sabato 22 novembre 2025

Frankenstein

Once upon a time...


Un equivoco che ricorre quando si pensa al cinema di Guillermo Del Toro è che sia un regista horror. In parte è vero: il regista messicano ha un grande gusto per l'orrore e sa girare scene che ricadono pienamente nel genere. Tuttavia, Del Toro andrebbe descritto più correttamente come un regista fantasy, e nello specifico un tessitore di fiabe moderne. Nei suoi film ci sono creature, mostri, elementi fantastici a non finire, ma l'orrore è quasi sempre interiore, spesso contrapposto a un orrore esteriore che nasconde però un cuore puro. Il mostro, la creatura fuori dall'ordinario è incompresa, perseguitata, ma sensibile, introspettiva. Uno stilema tipico della fiaba che ricorre in tutti i suoi lavori, da Il labirinto del fauno a Hellboy, e che trova la sua sublimazione ne La forma dell'acqua - non il suo film migliore, forse, ma quello più giusto da premiare con l'Oscar, in quanto perfetta summa della sua poetica.

Non sorprende quindi che anche questo adattamento di Frankestein abbia i toni della fiaba, del racconto fantastico più che del racconto ammonitore sui limiti della ragione e dell'ambizione, come probabilmente lo aveva inteso Mary Shalley. L'aspetto fiabesco è particolarmente evidente nella componente visiva, sontuosa e oltremondana, molto debitrice di uno dei lavori meno conosciuti di Del Toro, Crimson Peak, e che regala un mix steampunk di impossibile e scientifico, di magia e meccanica. Il laboratorio di Viktor è forse l'highlight della scenografia, mentre a livello fotografico spiccano le scene nell'Artico, quelle in cui Del Toro concede di più all'horror (ci sono eco evidenti di Poe nella nave bloccata nei ghiacci) ma senza mai scivolarci davvero.

Anche in Frankestein ricorrono tutte le corde del cinema di Del Toro: dall'umanità del mostro alla mostruosità dell'uomo, passando per la ricerca dell'amore e della connessione. Ed è proprio a livello tematico, infatti, che il film parzialmente delude: a differenza del Dracula di Coppola non rivoluziona un mito già esplorato infinite volte dalla cinematografia, e anzi riprende toni e situazioni già viste sia in altri adattamenti (il mostro è molto debitore dell'incarnazione vista in Penny Dreadful, una delle migliori serie TV, di genere e non, degli ultimi dieci anni), sia in altri lavori di Del Toro. Forse era inevitabile, visto che questo mito ha, per sua stessa dichiarazione, formato la poetica deltoriana. E, in fondo, le fiabe sono spesso ripetitive, costruite su archetipi e lezioni morali che ritornano di continuo.

Rimane però la sensazione che si potesse fare di più, trovare chiavi nuove (come Del Toro aveva fatto, con efficacia, ne La forma dell'acqua), chiavi che qui sono invece assenti, con due notevoli eccezioni. La prima è uno spunto tolkieniano su come la morte sia un dono e non una maledizione da cui fuggire: la creatura è qui immortale, e da qui deriva il suo tormento, la sua disperazione all'essere condannato a un'eternità di solitudine. La seconda è la caratterizzazione di Viktor, che diviene perfetta incarnazione della mascolinità tossica. Elizabeth non è più l'amata dello scienziato, ma il suo desiderio proibito, il capriccio di un bambino mai veramente cresciuto: Viktor beve solo latte durante il film, e Mia Goth interpreta sia Elizabeth che sua madre. 

Cosa resta, dunque, di questo Frankenstein? Resta un film comunque in grado di intrattenere grazie all'inventiva visiva di Del Toro e alla splendida prova del cast, con Oscar Isaac mostro-creatore, Elordi mostruosamente bello e dolente, e una Mia Goth ambigua e carismatica. Frankenstein è come un dolce ben confezionato che però non riesce a stupire, un tentativo di rivistare il tiramisu che però finisce semplicemente per presentare in modo diverso e visivamente accattivante gli ingredienti: lo si mangia volentieri, ma poi, visto il cuoco, è inevitabile pensare che era lecito aspettarsi di più.

*** 1/2

Pier

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