martedì 20 luglio 2021

In the Heights - Sognando a New York

Un sogno collettivo


Il musical è il genere onirico per eccellenza: dai grandi classici come Cantando sotto la pioggia agli esempi più recenti come Moulin Rouge o La La Land, passando per le versioni animate della Disney, il musical mette da sempre in scena speranze, ambizioni, desideri, mischiando il reale e il fantastico. I musical più riusciti, tuttavia, sono quelli in cui la realtà rimane ben visibile, in grado di spezzare il sogno così come di farlo carne e renderlo realtà.

In the Heights racconta un sogno collettivo, che attraversa vite e generazioni: quello della comunità latina di Washington Heights. Certo, formalmente il protagonista è Usnavi, ma Usnavi non è altro che un narratore, che racconta una storia che è anche la sua, ma non solo la sua. È la storia di Nina, che sente il peso di dover riscattare un'intera comunità; è la storia di Kevin, che è disposto a sacrificare tutto per dare a sua figlia la possibilità che lui non ha avuto; è la storia di Abuela, che ha fatto da nonna a tutti, dispensando amore per dare agli altri quello che lei, immigrata di prima generazione, non aveva ricevuto - per aiutare gli altri sogni a fiorire. Ed è quello di tanti altri personaggi, i cui sogni si fanno canto e si uniscono a quelli dei protagonisti in un'opera sinfonica corale - non per nulla una delle canzoni si intitola Hundreds of stories - che dà voce a un'intera comunità, a un'intera esperienza - quella, appunto, dei cittadini immigrati, di prima o seconda generazione, divisi tra la patria che li accolti e quella che hanno dovuto lasciare, tra l'orgoglio per le proprie radici e quello per ciò che sono riusciti a ottenere nella loro nuova vita.

La colonna sonora di In the Heights è strepitosa, il trionfo del genio musicale di Lil-Manuel Miranda (Hamilton è il suo trionfo di scrittura, ma musicalmente non fa altro che riprendere ed elaborare suggestioni introdotte qui): un tappeto sonoro ricco, vibrante, che non lascia un attimo di tregua, ed esplode con note felici, malinconiche, orgogliose, rassegnate, divertite, un turbinio di emozioni che avvolge, conquista, trasporta, fa sognare. La gioia della canzone d'apertura, l'energia irrefrenabile di In the club e Carnaval del barrio, la malinconia di Breathe e When you're home, la devastante potenza emotiva di Patiencia y fe (il momento migliore del film, a livello sia musicale che visivo, anche grazie alla fenomenale performance di Olga Merediz): tutti questi ingredienti si mescolano in un affresco musicale omogeneo che ci trasporta nel quartiere, facendoci respirare, sudare, emozionare con i protagonisti.


Il cast è indovinato, tra vecchie conoscenze televisive (Stephanie Beatriz, Jimmy Smits), membri del cast originale di Broadway (Olga Merediz) e altre vecchie conoscenze di Miranda (lo splendido protagonista Anthony Ramos) - Miranda che si ritaglia per sé la parte, piccola ma memorabile, del piragüero. Quel che funziona e convince è, come detto, il collettivo, con gli attori che sembrano vecchissimi amici che si ritrovano per una rimpatriata, interagendo e dandosi manforte con grande affiatamento e complicità.

Jon Chu dirige il film con buona inventiva, anche se a volte rimane la sensazione che avrebbe potuto osare ancora di più. Le sue scelte sono comunque efficaci: Chu accompagna la poliedricità delle musiche con un caleidoscopio di colori e coreografie, un'esplosione di vitalità e movimento che omaggia i musical classici e li trasporta in una dimensione più quotidiana senza sacrificare la fantasia e l'immaginazione. I colpi di scena della trama sono riusciti anche per la sua capacità di giocare con le immagini e con la sceneggiatura, mettendoli al servizio del vero protagonista - il quartiere di Washington Heights.

In the Heights è, a dispetto delle innovazioni musicali, un musical classico, un'ode al potere del sogno che si muove tra una canzone e l'altra con il giusto mix di grazia e gravitas, risultando dolce ma mai sdolcinato, commovente ma mai alla ricerca della lacrima facile. Se il genere non fa per voi, evitatelo; ma se siete amanti del cinema che fa sognare a occhi aperti, lasciatevi trasportare tra i suoni e la luce delle vie di Washington Heights: non ve ne pentirete.

**** 1/2

Pier

mercoledì 14 luglio 2021

Black Widow

Mission Impossible: Fuggire dal genere


Black Widow ha una storia tormentata quasi quanto quella della sua protagonista. Programmato per anni, realizzato solo a ridosso della pandemia, e per questo posticipato fino a oggi, arriva in sala avvolto da una patina di mistero ed "estraneità" a un universo Marvel che ha sorpassato gli eventi raccontati nel film. Era, insomma, un film che non poteva reggersi sull'hype, sul desiderio di scoprire i nuovi sviluppi della macrotrama che si dipana sui vari film.

Sembrava quindi l'occasione per provare a fare qualcosa di nuovo, tornare a quegli esperimenti del "genere nel genere" che erano stati la forza dell'universo Marvel fino a Civil War, quando iniziò l'abbandono delle differenze a livello visivo, presto seguite da quelle narrative e di tono (si veda Thor Ragnarock, lontanissimo dai toni shakespeariani dei predecessori e più vicino a quelli da space opera comica dei Guardiani della Galassia). Ormai l'universo Marvel è incredibilmente e volutamente omogeneo, e per trovare qualche lampo di diversità bisogna rivolgersi alle serie TV su Disney+, WandaVision in primis.

Black Widow avrebbe la libertà di essere un film di genere - lo spionaggio di azione di James Bond o Mission Impossible - e di avere quel tocco di realismo che spesso giocoforza manca dai film Marvel. La Vedova Nera non ha superpoteri, non ha armature potenziate o ali robotiche: è umana, molto umana, con un passato traumatico alle spalle e solo le sue forze e la sua astuzia a consentirle di portare a termine le sue missioni - esattamente come James Bond e Ethan Hunt.

E, per la prima metà di film, ci prova, e ci riesce egregiamente: la sequenza di apertura è, a mani basse, una delle migliori mai realizzate nel MCU, con la tensione che cresce, cresce, cresce, fino a esplodere, e lo scenario che passa da familiare a eccezionale nel giro di pochi, efficacissimi minuti. A seguire, dei titoli di testa degni di Zach Snyder (è un complimento, Snyder ha mille difetti ma sa fare i titoli di testa come pochi altri), con una versione a cappella di una celebre canzone rock ad accompagnare delle immagini incredibilmente crude per un film Marvel, che riflettono gli abusi che le bambine destinate a diventare le Vedove hanno dovuto subire. 
La fuga di Natasha e il successivo incontro-scontro con il suo passato sono gestite magistralmente, con scene di inseguimento e combattimento che non sfigurerebbero in uno dei migliori Mission Impossible. Il dramma e l'azione prevalgono sulle parti comiche, pur presenti, e l'incontro scontro tra Scarlett Johansson e Florence Pugh è teso, asciutto, vero.

Non i tipici titoli di un film Marvel

Poi, improvvisamente, il film vira in un'altra direzione, tornando in territori più familiari ai film minori del MCU: battute a raffica, personaggi macchiettistici, azione edulcorata e ripresa con la solita shaky cam, utilizzo eccessivo di computer grafica, fotografia standard (qualcuno potrebbe dire smarmellata). Il paradigma Marvel prende possesso del film e non lo abbandona più, tradendone la natura e distruggendo l'identità che era riuscito a crearsi nel primo atto. Il risultato è straniante e deludente, in quanto butta alle ortiche la possibilità di fare qualcosa di diverso, in grado di distinguersi dalla massa, e invece risulta uno strano miscuglio tra qualcosa di nuovo e l'obbligo di seguire una sorta di manuale Cencelli della sceneggiatura Marvel. L'anima "cruda" del film torna a fare capolino qui e là (soprattutto nel confronto tra la Vedova Nera e Dreykov), come a non volersi rassegnare all'omologazione, ma esce sconfitta e scompare definitivamente nel grande scontro di chiusura.

Le new entries tra gli attori subiscono il destino della sceneggiatura loro affidata: Florence Pugh brilla e dà vita a un personaggio vivo ed energico, che entra subito nel cuore dello spettatore grazie alle sue sfaccettature; Rachel Weisz e David Harbour sono invece costretti a lavorare con delle macchiette, con la sceneggiatura che rinuncia del tutto ad approfondirne la psicologia - e, soprattutto nel caso del personaggio di Harbour (il Red Guardian), sarebbe stato estremamente interessante. Scarlett Johansson sembra finalmente divertirsi con un personaggio troppo spesso lasciato sullo sfondo nei film corali, e che qui invece viene tratteggiato con attenzione e buona profondità.

Black Widow è un'occasione mancata: dopo un inizio folgorante, sembra quasi rassegnarsi a essere semplice prodotto di intrattenimento "scolastico" e nulla più. Un vero peccato, perché il potenziale c'era, e la decisione di portare il film nella solita, conosciutissima direzione sembra posticcia, appiccicata ex post per non deviare da una formula sì vincente, ma che sta cominciando a esaurire le sue cartucce.

***

Pier

mercoledì 7 luglio 2021

A quiet place II

Il linguaggio del silenzio


La famiglia Abbott è costretta a lasciare il suo rifugio dopo gli eventi che hanno portato alla morte del padre. Sulla strada troveranno nuovi pericoli, ma anche quella che potrebbe essere una nuova speranza. La tensione tra il desiderio di inseguirla e la volontà di non correre rischi porteranno la famiglia a dividersi.

Dopo il successo inaspettato (ma meritato) del primo capitolo, era quasi inevitabile per John Krasinski realizzarne un sequel. Con un'ottima intuizione, Krasinski decide di ricominciare esattamente dove era finito il primo film, con la famiglia Abbott che si lecca le ferite prima di abbandonare definitivamente il luogo che, a lungo, ha chiamato casa. La sequenza d'apertura, tuttavia, è dedicata al vero inizio - l'arrivo delle creature aliene fonosensibili sulla Terra, mai mostrato nel primo film. Krasinski costruisce la scena con maestria, dimostrando ottime doti registiche anche con scene d'azione postapocalittiche più tradizionali, e rappresentando al meglio lo smarrimento degli Abbott e dei loro concittadini di fronte all'arrivo di quella minaccia sconosciuta.

Nel presente, lo smarrimento ha lasciato spazio a una cupa rassegnazione. Il passaggio è sottolineato dalla fotografia - più cupa e desaturata nel presente, più accesa e vitale nel passato - ma soprattutto dal sonoro: dopo le urla e le esplosioni si torna infatti a quel ferale, minaccioso silenzio che permeava il primo film, un silenzio salvifico nei confronti dei mostri ma fonte di continua tensione. Krasinski e il suo team di effetti sonori continuano a lavorare magnificamente, giocando anche con la sordità di Regan, e creando una tensione compatta ed efficace che si protrae per tutto il film.

La sceneggiatura è semplice, asciutta, minimalista. Da un lato questo è un pregio, perché consente alla storia di proseguire in modo snello (durata di 90 minuti, ormai una mosca bianca) ed efficace, mantenendo sempre alta la tensione, senza un momento di calo o di noia e senza quegli inutili momenti di dialogo espositivo che spesso affossano questo genere di film. Dall'altro, tuttavia, la storia tradisce la natura "di transizione" del film, il suo essere ponte necessario tra il primo capitolo e il terzo in arrivo. A quiet place II è, di fatto, il racconto di una (stra)ordinaria giornata di sopravvivenza, con una scoperta potenzialmente importante che però non sembra in grado di cambiare le sorti dell'umanità: ma, forse, a Krasinski interessa mantenere un focus più intimo e raccolto, e questo secondo capitolo ha in effetti il potenziale di cambiare le sorti degli Abbott. 

Il cast è sempre efficace, con la new entry Cillian Murphy che raccoglie egregiamente il testimone di Krasinski, offrendo un personaggio diverso, indurito dagli eventi, che ritrova una motivazione al di là della mera sopravvivenza grazie all'incontro (o, meglio, il ritrovamento) con gli Abbott. Emily Blunt risulta ancora più convincente come eroina, ma a brillare è la giovane Millicent Simmonds, perfetta personificazione dei punti di forza del film: poche parole, tanta azione, capacità di usare il suono a proprio vantaggio.

A quiet place II è un ottimo sequel sul piano dell'esecuzione, in quanto replica ed eleva gli elementi migliori del primo film, alzando ulteriormente l'asticella della tensione. Lascia però un po' di amaro in bocca, perché era forse lecito aspettarsi un po' più di creatività, qualche novità sostanziale rispetto alla formula efficace del primo anziché una ripetizione, ancorché notevolmente migliorata e implementata alla perfezione. Speriamo che Krasinski, ormai perfettamente in controllo della propria creatura, abbia riservato il meglio per il finale prossimo venturo.

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Pier


sabato 3 luglio 2021

The father (In pillole #18)

Frammenti di memoria



Il racconto della demenza senile non è certo nuovo al cinema, soprattutto negli ultimi anni, in cui film come Still Alice, Away from her, e The leisure seeker hanno affrontato il tema con toni e prospettive molto differenti. Tutti questi film, tuttavia, adottavano una prospettiva esterna alla malattia, mostrando il decadimento mentale e fisico della protagonista come visto da un osservatore. The father ribalta questa prospettiva, e ci porta all'interno del cervello del malato, mostrandoci la realtà dal suo punto di vista. La macchina da presa di The father è un narratore inattendibile, che procede per salti, collegamenti (il)logici, rivisitazioni di scene precedenti, giustapposizioni: è un viaggio in una mente durante il processo di frammentazione indotto dalla malattia, tra i fantasmi che sembrano reali e la realtà che diventa sogno. 

La sceneggiatura di Florian Zeller è, semplicemente, un capolavoro: tesa, ritmata, coraggiosa, cattura lo spettatore dalla prima scena e non lo abbandona più, trascinandolo nelle profondità della mente e continuando a sorprenderlo, disorientarlo, emozionarlo fino all'ultima inquadratura. 
La regia di Zeller è meno creativa della sua sceneggiatura ma comunque ottima, in grado di superare l'origine teatrale del testo per mettere in scena una macchina visiva e sonora efficace ed evocativa grazie ad alcune scelte artistiche molto azzeccate: la musica diegetica chiaramente distinta da quella extradiegetica, il gioco visivo dei sottili cambiamenti degli spazi e delle situazioni, con la ripetizione delle inquadrature a sottolineare differenze dapprima marginali che divengono sempre più macroscopiche. Il gioco è sorretto da un montaggio da manuale, che gioca con il tempo interno della storia (tempo che, peraltro, è uno dei temi centrali del film), dilatandolo e comprimendolo a seconda delle necessità.

La forza emotiva del film, tuttavia, è tutta nelle mani di Anthony Hopkins, qui forse alla miglior prova di una già scintillante carriera. Non esistono parole che possano descrivere l'incredibile naturalezza dell'attore gallese nel raccontare un uomo malato che cerca disperatamente di aggrapparsi alle ultime certezze che la sua mente gli offre. Rabbia, debolezza, paura, charme: Hopkins offre questo, e tanto altro, dando credibilità a scene che in mano a un altro attore sarebbero state ad altissimo rischio di ridicolo, e che lui trasforma in momenti straordinari, catartici, umani. Accanto a lui impallidisce anche l'ennesima prova sublime di Oliva Colman, perfetta nel rendere il caleidoscopio di emozioni che la figlia di un malato di demenza senile si trova a provare.

The father non è solo un film sulla malattia, ma un magnifico ritratto della mente e della memoria umana, che ci mette di fronte alla loro fragilità e a come siano in grado di distorcere la realtà. Un viaggio dentro noi stessi, che evidenzia come ciò che ci rende chi siamo - la nostra identità - risieda soprattutto nella nostra capacità di pensare, sentire, ricordare. Non perdetelo.

****1/2

Pier

Nota dell'autore adirato: la distribuzione italiana ha, come da tradizione, deciso di aggiungere un pleonastico sottotitolo al titolo originale, ovvero "Nulla è come sembra" - roba da thriller estivo di seconda visione. Quando la smetteremo con queste scelte penose?