mercoledì 28 giugno 2017

The Childhood of a Leader

Il sogno dell'attenzione genera mostri



Il film racconta l’ascesa dei poteri totalitari del XX secolo attraverso l’infanzia di un bambino statunitense, trasferitosi in Francia al seguito del padre, assistente personale di Wilson durante i trattati di Versailles. Attraverso diversi quadri narrativi vediamo gli eventi che porteranno il ragazzo a diventare un leader totalitario.

A distanza di due anni, esce finalmente in Italia The childhood of a leader, uno dei migliori film dell'edizione 72 della Mostra del Cinema di Venezia, in cui si aggiudicò la miglior regia della sezione Orizzonti e il premio per la miglior opera prima.

Che infanzia ha avuto Hitler? Cosa trasforma un bambino nel potenziale leader di un regime sanguinario? Brady Corbet, guidato da questa domanda, realizza un film ambizioso e diverso, che attinge a piene mani da molti mostri sacri del cinema (Welles, Bresson e Dreyer su tutti) a livello visivo e tematico, rielaborando temi e stili per analizzare l’infanzia di un leader totalitario. Il risultato è un’opera magniloquente, fortemente imperfetta ma stordente nella sua capacità di suscitare sensazioni, emozioni, nel suo sfidare lo spettatore alla comprensione pur mantenendosi all’interno di una cornice narrativa, nel suo essere quotidiano ed epico allo stesso tempo.

Corbet, pur essendo all’esordio in un lungometraggio, dirige con mano sicura e realizza un film crepuscolare, un viaggio nel sonno della ragione (o, meglio, dell’attenzione e degli affetti) che genera quei mostri totalitari che hanno infestato la storia e gli incubi del Novecento. Con una splendida fotografia caratterizzata da poca luce e pochissimi esterni, Corbet punta l’accento sulle ombre, sul non visto e sulle sue conseguenze, sull’importanza e l’infinto impatto di ciò che ignoriamo e decidiamo di ignorare, oggi un figlio indisciplinato, domani una potenziale minaccia, con conseguenze potenzialmente devastanti.

Il film ha un afflato da Romanticismo, una potenza visiva e sonora (spettacolare la colonna sonora di Scott Walker) da sturm und drang, con l’epicità da tragedia classica tipica di certi film di Luchino Visconti, in cui il destino sembra ineluttabile, il peccato è sempre dietro l’angolo, e gli uomini sembrano ciechi alla causa delle proprie disgrazie. La narrazione procede in modo ellittico, lasciando che sia lo spettatore a riempire i “buchi” e a capire cosa spinga il giovane protagonista alla ribellione, al rifiuto dei genitori e dei valori che rappresentano e, infine, alla guida di un regime totalitario. Come i regimi del Novecento nascono dal rifiuto dei valori stabiliti dal trattato di Versailles, sempre sullo sfondo nella vicenda narrata, così la disobbedienza del giovane Prescott, demonio dalla faccia d’angelo, nasce dal rifiuto per dei genitori assenti, autoritari, infedeli, che lo portano probabilmente a una precoce scoperta della sessualità e del suo potere di annichilire chi si mette sulla sua strada, del suo diritto di autoaffermazione, a qualunque costo.

Corbet si avvale di un cast eccellente, in cui il Robert Pattinson strombazzato sulle cartelle stampa per ragioni di marketing svolge solo un ruolo marginale (per quanto fondamentale per capire alcuni aspetti nella storia, soprattutto nell’ambiguo e stimolante finale), e brillano una Bérénice Bejo madre altera e terribile e il giovane Tom Sweet, adorabile, inquietante, indisponente, una vera rivelazione e una miniera di emozioni e suggestioni.

The childhood of a leader è un film ridondante ma potente, imperfetto ma evocativo, citazionista ma innovativo, che risveglia emozioni forte nello spettatore e lo costringe a fare qualcosa cui il cinema contemporaneo sembra aver rinunciato: riflettere.

**** 1/2

Pier


NdR: recensione originalmente pubblicata su nonsolocinema.com

mercoledì 21 giugno 2017

Wonder Woman (In pillole #11)

In Terra Caecorum



Diana vive su un'isola fuori dal tempo e dallo spazio, abitata da sole donne, le Amazzoni, formidabili combattenti protette da Zeus e che hanno in Ares, dio della guerra, il loro principale nemico. Quando un pilota della RAF precipita sull'isola, Diana scopre che il mondo è devastato dalla Prima Guerra Mondiale, a suo parere causata da un redivivo Ares. Decide così che è suo dovere lasciare la sua isola per trovare Ares e distruggerlo.

La prima sensazione che si ha vedendo Wonder Woman è di sollievo: il film è chiaramente migliore di tutti gli altri del DC Universe, sia per una sceneggiatura finalmente ben calibrata, sia per l'efficace scelta della protagonista, una Gal Gadot che offre un'ottima prova, unendo alla perfezione l'ingenuità di chi ha vissuto in una bolla per tutta la sua vita e l'energia marziale di una combattente.

Scavando in profondità, però, emergono i soliti problemi che ormai affliggono molti film di supereroi, e quelli della DC in particolare: un villain poco credibile, una certa formulaicità in situazioni e personaggi, e in generale una sensazione di già visto che rende il film meno godibile. Anziché cercare una propria cifra distintiva dal punto di vista visivo (cosa che era riuscita alla Marvel nei primi film, e che sembra aver ritrovato con I Guardiani della Galassia Vol. 2, dopo una serie di film indistinguibili dal punto di vista della fotografia), la regista Patty Jenkins decide di pescare a piene mani dall'immaginario visivo DC, e a volte anche da quello del primo Capitan America (vedi, ad esempio, tutto il finale, tra bosco e base nemica). C'era bisogno, ad esempio, di mantenere la slow motion tanto cara a Zach Snyder in un film su un nuovo personaggio e di cui lui non è nemmeno regista?

La sceneggiatura è senza dubbio efficace, soprattutto nel dosare momenti di humor e azione, e un netto miglioramento rispetto a quelle dei precedenti film DC come Batman vs. Superman e Suicide Squad. Tuttavia, resta l'appiattimento delle scelte narrative che sta diventando la vera piaga dei film di supereroi, e che poteva forse essere superata affidandosi a sceneggiatori nuovi e meno avvezzi alle logiche del cinecomic (magari donne, dato che parliamo di un'eroina femminile? Chissà cosa avrebbe potuto fare, che so, una Diablo Cody).

La sensazione che resta è quindi quella di un film che si apprezza perché ormai abituati alle peggiori aberrazioni filmiche (soprattutto da parte DC), il proverbiale monocolus in terra caecorum che riesce a sembrare un re. Peccato, perché il potenziale era alto, e un po' più di coraggio avrebbe dato ancora più forza ad alcune scelte azzeccate, segnando la definitiva redenzione dell'universo cinematico DC, anziché un film sufficiente, ma non in grado di scaldare i cuori.

***

Pier

lunedì 5 giugno 2017

Guardiani della Galassia Vol. 2 (In pillole #10)

Once more, without feeling



I Guardiani della Galassia sono ormai un team più o meno affiatato, ancora disfunzionale ma comunque in grado di portare a termine missioni pericolose. Proprio durante una di queste, Starlord incontra finalmente l'uomo che aveva sempre cercato: suo padre. Nel frattempo, anche gli altri personaggi devono fare i conti con la propria famiglia, di sangue o acquisita che sia.

Guardiani della Galassia era stato senza dubbio la grande sorpresa cinematografica del 2014, un film su un gruppo di supereroi sconosciuto che era riuscito a intrattenere e divertire secondo gli stilemi dei grandi film di genere degli anni Ottanta.

Il sequel riparte da lì, ma sembra aver parzialmente dimenticato la lezione che ha ispirato l'originale: al ritmo vengono spesso preferiti lunghi e inutili dialoghi introspettivi; alla creazione di personaggi a tutto tondo si è preferita la creazione di divertenti macchiette (Drax-Dave Bautista il più sacrificato in questo senso); e al mix tra leggerezza e serietà con cui veniva trattato il tema dell'emarginazione nel primo film si è preferito un susseguirsi di scene caciarone e chiassose, senza dubbio divertenti, ma raramente in grado di fare centro a livello emotivo (con una sola, rilevante eccezione).

In generale, Guardiani della Galassia vol. 2 è un sequel stanco, che non usa il primo capitolo per costruire qualcosa di nuovo, ma ne sfrutta fino allo sfinimento i punti di forza, risultando così un prodotto che intrattiene, certo, ma senza lasciare alcunché. Soprattutto, non approfondisce in modo adeguato il tema del gruppo-famiglia, che viene toccato solo superficialmente nel finale: un vero peccato, considerando che il tema è di facile lettura e trattazione, visto che ha fatto la fortuna di serial non certo autoriali come Fast & Furious.

Il film si distingue dal punto visivo da tutti gli altri film Marvel, grazie a un uso del colore finalmente brillante, sgargiante, quasi eccessivo, che però ben si confà alle strabordanti personalità dei protagonisti. Resta tuttavia l'unico elemento originale di un film che, ci scommettiamo, gli spettatori avranno dimenticato una settimana dopo averlo visto.

** 1/2

Pier