Uno, nessuno, centomila
Evelyn e il marito Waymond sono due cino-americani di mezza età che gestiscono una lavanderia gettoni. Sono indietro con le tasse, e l'IRS li ha convocati nei suoi uffici per contestare alcune detrazioni. Durante questa visita, il tran-tran della loro vita viene sconvolto: una versione alternativa di Waymond si presenta a Evelyn dicendo che il multiverso è in pericolo, e lei è l'unica che può salvarlo.
In un'epoca in cui i blockbuster sono frutto della (più meno) rigida applicazione di formule o dalla visione fortissima di un autore cui quasi per caso viene concesso di fare esattamente ciò che vuole, un film come Everything Everywhere All at Once non dovrebbe esistere: registi (Dan Kwan e Daniel Scheinert) alla loro opera seconda, cast interamente asiatico in cui l'unica celebrità, Michelle Yeoh, non è esattamente un magnete per il pubblico; un budget comunque elevato per supportare l'elevata quantità di effetti visivi e speciali.
Tuttavia, come il proverbiale calabrone, Everything, Everywhere, All at Once se ne frega, esiste lo stesso, ed è un trionfo cinematografico. Kwan e Scheinert danno una lezione ai ben più celebrati (e ricchi di risorse) colleghi della Marvel mettendo in scena un multiverso creativo, dove i molteplici piani di realtà non sono un espediente narrativo, ma il cuore emotivo della trama: le possibilità nascono dal fallimento, dalle strade provate e poi abbandonate, dalle piccole ferite che ogni sacrificio lascia irrimediabilmente nel nostro essere. Tutti noi, in potenza, siamo più persone; tutti noi conteniamo dentro di noi la possibilità di svariati universi. La paura del fallimento è ciò che divide la protagonista dall'antagonista (ma è davvero tale?), con la seconda che di fronte alle infinite possibilità che il mondo le offre sceglie di non scegliere, terrorizzata dalla complessità e dalle aspettative riposte su di lei, mentre la prima intraprende un percorso di accettazione che la rende più forte, con la sua molteplicità che va ad arricchire la sua unicità, la sua identità centrale.
Kwan e Scheinert sfruttano il multiverso anche come modalità espressiva, muovendosi tra innumerevoli generi con grande grazia ed eleganza, e sfruttando questa caotica, geniale ibridazione per creare momenti comici, assurdi, drammatici, onirici, emozionanti. I due registi non si fanno mancare nemmeno alcune delle migliori scene action degli ultimi anni: il combattimento con il marsupio di Ke Huy Quan (attore che non riconoscerete ma ha segnato l'infanzia di molti) è un instant cult, ma tutti i combattimenti di Yeoh sono splendidi.
Yeoh, appunto: per anni considerata (a torto) solo un'attrice "da film d'azione", qui sfodera una prestazione clamorosa per versatilità e intensità: una donna piena di cicatrici emotive, cui la vita non ha dato ciò che avrebbe voluto e meritato, circondata da persone che le ricordano, volenti o nolenti, i suoi fallimenti. Quan è semplicemente meraviglioso nella parte del mite Waymond e dei suoi bellicosi alter ego, Stephanie Hsu perfetta nella parte di una figlia per cui le tradizioni stanno diventando una gabbia, e Jamie Lee Curtis offre una delle prove più folli, assurde, e perfette degli ultimi anni.
Everything, Everywhere, All at Once è uno dei migliori film degli ultimi anni, un caleidoscopio di generi che trascina lo spettatore su un ottovolante emotivo che lascia a bocca aperta per un fanciullesco stupore per tutta la durata del film, ma non rinuncia a colpire dritto al cuore nelle sue scene più emotive. Un film che parla della vita e dell'autoaccettazione con eco pirandelliane, e lo fa attraverso combattimenti kung-fu, rocce parlanti, dita a salsiccia, e distopie dal sapore kubrickiano: un vero proprio inno al cinema, capace di ibridare intrattenimento e cinefilia.
Non perdetelo, ve ne pentireste.
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Pier
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