sabato 31 agosto 2019

Telegrammi da Venezia 2019 - #2

Secondo telegramma da Venezia, con una ricca selezione di film dalle varie sezioni. Molti di questi parlano di eventi passati o di fantasia, ma con inquietanti richiami al presente.


The kingmaker (Fuori Concorso), voto 8. Splendido documentario che, partendo dalla figura di Imelda Marcos, vedova del defunto dittatore delle Filippine, racconta i perversi meccanismi del potere che hanno permesso che la famiglia Marcos riuscisse a tornare a tenere le redini del governo del paese a meno di 30 anni dal loro esilio. La regista Lauren Greenfield riesce nella difficile impresa di raccontare le nefandezze dei Marcos, ma al tempo stesso spiegare la fascinazione che la famiglia, e Imelda in particolare, esercita ancora sulla popolazione filippina.

Il sindaco del rione sanità (Concorso), voto 6.5. Martone porta al cinema la commedia amara di De Filippo, e lo fa adattando la sua regia per il Teatro Stabile di Torino. L'esperimento è interessante, con il linguaggio e le modalità espressive del teatro che vengono trasposte senza sconti su pellicola, costringendo il cinema ad adattarsi ad esse anziché il contrario. Tuttavia, nonostante un ottimo cast, l'operazione appare puramente intellettuale, e lascia ben poco allo spettatore.

Seberg (Fuori Concorso), voto 5. Il film racconta l'agghiacciante storia della persecuzione dell'FBI nei confronti di Jean Seberg, attrice icona della Nouvelle Vague, ma lo fa in modo superficiale. Qui la recensione estesa scritta per Nonsolocinema.

J'accuse (Concorso), voto 7.5. Polanski porta al cinema la storia del caso Dreyfus, e lo fa con eccezionale rigore e senza esimersi dal tracciare paralleli con il presente e, in secondo piano, con le sue vicende personali. Il film soffre solo per un'eccessiva lunghezza e un'inutile storia d'amore, ma per il resto colpisce in pieno il bersaglio, costringendo lo spettatore a una profonda riflessione sul valore dell'etica professionale e su come sia facile deformare la verità fino a seppellirla.

Rare Beasts (Settimana della Critica), voto 8.5. Billie Piper firma un esordio alla regia splendido per originalità di tematica e visione artistica: un esilarante, lisergico film dell'assurdo che riesce però a trattare con profondità e sensibilità temi seri come maternità, malattia, relazioni umane e professionali. Il film shakera Monty Python, Ken Loach, e Woody Allen per realizzare un'opera originale, proletaria, visionaria, commovente, vera. Una bellissima sorpresa.

Ema (Concorso), voto 6.5. Pablo Larrain si conferma come uno degli autori più ispirati ed eclettici del panorama mondiale raccontando la storia di Ema, ballerina alla ricerca della sua identità e del suo posto nel mondo, attraverso un flusso di coscienza fatto di corpi, neon, e martellante musica reggeaton. Tra guerre verbali tanto spietate da diventare assurde e amori fluidi e impossibili da incasellare, Larrain si muove tra le strade di Valparaiso con uno sguardo documentarista ma comunque empatico, capace di raccontare le contraddizioni delle convenzioni sociali e del concetto di famiglia attraverso lo sguardo deciso ma senza sicurezze della sua carismatica protagonista.

Joker (Concorso), voto 9.5. Un film che non è un cinecomic, ma un magistrale trattato sulla follia dei nostri tempi. Phillips realizza un capolavoro, al centro del quale si muove un Joaquin Phoenix trascendente e in preda a estasi dionisiaca: un'interpretazione da annali del cinema. Qui la recensione estesa scritta per Nonsolocinema.

Pier

giovedì 29 agosto 2019

Telegrammi da Venezia 2019 - #1

Come ogni anno, Film Ora è a Venezia, e vi accompagnerà per tutta la Mostra del Cinema con i suoi telegrammi, recensioni brevi dei film visti nelle varie sezioni.


Ecco i film visti nel primo giorno e mezzo di Mostra:

La verité (Concorso), voto 7.5. Kore-Eda dirige il suo primo film fuori dal Giappone, e lo fa trovando un perfetto equilibrio tra le sue tematiche più intimiste e "familiari" e la nuova cultura, quella francese, in cui decide di calarsi. Il risultato è un film delizioso, fortemente emotivo ma anche esilarante, forse non all'altezza dei suoi capolavori, ma comunque efficace nel raccontare il fragile rapporto tra memoria e fatti, tra finzione e realtà. Catherine Deneuve è sublime in un ruolo che si fatica a non vedere come parzialmente autobiografico: la sua prova, perfetto connubio tra ironia al vetriolo e dolente senso di colpa, la mette già in prima fila tra le candidate alla Coppa Volpi.

Pelican blood (Orizzonti), voto 5. Come gestire una figlia talmente fuori controllo da sembrare posseduta? Fin dove può spingersi l'amore di una madre? Da queste interessanti premesse, calate in una Germania rurale fuori dalle strade più battute, il film ci porta in un incubo a occhi aperti, un thriller psicoanalitico che nel finale vira però in modo poco convincente verso il soprannaturale, gettando alle ortiche quanto di buono aveva fatto fin lì in termini di costruzione delle atmosfere. La regia rimane comunque di ottimo livello, aiutata anche dalle ottime prove delle tre protagoniste.

The perfect candidate (Concorso), voto 6.5. Un tema importante come quello dell’emancipazione femminile in Arabia Saudita, affrontato con intelligenza ed efficacia, ma scarsa originalità. Qui la recensione scritta per Nonsolocinema.

Marriage story (Concorso), voto 7.5. Chi scrive ama ben poco Noah Baumbach, enfant prodige per autoproclamazione che spesso pecca di grande pretenziosità senza avere alcuna sostanza. Il suo Marriage Story è invece una splendida sopresa: un film intimo, emozionante, vero (non per nulla è parzialmente autobiografico). Baumbach racconta un divorzio doloroso cercando di offrire la prospettiva di ambedue i coniugi (anche se, involontariamente, quella di lui prevale su quella di lei), dimostrando come il rispetto e l'affetto reciproco spesso non siano sufficienti a proteggerci dall'imbarbarimento dei rapporti generato dalla causa legale. È più facile ricordare i torti che i momenti di arricchimento reciproco, i difetti piuttosto che i pregi: come in Kore-Eda, la memoria tradisce e inganna. Adam Driver e Scarlett Johansson brillano nei ruoli principali, ma ciò che colpisce è la capacità di Baumbach di raccontare persone, emozioni, relazioni: in una parola, la realtà. Non sorprende, però, che sia riuscito a farlo solo dopo essersi spogliato degli orpelli pseudo-woodyalleniani che solitamente caratterizzano il suo cinema per spingersi in un territorio a lui finora sconosciuto, quello della sincerità.

Ad astra (Concorso), voto 6.5. James Gray, come tanti prima di lui, usa la fantascienza per parlare d'altro, e l'altro è la condizione dell'umanità e del pianeta Terra. Il messaggio ecologista/umanista parte sottotraccia, come un fiume carsico, ma cresce lentamente lungo il film, man mano che Brad Pitt si avventura nelle profondità del cosmo, sempre più lontano da quel mondo da cui sia lui che suo padre sembrano smaniosi di sfuggire. Il film ha ottimi momenti, sia visivi che narrativi, ma pecca di faciloneria sul finale, un po' troppo stereotipato e da lacrima facile, e nel messaggio, declinato in maniera efficace ma non esattamente originale.

Pier e Simone

mercoledì 21 agosto 2019

Il re leone (2019)

Tradire la propria storia


Simba è il giovane erede di Mufasa, il re della savana. Ansioso di provare il suo valore e istigato dall'ambiguo zio Scar, il giovane leone finirà per infilarsi in un pericolo che cambierà tutta la sua vita.

Nulla sembra poter fermare l'ondata di remake dal vivo dei classici d'animazioni Disney: se alcune di queste operazioni sembrano avere almeno una vaga giustificazione artistica (Il libro della giungla, diretto dallo stesso Favreau responsabile de Il re leone), e altre sono quantomeno inoffensive e comunque godibili (il recente Aladdin e Cenerentola), altri riescono nell'impresa di non arricchire l'originale e addirittura peggiorarlo (La bella e la bestiaDumbo).

Il re leone, purtroppo, ricade nell'ultimo caso. All'apparenza un remake quasi pedissequo dell'originale, il film trova la propria morte in quella che dovrebbe essere la sua raison d'être, ovvero la computer grafica iperrealistica già vista ne Il libro della giungla. Laddove in quest'ultimo l'iperrealismo era necessario per consentire l'interazione realistica con il giovane interprete di Mowgli, qui l'iperrealismo risulta fallimentare e straniante, in quanto completamente inadatto a veicolare le emozioni provate dai personaggi. La mancanza di emozioni si traduce nella totale incapacità di empatizzare con i protagonisti, rendendo così sterili le scene che dovrebbero risultare divertenti (le prime interazioni tra Simba e Timon e Pumbaa) o commoventi (la celeberrima morte di Mufasa). La veicolazione delle emozioni è lasciata interamente ai doppiatori, creando così enormi differenze nell'espressività dei personaggi, con la versione giovane di Simba che si trasforma in una sfinge pressoché indecifrabile. Un film che è passato alla storia per la sua straordinaria portata emotiva si trasforma quindi in un film piatto, senza guizzi, incapace di emozionare e persino di divertire, fatta eccezione per rarissime scene, quasi tutte affidate ai mattatori Zazu, Timon e Pumbaa, cui vengono assegnati le battute più riuscite e i migliori doppiatori (rispettivamente John Oliver, Billy Eichner, e Seth Rogen in originale, Emiliano Coltorti, Edoardo Leo, e Stefano Fresi in italiano).

Il paradosso è che questa situazione si sarebbe potuta evitare applicando le regole auree dell'animazione tradizionale - regole create dalla stessa Disney e "trasferite" alla computer grafica dal lavoro di John Lasseter sui primi corti Pixar. La totale  incapacità dei personaggi animati, e dei felini in particolare, di comunicare emozioni come gioia o tristezza risulta dall'aver ignorato regole come l' "esagerazione", che prescrive un uso di espressione facciali esagerate per trasmettere emozioni ed evitare la staticità e monotonia generate dall'iperrealismo. Il fatto che un film del genere sia stato prodotto senza tenere conto di un difetto produttivo talmente macroscopico da essere evidente anche a un occhio non esperto lascia basiti ed esterrefatti, soprattutto considerando che simili problemi non sono certo una novità nell'ambiente a.
Il film si distingue inoltre per una sciatteria inaccettabile, che si esprime soprattutto nei colori, spenti e piatti laddove l'originale era un trionfo di toni accesi e vibranti, e che trova il suo culmine nella scena in cui Simba e Nala cantano Can you feel the love tonight?, palesemente ambientata di giorno, con tanto di tramonto che avviene molti minuti dopo la fine della sequenza.

Il re leone, dunque, non è solo un remake inutile, pedissequo e dimenticabile, creato unicamente per logiche commerciali (cosa che di per sé non basterebbe a condannarlo, dato che lo scopo, in fondo, è sempre quello di fare film che incassino al botteghino): è anche un tradimento dell'Arte create dalla stessa Disney, e che la ha consacrata come una delle aziende più creative del ventesimo secolo. Un tradimento del genere è inaccettabile e preoccupante, in quanto dimostra una totale mancanza di rispetto e attenzione sia per lo spettatore che per la storia dell'azienda.

Visto che la macchina dei remake non conosce soste, auspichiamo che questo evidente passo falso faccia riconsiderare alla Disney l'uso della computer grafica, al fine di promuoverne un uso più efficace e degno della grande storia dell'animazione disneyana.

* 1/2

Pier

a : per esempio, in Alla ricerca di Nemo il team artistico Pixar constatò che rappresentare i pesci in modo realistico, con gli occhi sui lati del corpo, rendeva i personaggi troppo inespressivi. Decisi quindi di usare un altro animale come modello per gli occhi dei protagonisti: il cane.