.5.Interessante opera prima del cileno Christopher Murray, il film esplora il ruolo della fede nel mondo di oggi, quello della morte di Dio e della crisi dei valori. Il viaggio di un ragazzo attraverso il deserto diventa catartico per lui e per altri, grazie non alla forza dei miracoli ma a quella delle parole. Il ritmo non è elevato, ma il film stimola alla riflessione.

Nocturnal Animals (Concorso), voto 7.5. Tom Ford ritorna al Lido dopo il suo film d'esordio, A single man, e lo fa con un thriller che si apre con una sequenza lynchiana per poi scivolare in atmosfere hitchcockiane, in cui il rapporto tra vicenda reale e vicenda romanzesca si compenetrano e sembrano quasi influenzarsi a vicenda. Meno stimolante a livello visivo del film d'esordio, ma con una solidità narrativa e una capacità di suspense sorprendenti.

King of the Belgians (Orizzonti), voto 7. Creativo mockumentary che racconta con toni comici e grotteschi l'immaginario tentativo del re del Belgio di tornare al suo paese sull'orlo di una secessione. Impossibilitato a lasciare la Turchia in aereo per via dell'eruzione di un vulcano islandese, il re affronterà un'odissea attraverso i Balcani, usando i mezzi più improbabili nel tentativo di tornare a casa.

Pier

venerdì 8 gennaio 2016

La grande scommessa

The Big Blindness



And oftentimes, to win us to our harm, 
The instruments of darkness tell us truths, 
Win us with honest trifles, to betray ’s 
In deepest consequence. 
William Shakespeare, Macbeth, Atto I, Scena 3

Gli strumenti dell'oscurità guadagnano la nostra fiducia su questioni marginali, ma ci tradiscono in quelle importanti: ciò che scriveva Shakespeare quasi 500 anni fa sembra la perfetta descrizione della trama de La grande scommessa. Siamo nel 2005, e il mercato immobiliare statunitense sembra solido e destinato a crescere. Sembra, appunto: andando a indagare sui CDO (Collaterized Debt Obligation) del mercato immobiliare, il genio dei numeri Michael Burry scoprì che erano pieni di mutui di basso valore, e che il sistema si poggiava su fondamenta di fango. Decise quindi di scommettere contro il mercato immobiliare, attirandosi lo scherno e l'ilarità delle banche che accettarono di assicurarlo contro il suo fallimento. Fu imitato da un ristretto numero di investitori, anch'essi derisi dal sistema. Tre anni dopo, i fatti diedero loro ragione, con il crollo del mercato immobiliare e la crisi dei subprime.

I titoli derivati sono qui gli strumenti dell'oscurità, di quel capitalismo finanziario che è diventato fine a se stesso, del tutto scollegato dai processi produttivi. Gli strumenti illudono che una ricchezza facile sia possibile, salvo poi risultare fallimentari e far perdere soldi, casa, tutto. La grande scommessa analizza questo tema, sviscerato da numerosi film negli ultimi anni, ma lo fa con uno sguardo completamente nuovo, assumendo la prospettiva di chi aveva previsto la crisi, rimanendo però inascoltato dal sistema. 
Il film affronta una materia ricca di tecnicismi e concetti complessi con un taglio registico decisamente innovativo, coniugando genialmente divulgazione e narrativa attraverso una continua sovrapposizione tra narrazione e realtà, rottura della quarta parete e momenti di spiegazione affidati a personaggi pop e costruiti in maniera decisamente sorprendente, chiara, ed esilarante. 

La grande scommessa è una commedia nera, un horror finanziario che diverte e angoscia allo stesso tempo. Adam McKay realizza una macchina perfetta, in cui parole, suoni e immagini si alternano in maniera non convenzionale, a volte quasi disturbante, ma senza perdere di vista la coesione e la solidità narrativa. La sceneggiatura è un orologio, con personaggi ben tratteggiati e una trama scorrevole, ed è sorretta da prove d'attore eccezionali di Christian Bale (il migliore per distacco), Steve Carell e Ryan Gosling, protagonisti agli antipodi e complementari, guidati da obiettivi e storie personali completamente differenti, ma uniti nella loro capacità di vedere ciò a cui tutto il mondo sembrava essere cieco.

La grande scommessa è uno dei film più interessanti e innovativi degli ultimi anni per regia, sceneggiatura e montaggio, un piccolo capolavoro che tiene incollati alla sedia a dispetto dell'osticità dell'argomento trattato. Non perdetelo.

**** 1/2

Pier


venerdì 7 giugno 2013

Solo Dio perdona

L'eleganza dello scorpione e l'eccesso della katana



Julian e il fratello gestiscono una palestra di thai boxe a Bangkok. In realtà l'attività è una copertura per il traffico di droga, coordinato dagli USA dalla madre dei due. Quando il fratello violenta e uccide una ragazza, il padre di lei si vendica, assassinandolo. Julian decide di perdonarlo, ma a cambiare i suoi piani arriva la madre, sconvolta ma determinata a vendicarsi.

Sovraccarico. Questo l'aggettivo che meglio definisce il nuovo film di Nicolas Winding Refn, un regista che in passato non ci aveva certo abituato a film giocati in punta di fioretto. Tuttavia, la logica narrativa della violenza che sosteneva Pusher,Valhalla Rising e Bronson, e che aveva raggiunto il suo momento di massimo splendore e completamento in Drive, diventa qui un puro esercizio di stile, costruito attorno a una trama inesistente e a una serie di avvenimenti e personaggi pretestuosi e poco approfonditi.

Laddove Drive si muoveva con l'eleganza e il terribile splendore di uno scorpione lungo il sottile equilibrio che separa il capolavoro dal trash, Solo Dio Perdona scivola inesorabilmente verso il secondo. La cosa di per sè non sarebbe un problema, se non fosse che le pretese autoriali del regista lo rendono scadente anche come B movie. L'azione è pressochè assente, confinata pressochè interamente in una scena di combattimento, che manca di incisività nello studio dei corpi e della violenza. Ogni rissa di Bronson, ogni istante della scena del bagno turco de Le promesse dell'assassino di Cronenberg erano pervasi e dominati dal corpo, analizzato in maniera quasi scientifica, in tutta la forza (e la debolezza) di muscoli e carne. Qui Ryan Gosling, questa volta stranamente poco convincente e fuori parte, non riesce a trasmettere alcuna sensazione, se non quella di un sacrificio immotivato e inutile, non sorretto da alcuna motivazione psicologica.

La regia non salva una trama scarna e piatta, ma riesce addirittura a peggiorarla, caricando eccessivamente a livello visivo un film che aveva invece bisogno di essere alleggerito e ridotto il più possibile all'osso per esaltarne il messaggio macbethiano e conferirgli così una parvenza di significato. Refn smette di essere se stesso e si mette a "fare Refn", disegnando e dirigendo un film talmente di maniera che sembra quasi un'autoparodia. La fotografia, pur eccellente, non basta a salvare un film senza capo nè coda, che si trascina stancamente verso un finale che non emoziona e non colpisce.
Restano alcune scene di alto livello (l'interrogatorio nello strip club su tutti), un poliziotto-killer con katana che convince nonostante l'approfondimento psicologico tendente allo zero, e una Scott-Thomas superba, che domina la scena in ogni momento in cui appare, vera dea ex machina della vicenda, novella Medea disposta a tutto, anche a sacrificare il figlio, pur di ottenere vendetta.

Solo Dio perdona è un film mal riuscito, caricato oltre l'inverosimile per cercare di renderlo un film d'autore, e che finisce invece per non essere nemmeno un buon film di genere. Refn non riesce a ripetere l'ottima prova di Drive, e fa un deciso passo indietro nella sua carriera di regista, segnando un'involuzione rispetto anche ai suoi lavori più sperimentali come Valhalla Rising. La katana del poliziotto, a differenza della giacca con lo scorpione, resta un oggetto vuoto, senza significato, una citazione tarantiniana posticcia che rappresenta perfettamente il fallimento del film.

**

Pier

martedì 24 gennaio 2012

Clamoroso al Kodak Theatre!


Quattro rapidi commenti a caldo sulle nomination, poi ci tornerò su con calma:

1) Niente per Ryan Gosling, uno scandalo considerando le sue super prestazioni in Drive e Le idi di Marzo.

2) Niente per Eastwood, ma qui si sapeva, e soprattutto il cowboy non ha ricevuto considerazione per pellicole migliori di J. Edgar

3) Niente per Drive, a parte una misera candidatura per il sonoro: scandalo anche qui, ma annunciato.

4) Infine, la vera sorpresa delle nomination: per la prima volta da quando esiste, la Pixar (con Cars 2) non è nemmeno candidata.

E io do ragione all'Academy.

Forse in casa Disney e in casa Lasseter cominceranno a rendersi conto di quello che molti dicono da tempo: qualcosa si è rotto (vedi anche il trailer di Brave), e bisogna fare in fretta a ripararlo.

venerdì 23 dicembre 2011

Le idi di Marzo

Il lato oscuro del potere



Stephen Meyers è il giovane e brillante addetto alla comunicazione di Mike Morris, candidato alle primarie presidenziali del Partito Democratico statunitense. Morris ha fama di essere l'uomo del cambiamento, un uomo integerrimo per cui i valori vengono prima di tutto, lontano da ogni logica politica tradizionale. Stephen lo sostiene con entusiasmo, ma scoprirà a poco a poco che non è tutto oro quello che luccica.

Il quarto film di George Clooney torna a calcare i sentieri della politica, che diventa però questa volta il soggetto principale, e non solo il nemico da combattere come in Good Night and Good Luck. L'analisi che emerge è dura, un colpo allo stomaco e alle speranze riposte da Stephen e dallo spettatore in una politica nuova, aperta, pulita. Clooney ci accompagna in un viaggio che dalla luce porta alle tenebre, in un abisso di corruzione e giochi di potere che coinvolge tutti, persino chi pensava di esserne escluso. Il messaggio è reso ancora più forte dalla scelta di ambientare la storia all'interno del partito democratico, anzichè nel più demonizzato partito repubblicano, come a dire che il marcio sta da tutte le parti, non solo tra quelli che consideriamo i "nemici".

Il film non è particolarmente originale, ma è solido, ben costruito e ben realizzato: il messaggio è forte e chiaro, e alcune scene sono talmente intense che mozzano il fiato. Quella della prova microfono è un piccolo capolavoro, il punto più alto della regia e dell'ottima prova di Ryan Gosling, favorito se ce ne è uno per gli Oscar di quest'anno con questo film e Drive. Lo supporta un cast di contorno d'eccellenza, con Philip Seymour Hoffman misurato ma perfetto, Giamatti ambiguo, viscido ma irresistibilmente simpatico, e Clooney freddo e imperturbabile. Completa il gruppo Evan Rachel Wood, una delle attrici più interessanti ed eclettiche della sua generazione, che ci regala una performance interessante e convincente.

Le Idi di Marzo non è solo un film sulla perdita dell'innocenza individuale: è un film da non perdere che racconta la perdita dell'innocenza di una nazione, di uno stato per cui è diventata più importante l'apparenza della sostanza, e per cui mentire, fare guerre inutili e dannose e trascinare il paese sull'orlo della bancarotta è meno grave che andare a letto con la stagista.

****

Pier

sabato 8 ottobre 2011

Drive

Piacere assoluto



Questa sarà una recensione un po' particolare. Perchè Drive non si recensisce: si guarda. Perchè raccontando la trama (uno stuntman dalla doppia vita di notte si trasforma in guidatore per criminali in fuga) non si può rendere tutto ciò che la trama non dice.

La sceneggiatura di Drive è essenziale, originale sotto alcuni punti di vista ma deludente in altri: il protagonista è un personaggio originale e che conquista, ma i dialoghi sono scarni, rari e poco significativi. Quello che davvero conquista è la regia: perfetta, e giustamente premiata a Cannes. Un uso della musica sapiente, che fa diventare la colonna sonora parte del linguaggio del film, del suo modo di esprimersi, della sua poetica. Una fotografia che definire eccezionale è riduttivo, con un'attenzione per luce e atmosfera al limite del maniacale. Un montaggio che si esalta nelle scene di inseguimento, ma che rispetta le pause di riflessione che il film ogni tanto si prende, esaltando le sensazioni e le reazioni dei personaggi.

Ma quello che conquista in particolare è la straordinaria abilità di mischiare e accostare dolcezza e violenza, scene pulp e momenti introspettivi, dialoghi intimistici e scene d'azione di altissimo livello. Drive è un film che procede su due binari paralleli, e lo fa senza perdere di vista nemmeno per un attimo il senso della storia, arricchendola di sguardi, sensazioni, emozioni forte e profondamente diverse.

A questa regia si unisce la straordinaria prova di Ryan Gosling, attore sempre più maturo e per il quale spendo fin d'ora il mio personale endorsement per l'Oscar: se non lo vince quest'anno tra Drive e Le idi di marzo non lo vince più. La sua prova conquista e convince, e ci regala un personaggio complesso e semplice al tempo stesso, con mille sfaccettature ma un codice di comportamento chiaro e univoco, un personaggio che dovresti odiare ma non puoi non amare fin dal primo secondo. Un personaggio che diventerà senza dubbio un cult.

Drive è un film da guardare, contemplare, un film in cui immergersi, da cui farsi abbracciare al primo minuto per uscirne solo all'ultimo, sempre sulle note di una musica anni 80 e accompagnati da titoli rosa shocking.

*****

Pier

sabato 10 settembre 2011

Telegrammi da Venezia 2011 - #4 - Il Totoleone

Gli ultimi film, poi i miei premi personali.

Killer Joe, voto 9. Sceneggiatura magistrale, con momenti indimenticabili per forza visiva ed espressiva, degni di Pulp Fiction, e una scena destinata a diventare un cult. Ottimi anche fotografia e attori.

Life without principles
, voto 7.5 . Johnny To torna con un thriller finanziario molto lontano dalle sue corde, che però affronta con grande spirito critico e con un film a incastro molto ben fatto.

L'ultimo terrestre
, voto 6.5 . Film semplice con sprazzi di genio, che racconta l'arrivo degli alieni nel modo più quotidiano mai visto finora al cinema. Da un fumettista era forse lecito aspettarsi qualcosa di più sul piano visivo, ma il film è comunque piacevole.

Faust,
voto 6. Fotografia eccezionale, introspezione e scavo psicologico notevoli, ma del film alla fine resta ben poco se non un forte senso di oppressione. Piace molto ai critici, facile ottenga qualche premio.


I miei premi



Leone d'oro: Carnage, di Roman Polanski (appena dietro, Clooney e A simple life)

Regia:
Steve McQueen per Shame.

Coppa Volpi maschile:
Ryan Gosling, protagonista di Le idi di Marzo.

Coppa Volpi femminile:
Deanie Ip, protagonista di A simple life.

Sceneggiatura:
Killer Joe.

Fotografia: Cime tempestose oppure Faust

Premio della giuria: Killer Joe


domenica 4 settembre 2011

Telegrammi da Venezia 2011 - #1

Bentornati a Venezia!
Anche quest'anno brevi telegrammi sui film in concorso. Pronti? Andiamo a incominciare!
Mostra finora di altissimo livello, con qualche debole calo negli ultimi giorni.

Le Idi di Marzo, voto 9. Thriller politico di altissimo livello, con dialoghi memorabili, in stile The West Wing, e personaggi ben costruiti e interpretati. Ottimo Ryan Gosling.

Carnage, voto 9.5. Divertente, esilarante, con quattro attori magnifici e un ritmo incredibile. Un film sulle coppie, ma sulla vita in generale, trattato con perfida e meravigliosa ironia.

A dangerous method, voto 8.5. Cronenberg torna a esplorare i meandri della psiche, e lo fa analizzando quella dei padri della psicanalisi. Profondo, introspettivo, recitato in modo eccellente, con un ottimo Fassbender che viene però eclissato nelle scene con Viggo Mortensen.

Alpis, voto 4. Da un'idea meravigliosa, un film pessimo, che regge solo i primi 10 minuti per poi naufragare miseramente.

Mildred Pierce, voto 8. Miniserie dell'HBO presentata in toto fuori concorso, offre un bellissimo spaccato degli Anni '30, portandoci lentamente a passeggio nei lati chiari ed oscuri del sogno americano.

Pier