martedì 31 dicembre 2019

I nostri dieci migliori film degli Anni Dieci

Siamo arrivati alla fine del decennio, e per molti è tempo di bilanci. Solitamente questo sito si sottrae a questi giochini con liste ed elenchi, ma il calembour scorre potente nell'autore, che non ha potuto farsi sfuggire l'occasione di fare una top 10 degli anni Dieci.

Esaurita questa triste nota personale, veniamo alla lista. La premessa di rigore è che non è stato facile. Per nulla. Sono partito da una prima lista di trenta film, poi ridotta a quindici, e infine ridotta a dieci.

Alcune scelte sono state molto dolorose, ma alla fine hanno prevalso i film che, oltre ad aver ottenuto un buon giudizio su questo sito, rispettavano uno o più dei criteri che avevo scelto in partenza, proprio per evitare di farmi guidare dal cuore. Quelli che troverete qui di seguito non sono necessariamente i miei film preferiti del decennio (alcuni lo sono), ma film che rispettano questi criteri. Quali? Vediamoli insieme.

I film inclusi nella lista dovevano aver segnato in modo deciso o addirittura rivoluzionato il genere cui appartengono; dovevano parlare in modo efficace, magari anticipandolo, di un fenomeno (sociale, storico, antropologico, filmico) che ha segnato il decennio che sta per finire; dovevano, infine, rappresentare una cinematografia il più possibile vasta, sia in termini di genere che di paese, fermo restando l'inevitabile bias verso i film anglofoni. Alcuni dei film della lista rispettano tutti questi criteri, altri solo alcuni.

Senza ulteriore indugio, ecco i magnifici dieci di FilmOra, presentati in ordine cronologico di uscita, e accompagnati da una breve nota, oltre che dal link alla recensione (basta cliccare sul titolo del film). Alla fine dell'elenco troverete anche i film che sono entrati nella selezione ristretta di quindici, le nostre "menzioni onorevoli."

I Magnifici Dieci

1. The social network, di David Fincher


Nel decennio appena finito, in cui i social media (e Facebook in particolare) sono diventati sempre più pervasivi nelle nostre vite, tra fake news, fughe di dati, e la semplice condivisione di informazioni personali, è impossibile non inserire il film che per primo ha lanciato l'allarme sul potere derivante dal controllo di questi media. The social network è il Quarto Potere del nostro millennio e, pur mancando dell'afflato creativo del capolavoro di Welles, è dotato della sua stessa forza nel metterci di fronte ai pericoli derivanti dalla glorificazione del self-made man e del capitalismo, ignorando i pericoli di un tale potere economico in mano a personaggi dalle dubbie qualità umane e morali.


2. Inception, di Christopher Nolan


Christopher Nolan: pochissimi registi hanno segnato come lui l'immaginario del decennio appena trascorso. Si può amarlo, si può odiarlo, ma non si può rimanere indifferenti di fronte al suo cinema. Inception provocò addirittura un dibattito nella redazione di FilmOra, che sfornò non una ma due recensioni (che trovate qui e qui - la mia, con scarsa sorpresa dei miei amabili detrattori, è quella positiva). La cosa non è sorprendente: Inception è forse la summa del cinema di Nolan, della sua diabolica capacità di fondere cinema d'autore e blockbuster, portando sullo schermo meccanismi narrativi fino a quel momento scarsamente utilizzati e che da allora vantano infiniti tentativi di imitazione. Inception ha segnato il modo indelebile il genere thriller e di spionaggio, raccogliendo l'eredità di Hitchcock e portandola nel nuovo millennio (al punto che anche un grande come Scorsese non poté ignorarne la lezione). Non può, dunque che suscitare reazioni forti, anche grazie a un finale meraviglioso che fa discutere ancora oggi.


3. Habemus Papam, di Nanni Moretti


Rileggendo la recensione da me scritta per Habemus Papam ai tempi della sua uscita non ho potuto fare a meno di sorridere: quel finale, che già allora avevo trovato potente, si è rivelato profetico in modo quasi inquietante. La crisi di coscienza in un Papa sembrava impossibile, e invece nel 2013 Benedetto XVI si è dimesso. Nessuno avrebbe potuto prevederlo: nessuno, tranne Moretti, che con questo film firma un'altra opera profetica (non si dimentichi Il Caimano), e quello che ritengo il miglior film italiano del decennio.


4. The Master, di Paul Thomas Anderson


In un decennio segnato dall'ascesa (o, meglio, dal ritorno) dell' "uomo forte", di leader carismatici e demagoghi in grado di smuovere le masse con la loro retorica incendiaria ma efficace, capaci di plasmare a loro vantaggio la verità, il film di Anderson risuona con la forza delle profezie di Cassandra: una voce inascoltata (scarso il successo di pubblico) che attraverso una storia di ieri racconta il potere nel mondo di oggi con efficacia insuperata, usando immagini, suoni, e attori con la sapienza di cui sono capaci solo i grandi maestri.


5. Solo gli Amanti Sopravvivono, di Jim Jarmush


Nel 2008, Twilight debuttava al cinema. I vampiri diventano un fenomeno commerciale, e l'estetica e la narrativa di Twilight diventano il modello per una serie di film e prodotti audiovisivi senz'anima, volti solo a cavalcare l'onda. L'ultimo film della saga di Twilight esce nel 2012, e solo due anni dopo Jim Jarmush, uno dei registi più eclettici in attività, realizza Solo gli amanti sopravvivono: un film lirico, visivamente sontuoso, in cui i vampiri diventano i difensori di un'estetica perduta, soffocata dalla macchina insaziabile del capitalismo. Il film di Jarmush è un testimone fondamentale in un'epoca in cui il dibattito sul tema infuria, coinvolgendo anche grandi nomi del calibro di Scorsese, e dimostra come l'autorialità e l'Arte siano sempre possibili, anche in quei generi dove sembrava non ci fosse più nulla di originale da dire.


6. Behemoth, di Liang Zhao


Purtroppo mai uscito in Italia, Behemoth è un documentario rivoluzionario, una vera e propria opera d'arte che mostra tutte le potenzialità poetiche ed espressive di un genere troppo spesso sottovalutato e considerato "minore". Non posso far altro che parafrasare le poche righe che scrissi dopo averlo visto a Venezia nel 2015: "La Divina Commedia di Dante per raccontare il dramma della modernizzazione in Cina, dalla devastazione del paesaggio al lavoro inumano in miniera, passando per le città fantasma costruite nel mezzo del nulla. Un documentario potente, poetico ed evocativo, che non esito a definire un capolavoro."


7. Mad Max: Fury Road, di George Miller


Esattamente trent'anni dopo aver abbandonato la saga, George Miller è tornato a dirigere Mad Max, dopo aver dedicato le sue attenzioni a prodotti diversissimi come Babe: maialino coraggioso, L'olio di Lorenzo, Happy Feet. Il risultato è un film che distrugge le regole del cinema d'azione e le riscrive da capo, un capolavoro cinetico di energia futurista che mostra le infinite possibilità di un genere troppo spesso appiattito su stilemi e formule. La folle corsa di Max e Furiosa è uno spettacolo sontuoso ed epico, che funziona alla perfezione sia nella sgargiante versione a colori che nella cupa versione in bianco e nero. Ammiratelo.


8. La La Land, di Damien Chazelle


Il decennio passato è stato il decennio del lavoro sempre più incalzante, delle relazioni a distanza e della scelta, sempre più amara, tra amore e realizzazione professionale. È stato anche il decennio in cui abbiamo detto addio definitivamente al film hollywoodiano classico, ormai fuori dal tempo e fuori moda per un mondo che ha un altro impianto di valori. La La Land è il capolavoro che riesce a unire queste due anime: la splendida lettera d'addio a un'epoca, e al tempo stesso la perfetta descrizione dei nostri tempi, deprivati del romanticismo. Un film diventato iconico (come previsto), con le musiche e alcune scene che sono ormai patrimonio popolare, continuamente citate, usate, ricordate. Il Cantando sotto la pioggia dei nostri tempi, condito di un realismo amaro ma che arriva dritto al cuore.


9. SpiderMan: Un Nuovo Universo, di Bob Persichetti, Peter Ramsey, e Rodney Rothman


Chi mi conosce può immaginare quanto sia stato difficile per me non mettere un film Pixar come paladino dei film di animazione, ma l'obiettività rende impossibile non scegliere Spider-Man: Un nuovo universo come eccellenza nella categoria. In un'epoca in cui l'animazione in computer grafica sembrava aver trovato una cifra espressiva codificata, e le innovazioni apportate erano ormai solo incrementali, Spider-Man: Un nuovo universo ha sconvolto le regole del gioco, portando con sé un'innovazione visiva dirompente, seconda solo a quella portata dal primo Toy Story. La combinazione di diverse tecniche di animazione era già stata provata, ma mai su così vasta scala e con una così vasta commistione di stili, colori, linee, che risultano in un film degno di apparire in una mostra sulla pop art. Spider-Man segna un nuovo punto di partenza per l'animazione, e apre strade finora inesplorate che consentiranno la nascita di nuove forme espressive.


10. La Favorita, di Yorgos Lanthimos.


In un decennio segnato da una rinascita del movimento femminista, tra "Time's up" e #MeToo, il film di Lanthimos giunge come un amaro promemoria delle ragioni sistemiche e sociali che sono alla base della discriminazione di genere che ancora esiste nella società. Con il consueto mix di tragico, grottesco, e comico, e sorretto da una fotografia sontuosa, Lanthimos mette a nudo il sistema partriarcale che fa sì che nemmeno una regina possa dirsi veramente libera. Un film storico che parla al presente, e invoca un cambio sistemico epocale che nessuno sembra essere intenzionato a mettere in atto.


Menzioni onorevoli

I film che sono quasi entrati in top 10, presentati senza un ordine particolare.

1. Logan, di James Mangold. Il miglior esempio di film di superereoi autoriale, con un perfetto bilanciamento tra visione registica innovativa, spettacolarità, e rispetto del materiale di partenza.

2. Moonrise Kingdom, di Wes Anderson. Molte liste di questo genere riportano il più spettacolare Grand Budapest Hotel, ma a mio parere Moonrise Kingdom rappresenta al meglio non solo la poetica di Wes Anderson, ma anche i nostri tempi, in cui i più giovani si battono per cambiare una realtà devastata da adulti stolidi e assenti.

3. Inside Out, di Pete Docter. Un film che parla di e genera emozioni, portandoci a spasso per la nostra mente come solo la Pixar sa fare, con il giusto bilanciamento di risate e commozione, reale e fantastico. Docter riesce a far sembrare "semplice" una tematica super complessa, creando l'ennesimo mondo in cui immergersi ancora, e ancora, e ancora.

4. One More Time with Feeling, di Andrew Dominik. Un documentario atipico, girato quasi interamente in interni ma con il respiro visivo di un western di John Ford, che ci trascina in un viaggio al centro della musica, ma anche del lutto e del grande male del nostro tempo: la depressione.

5. C'era una volta a... Hollywood, di Quentin Tarantino. Un film che è la summa di Tarantino e del suo modo di intendere il cinema, e al tempo stesso il suo film più innovativo da decadi. Una favola moderna pervasa di nostalgia, in cui il sogno prende il sopravvento sulla realtà, e tutto appare dorato come non lo è mai stato.

Pier

domenica 29 dicembre 2019

Tesori nascosti - #2

Torna "Tesori nascosti", la rubrica che segnala film meritevoli di recupero passati inosservati o quasi in Italia.

Ogni film è corredato di voto, informazioni su dove reperire il film, e di un breve commento o un link alla nostra recensione.



1. Sing street, voto 9.
Genere: commedia drammatica/musicale
Anno: 2016
Regista: John Carney
DVD: sì, edizione italiana
Streaming: Prime Video.
Commento: un film sul passaggio da infanzia e adolescenza nella povertà della Dublino degli anni Ottanta, con al centro una scalcagnata band di ragazzini che non può non conquistare il cuore dello spettatore. Una storia d'amore a tempo di musica, con una colonna sonora magnifica, capace di alternare risate ed emozioni, soprattutto nello splendido finale.

2. Safety not guaranteed, voto 8.
Genere: commedia, fantascienza
Anno: 2016
Regista: Colin Trevorrow
DVD: sì, edizione inglese
Streaming: no.
Commento: un film di fantascienza atipico, in cui una giornalista cerca di rintracciare l'autore di una stramba inserzione sul giornale rivolto a un potenziale compagno d'avventura per un viaggio nel tempo. Quando lo trova, il loro incontro/scontro dà vita a un confronto tra due solitudini, e le certezze della giornalista cominciano a vacillare: forse è davvero possibili viaggiare nel tempo? Esordio alla regia per Colin Trevorrow.

3. Scialla!, voto 7.5.
Genere: commedia
Anno: 2011
Regista: Francesco Bruni
DVD: sì, edizione italiana
Streaming: RaiPlay
Commento: un rapporto tra studente e professore alla Scoprendo Forrester, con una spontaneità e una vitalità che conquistano. Qui la recensione estesa.

4. Bassa marea (Low Tide), voto 8.
Genere: drammatico
Anno: 2012
Regista: Roberto Minervini
DVD: no
Streaming: Prime Video
Commento: regista italiano, ma ambientazione USA per questo film semplice ma potente, che racconta con tocco delicato la vita senza affetto di un bambino della provincia texana, costretto a tirare avanti in un ambiente ostile e senza prospettive. Finale da applausi.

5. L'intervallo, voto 7.5.
Genere: drammatico
Anno: 2012
Regista: Leonardo Di Costanzo
DVD: sì, edizione italiana
Streaming: a noleggio su vari servizi
Commento: la giornata particolare di due ragazzini di Napoli, in cui uno di loro si ritrova carceriere gentile dell'altra, sequestrata dal boss camorrista del quartiere. Abbandonati a se stessi all'interno di una villa abbandonata che diventa un mondo a parte e da esplorare, i due si confideranno sogni, segreti e speranze per un futuro migliore. Un piccolo gioiello, coadiuvato da una fotografia in luce naturale ai limiti della perfezione.

6. Spring Breakers, voto 9.
Genere: commedia drammatica
Anno: 2012
Regista: Harmony Korine
DVD: sì, edizione italiana
Streaming: Netflix
Commento: quello che sembra un college movie a base di sesso, alcool e droga si rivela ben presto essere una lucida e spietata analisi del lato più oscuro del sogno americano. Qui la recensione estesa.

7. We are the best!, voto 7
Genere: commedia drammatica
Anno: 2013
Regista: Lukas Moodysson
DVD: sì, edizione italiana
Streaming: a noleggio su vari servizi
Commento: tre amiche unite dall'amore per il punk per uno di quei rari film che parlano dei primi anni dell'adolescenza con dolcezza e delicatezza. Qui la recensione estesa fatta per Nonsolocinema.

Pier

martedì 24 dicembre 2019

Star Wars Episodio IX vs. Episodio VIII: Un confronto filmico

Episodio IX - L'ascesa di Skywalker è appena atterrato nelle sale, e già rischia di passare alla storia come il film con la peggior ricezione di pubblico e critica di questa trilogia: primo film della nuova trilogia a ottenere un rating inferiore ad A su CinemaScore 1, unico a ricevere voti dei critici aggregati inferiori al 6 su Metacritic e RottenTomatoes, peggior incasso della trilogia.

Il film arriva dopo Gli Ultimi Jedi, film che fu peculiarmente accolto benissimo dai critici e, in teoria, malissimo dal pubblico in quanto troppo distante dal canone di Guerre Stellari (ma si veda la nota a fine articolo al tal proposito).

Questo articolo si propone di spiegare perché, a livello puramente filmico, Episodio IX è un film più povero di Episodio VIII. Non ci concentreremo sul "cosa", ma sul "come": per fare un paragone un po' azzardato, non ci concentreremo sulla storia raccontata nel libro, ma cercheremo di capire se il libro è scritto rispettando le regole della grammatica e della sintassi, e soprattutto se sia in grado di comunicarci la visione del suo autore.

Presenterò tre ragioni principali: non sono le uniche, ma sono quelle più evidenti e più meritevoli di discussione.
L'esercizio può sembrare gratuito, ma non lo è, perché ci permette anche di fare una riflessione su cosa sia il cinema di intrattenimento oggi, su cosa davvero significhi essere "rispettosi" di una saga e dei fan, e sul perché esistono discrepanze tra il giudizio di critici e pubblico. Ci offre la possibilità, insomma, di parlare di cinema e di critica cinematografica.

Questo non significa che ci sia nulla di male nell'apprezzare di più Episodio IX: le categorie del gusto sono soggettive e insindacabili. Se qualcuno si è emozionato di fronte al ritorno di Lando o alla rivelazione sulle origini di Rey, nessuno ha diritto di demonizzare questa posizione. Tuttavia, questo articolo cercherà di esulare dal gusto personale per concentrarsi su elementi oggettivi come l'occhio del regista e il rispetto della grammatica cinematografica.

Pronti? Allacciate le cinture, andiamo a incominciare.



1. Visione registica
Anche chi ha detestato Episodio VIII ha riconosciuto che Johnson aveva una visione registica molto forte. Ne abbiamo già parlato in dettaglio, quindi non ci dilungheremo: l'idea centrale del film era quella del superamento del passato. L'attaccamento ai genitori, la mitizzazione dei maestri e della loro epoca, le paure, le esperienze e i legami emotivi che ci impediscono di crescere e maturare: tutti i personaggi si trovavano ad affrontare un percorso che li costringeva a fare conti con il proprio passato e a liberarsi di alcuni fardelli. Il tema veniva declinato in moltissimi modi, sia narrativi che visivi: Luke che lancia via la spada laser, e Kylo che vede Luke ancora come lo ricordava e non si rende conto del trucco sono solo due esempi. Questa visione non può esulare da un abbandono del passato anche a livello metatestuale, avviando un processo di svecchiamento e innovazione che legittimamente non è piaciuto a molti fan (alcuni, molto meno legittimamente, hanno deciso di esprimere il proprio disappunto con minacce e petizioni senza senso - ma questa è un'altra storia).

La visione del film di Abrams è invece erratica, sparpagliata, indecisa: in una parola, assente. Difficile, se non impossibile, capire quale sia il tema portante di Episodio IX: "la scoperta delle origini di Rey" non è infatti un tema, ma un espediente narrativo per portare avanti la trama. Persino le implicazioni della scoperta di queste origini, come vedremo, sono quasi del tutto ignorate. La trama avanza a colpi di deus ex machina, senza un vero filo conduttore, e i personaggi sono sballottati da un pianeta all'altro, da un pericolo all'altro, senza che ci sia davvero possibilità di iniziare un discorso e portarlo fino in fondo. L'unico tema identificabile diviene quello di "rispondere alle critiche dei fan online", e persino a livello visivo Abrams non riesce a lasciare una sua impronta, cosa che gli era invece riuscita, e pure bene, in Episodio VII.


2. Sviluppo dei personaggi
Abrams aveva gettato delle basi interessantissime per i suoi tre protagonisti in Episodio VII: un soldato disertore, programmato per combattere e desideroso di fuggire e vivere in pace; una cercatrice di rottami dalle origini misteriose, incredibilmente dotata nell'uso della Forza; e un figlio reietto degli eroi di un tempo, un villain atipico, tentato dal lato chiaro laddove Anakin era tentato dal lato oscuro. Il grande merito di Abrams in Episodio VII era stato proprio questo: riabbracciare il passato, ma al tempo stesso proiettare la saga verso il futuro con nuovi personaggi dall'alto potenziale drammatico e narrativo (al punto che molti ritengono i primi 20 minuti, in cui non compaiono le vecchie conoscenze, i migliori del film).

Episodio VIII faceva sue queste suggestioni e le portava avanti con coerenza, anche se in direzioni diverse da quelle che era lecito aspettarsi. Finn, attraverso il controverso viaggio sul pianeta casinò (anche qui, ne abbiamo già parlato) riscopriva cosa significa fidarsi di qualcuno e battersi per una causa in cui crede, e non per un esercito che lo ha coscritto e suggestionato per fare di lui una macchina da guerra. Rey scopriva qualcosa di più su se stessa, ma soprattutto sul fatto che il suo destino era nelle sue mani, non in quelle di altri, muovendosi a tentoni verso una migliore conoscenza di sé e delle sue ambiguità: le scene di tentazione "a distanza" con Kylo rappresentano una delle migliori intuizioni di Johnson, una novità che si inserisce alla perfezione nella tradizione dei poteri Jedi. Kylo, infine, era tormentato dall'omicidio del padre, ma al tempo stesso lacerato dal desiderio di potere: la sua non-redenzione dopo la morte di Snoke compiva la sua consacrazione a nuovo villain della saga, e la sua resa alla sua rabbia e alla sua brama di autoaffermazione.

In Episodio IX l'arco dei personaggi nel migliore dei casi si blocca, e in altri viene del tutto distrutto, come se Abrams si fosse dimenticato di ciò che lui stesso ha scritto. Finn è talmente inconsistente da essere quasi inesistente, una spalla indistinguibile da Poe se non per il suo legame con Rey, e che sembra aver del tutto dimenticato il suo passato e i suoi traumi. Rey sembra bloccata, in stasi: la rivelazione sulle sue origini e i suoi poteri da "lato oscuro" offrirebbero la possibilità per un percorso parallelo e speculare a quello di Kylo, ma questa interessante suggestione viene ridotta a una visione di "dark Rey" abbastanza imbarazzante per resa visiva e contesto narrativo.

Kylo, infine, reagisce alla notizia del ritorno di Palpatine in maniera del tutto incoerente: un ragazzo roso dall'ambizione come lui, ossessionato dalla soppressione del passato ("uccidilo, se devi", declamava in Episodio VIII), decide di allearsi di punto in bianco con un Palpatine debole e mantenuto in vita dalle macchine, con il rischio evidente di vedersi messo da parte per Rey, vista la parentela tra i due. La gestione del rapporto tra Palpatine e Kylo è pedestre, e non sfrutta appieno il potenziale offerto dal fatto che fosse proprio Kylo a rivelare a Rey le sue (presunte) oscure origini: sarebbe stato più convincente, ad esempio, che Kylo fosse stato in combutta con Palpatine, e quindi al corrente dell'identità di Rey, fin dall'inizio, con Snoke a fare da specchietto per le allodole in un piano per condurre Rey al lato oscuro. Ancor peggio gestito è il rapporto tra Rey e Kylo, che rinuncia alla palpabile tensione sessuale e repulsione valoriale di Episodio VIII per abbracciare una più convenzionale schermaglia tra lato oscuro e lato chiaro, pallida eco di quella tra Darth Vader e Luke Skywalker nella trilogia originale, o tra Palpatine e Anakin nella trilogia prequel. Il bacio finale tra i due, per quanto emotivamente forte per quanto accade dopo, ha un decimo della tensione (erotica e non solo) del tocco tra le loro mani in Episodio VIII.



3. Fotografia e immagini
E veniamo all'elemento che, pur essendo il punto forte di Episodio IX, è anche quello dove il confronto con il predecessore diviene quasi imbarazzante: il comparto visivo. Episodio VIII ha regalato alcuni dei momenti visivi migliori della saga, dalla stanza del trono di Snoke al pianeta di sale, passando per il duello tra Luke e Kylo, ripreso in campo lungo come i duelli tra samurai di Kurosawa, una vera rivoluzione per la saga. Questi momenti venivano dispensati con cura, attraverso inquadrature ampie e ariose, con un sapiente uso del fuoco e della disposizione di personaggi e oggetti tra primo e secondo piano per creare profondità di campo. Questo dava tempo all'occhio dello spettatore di incamerare tutta la meraviglia e l'inventiva dell'immagine.

Un momento preparatorio, con inquadratura ampia, che fa crescere la tensione per lo scontro imminente.

Episodio IX ha momenti altrettanto spettacolari (il "parlamento" Sith, il combattimento in mezzo al mare) ma li butta via: le inquadrature sono affrettate, dal respiro corto, sacrificate sull'altare del ritmo frenetico che pervade tutto il film. Il tempo di realizzare cosa si sta vedendo e l'inquadratura è già scomparsa, passando a un primo piano, a un montaggio frenetico, a un altro pianeta. Il combattimento in mare è il duello principale del film, e viene coreografato in modo banale, senza darci modo di assaporare veramente la location e la posta in gioco per i due personaggi.

"E... Stop. Buona la prima, passiamo al prossimo pianeta."

Che la causa di questo "sacrificio" sia la fretta è indubbio, perché Abrams in Episodio VII ci aveva regalato inquadrature davvero magnifiche, con un'attenzione enorme per i giochi luci-ombra, come nella scena dell'omicidio di Han Solo, quando sull'esitazione di Kylo la luce vira per un secondo al blu, prima di tornare a essere rosso cupo nel momento in cui Kylo si risolve a uccidere il padre.

4. Conclusione
Per riassumere i tre punti precedenti, mi concentrerò su due scene dei due film - due scene che, a mio gusto personale, non sono nemmeno tra le migliori dei rispettivi episodi: la famosa "gita" a Canto Bight di Episodio VIII, e quella su Kijimi di Episodio IX. Ambedue i viaggi sono giustificati da un MacGuffin - rintracciare il personaggio di Benicio Del Toro in Episodio VIII, resettare la memoria di C-3PO in Episodio IX; ambedue i viaggi si incentrano su uno dei personaggi (Finn a Canto Bight, Poe a Kijimi). Laddove però il viaggio a Canto Bight rappresenta un punto cruciale per la crescita e maturazione di Finn (anche qui, ne abbiamo già parlato), il viaggio su Kijimi ci rivela solo nuovi elementi del passato di Poe, senza che questi vengano poi ripresi o che abbiano alcun effetto sull'evoluzione del personaggio. A che pro, quindi, introdurre nuovi indizi su un personaggio comunque secondario, per di più nel capitolo conclusivo?

A livello visivo, il confronto tra i due pianeti è impietoso: Canto Bight paga omaggio all'estetica della trilogia prequel, ma lo fa realizzando un sontuoso casinò in stile Belle Epoque, fotografato con una luce da quadro d'epoca e dotato di una sua personalità ben definita. Kijimi è l'ennesimo pianeta ghiacciato, e ciò che vediamo nel film è difficilmente distinguibile da un qualunque altro pianeta periferico visto nella saga, tra rottami, pattuglie del Primo Ordine, e squallore diffuso.

Un quadro di fine Ottocento

Un Power Ranger a spasso per Guerre Stellari

Eccoci quindi arrivati alla fine del confronto.

Perché, potreste chiedervi, condurre un'analisi di questo tipo?
Il motivo è semplice: in un'epoca in cui il cinema di intrattenimento la fa da padrone, e si susseguono polemiche sul tema (vedi le recenti uscite di Martin Scorsese sui film Marvel), questo confronto ci permette di vedere le differenze tra un prodotto di intrattenimento girato comunque con una precisa visione autoriale e uno girato senza visione e senza anima, con il solo scopo di intrattenere sul momento, senza lasciare alcuno spunto di riflessione ai fan. La visione di Episodio VIII può non piacere (rientriamo, appunto, nel campo del gusto), ma è evidente anche ai detrattori: la stessa reazione "piccata" dei fan è testimone del fatto che ci troviamo di fronte a qualcosa di preciso e definito. Episodio IX, invece, è cinema di intrattenimento di livello medio-basso, che non solo non ha una visione, ma manca proprio di quella coerenza di trama che sta alla base dell'intrattenimento di qualità.

In un'epoca in cui finalmente il cinema di genere sta ottenendo una sua dignità filmica (dopo anni di battaglie anche da parte della critica, si vedano siti come I 400 calci e Il Cineocchio), è davvero triste che un film di una saga gloriosa come Guerre Stellari scelga la strada "facile" dell'intrattenimento per stordimento - tanto più che Guerre Stellari, anche nei momenti peggiori come la trilogia prequel, si è sempre caratterizzata per il coraggio e la voglia di sperimentare, indicando nuove strade a industria e pubblico. Il gusto del pubblico potrà premiarlo - anche se, per ora, i segnali vanno in direzione opposta - ma speriamo di avervi spiegato perché, al di là dei legittimi gusti personali, tra i due film ci sia un abisso qualitativo dal punto di vista puramente cinematografico.

Pier


1: considero CinemaScore, e non il voto dell'audience di RottenTomatoes, perché quest'ultimo è facilmente manipolabile da bot e attacchi coordinati, come documentato qui. Se volete verificare da soli, Episodio VIII offre un perfetto esempio: il voto del pubblico de Gli Ultimi Jedi su IMDB è pari a 7.1 sulla base di 498.314 review - molto più in linea con il voto "A" di CinemaScore, e distantissimo dal 43% di RottenTomatoes. Questa discrepanza non può che essere spiegata con l'uso massiccio di bot e attacchi mirati sul più noto (e più "fragile") RottenTomatoes.


giovedì 19 dicembre 2019

Star Wars: Episodio IX - L'ascesa di Skywalker

(Non) finire ciò che si è iniziato


La resistenza è ridotta allo stremo, e il Primo Ordine dilaga sotto il nuovo comando di Kylo Ren. La galassia, tuttavia, viene turbata da una nuova minaccia. Da un suo angolo remoto e oscuro giunge una voce dal passato: è l'imperatore Palpatine, creduto morto, che giura vendetta! Sia Kylo Ren che Rey e quel che rimane della resistenza si mettono quindi sulle tracce del redivivo imperatore, anche se con scopi molto differenti.

Finire una saga non è mai facile: le aspettative sono elevatissime, e il rischio di lasciare i fan insoddisfatti è sempre molto alto. La missione è ancora più difficile se la saga in questione è la più popolare e longeva di sempre, quel Guerre Stellari che ha fatto sognare intere generazioni di spettatori, le cui aspettative hanno finito per stritolare persino il creatore stesso della saga. A questo aggiungiamoci il fatto di dover subentrare in corsa in un progetto che inizialmente avrebbe dovuto dirigere Colin Trevorrow, e il dover dar seguito a quel Gli ultimi Jedi che, se a parere di chi scrive è stato il migliore della nuova trilogia e una necessaria boccata d'aria fresca nella saga, a molti fan non è piaciuto proprio per nulla (ne abbiamo parlato in dettaglio qui).

Non era dunque facile la missione che attendeva J.J. Abrams, che aveva rilanciato con successo la saga firmando il primo capitolo della nuova trilogia, un mix ben riuscito tra la necessità di introdurre i nuovi personaggi (e, con loro, la saga a chi non la conosceva) e rassicurare i fan della prima ora sul fatto che avrebbero ritrovato le atmosfere amate. Chiamato all'impresa improba di cui sopra, Abrams ha risposto alla stessa maniera: rassicurando i fan. Laddove questa scelta aveva perfettamente senso in un primo capitolo che arrivava dopo anni di silenzio, la stessa scelta crea però problemi notevoli in un capitolo conclusivo, che dovrebbe tirare le fila di quanto visto fino a quel momento, senza introdurre troppi elementi nuovi in termini di personaggi e linee narrative. Abrams invece si fa prendere la mano dal fan service che aveva saputo così abilmente maneggiare in precedenza (anche fuori da Guerre Stellari), inserendo una serie di citazioni e ritorni eccellenti che sono soddisfacenti sul momento, ma che male si integrano con la trama del film e con la macrotrama della trilogia.

Questa ansia di compiacere i fan si traduce in un film ipercinetico ma troppo affrettato e frammentato, divertente in superficie ma con poca sostanza, che non lascia un attimo di respiro allo spettatore ma nemmeno ai personaggi e, soprattutto, alla trama, così densa di eventi e rivelazioni. I momenti potenzialmente emotivi vengono smontati poco dopo, e la ripetizione continua degli stessi meccanismi di suspense toglie progressivamente pathos alle successive situazioni dello stesso tipo.

Non aiuta che il fan service includa anche il rigetto ex post di alcune scelte di Johnson, che invece aveva costruito (per quanto a modo suo) sulle fondamenta gettate dallo stesso Abrams. La cosa di per sé non sarebbe un problema, dato che colpi di scena e ribaltamenti di prospettiva sono da sempre al cuore di Guerre Stellari (anche se, a parere di chi scrive, Abrams decide di rigettare una delle intuizioni migliori). Tuttavia, Abrams non dedica abbastanza tempo alla costruzione dei colpi di scena, né lascia agli spettatori il tempo per elaborarle e farle decantare: il risultato è un film che, se può soddisfare nel "cosa succede", lascia molto a desiderare sul "come" vengono costruiti e preparati i vari momenti chiave, con molte scelte che risultano inconsistenti e molto poco giustificate.


La scelta stessa di "resuscitare" Palpatine (già presente nel trailer) sembra appiccicata all'ultimo momento su una trama che sembrava destinata a una direzione diversa, e risulta così solo parzialmente soddisfacente: passato l'ovvio effetto nostalgia, resta pochino, e anzi ci si rende conto di come, per inseguire il ritorno a effetto, si sia di fatto demolito uno dei pilastri mitologici di Guerre Stellari (più riuscito e convincente, invece, il ritorno di Lando, protagonista di alcuni dei momenti migliori del film).
Anche a causa di questa orgia di citazioni, rimandi, e colpi di scena forzati, l'evoluzione dei personaggi subisce una brusca battuta d'arresto, con il solo Kylo Ren a mantenere una parvenza di profondità, anche se il sospetto è che sia più per le doti recitative di Adam Driver (splendida, a livello emotivo, la sua ultima inquadratura) che grazie alla sceneggiatura.

Se Abrams perde un po' le fila della trama, non perde mai il controllo della sua creatura dal punto di vista visivo. Chi ama Guerre Stellari per la ricchezza visiva e inventiva nella creazione di alieni, pianeti, e astronavi non rimarrà deluso: il racconto per immagini è ricco, immaginifico e appagante, soprattutto nelle scene chiave, in cui riesce a regalare quelle emozioni e quei brividi che la trama invece offre solo raramente.

L'ascesa di Skywalker è una conclusione in tono minore della nuova trilogia, più per il percorso che segue che per le tappe che tocca. La fretta e la presenza di molti elementi non funzionali alla vicenda principale fanno sì che l'impatto emotivo sia notevolmente ridotto rispetto a quanto avrebbe potuto essere, e che la spinta innovativa che Episodio VIII aveva saputo creare (nel bene o nel male) venga subito esaurita in un ritorno alle origini e al "classico" che risulta però posticcio.
Rimane quindi un'occasione mancata di chiudere al meglio una trilogia che aveva comunque saputo creare nuovi temi e personaggi senza necessariamente sacrificare quelli del passato, e che anzi aveva saputo fare della tensione tra passato e presente uno dei suoi punti chiave. L'ultimo film chiude l'arco narrativo senza lasciare questioni irrisolte, ma lo fa in una maniera che finisce per deformare la strada seguita finora e tornare goffamente sui suoi passi - una brusca inversione a U che lascia un senso di incompiutezza laddove dovrebbe esserci appagamento.

Sopravvive, tuttavia, la magia di Guerre Stellari, capace di emozionare anche al termine di eventi che a livello razionale non convincono, ma che, grazie alle immagini, alla nostalgia, o alla Forza, riescono comunque in alcuni momenti ad arrivare al cuore.

 ** 1/2

Pier

1: Non è uno spoiler, dato che Palpatine è già annunciato nel trailer, ma leggete con cautela. 
Un amico (grazie, N.G.) mi ha fatto giustamente riflettere su un punto chiave: il fatto che Palpatine sia ancora vivo significa che Anakin non era l'eletto, dato che non lo ha ucciso e dunque non ha riportato l'equilibrio nella Forza. Un cambiamento non da poco, e un tradimento della Saga ben più grave di quelli imputati a Rian Johnson. Strano che nessuno dei fan duri e puri (me compreso, sia chiaro) abbia sollevato tale obiezione già alla visione del trailer. 

domenica 15 dicembre 2019

Parasite

Memorie dal sottosuolo



Ki-woo e la sua famiglia vivono in un appartamento malandato all'interno di un seminterrato. Sia lui che la sorella Ki-jung che i genitori, Ki-taek e Chung-sook, sono senza lavoro, e si devono arrangiare con piccoli lavoretti ed espedienti. Quando un amico di Ki-woo gli offre l'opportunità di sostituirlo come insegnante di inglese per la figlia dei Park, una ricca famiglia locale, Ki-woo intuisce la possibilità di migliorare non solo la sua condizione, ma anche quella della sorella e dei genitori.

La lotta di classe non è certo un tema nuovo per il cinema: potrebbe sembrare difficile trovare qualcosa di nuovo da dire, eppure il nostro tempo sembra tristemente fecondo di idee per chi vuole indagare queste dinamiche. Non è un caso che la disuguaglianza e la cecità sociale siano al centro di molti dei film più riusciti di questi ultimi anni, né che i film che raccontano questi temi raccolgano consensi, ma anche miopi critiche. Tuttavia, nonostante la presenza di numerose prove di valore intorno a questo tema, la voce di Bong Joon-ho - che aveva già affrontato il tema con successo in Snowpiercer - emerge con una travolgente forza distintiva, frutto della sua abilità di raccontare per immagini, di unire con efficacia generi molto diversi, ma soprattutto di "portare a spasso" lo spettatore in un labirinto pieno di sorprese, in cui raramente si riesce a prevedere cosa succederà dopo.

I primi minuti del film sembrano una rielaborazione in salsa coreana della grande commedia all'italiana, e in particolare di film come I soliti ignoti: un gruppo di protagonisti alla fame, costretto a campare di espedienti, che elabora un piano per elevare la propria condizione a danno di dei ricconi un po' ingenui. Bong Joon-ho ci fa affezionare in fretta ai suoi protagonisti grazie a un tono leggero e comico, ma anche all'efficace presentazione della loro miseria: le prime scene sono costrette nei confini quasi soffocanti del loro lurido appartamento seminterrato, e il regista riesce efficacemente a immergerci nel sudiciume, nel caldo, e nella puzza in cui sono costretti a vivere.
L'anabasi verso la casa dei Park diviene quasi una liberazione, che libera i personaggi ma anche lo spettatore dallo squallore per proiettarli verso l'alto e verso una casa che sembra letteralmente fatta di luce.

La simpatia per i protagonisti non viene meno nemmeno quando, nell'eseguire il loro piano, cominciano a compiere azioni moralmente dubbie: se i Park sono ingenui ma talmente ricchi da non poter realmente essere percepiti come vittime, i due servitori che Ki-woo e Ki-jung fanno licenziare per dare il loro posto al padre e alla madre sono "innocenti", e rischiano di subire gravi conseguenze economiche per aver perso il posto. La simpatia dei protagonisti ci fa però sorvolare su questi dettagli, fino a quando Bong Joon-ho non ce li risbatte in faccia con violenza, attraverso una sequenza mozzafiato che trasforma il film, stravolgendo le aspettative di personaggi e spettatori. Difficile dire di più senza fare spoiler, quindi mi limiterò a dire che la seconda parte del film è una catabasi che rappresenta il degno contraltare all'anabasi della prima parte, in cui la realtà torna alla ribalta in tutta la sua fisicità, obnubilando tutti i sensi.

Dopo una prima parte leggera e luminosa, Bong Joon-ho realizza un secondo e un terzo atto di una forza visiva dirompente, di sapore quasi biblico, in cui tutti i peccati tornano con violenza a galla e le vere identità vengono svelate. In piena coerenza con il proprio stile, Bong Joon-ho non rappresenta la violenza in modo negativo né positivo, ma semplicemente come un dato di fatto, un elemento centrale nel mondo che regola e sconvolge i rapporti umani.

Parasite è uno di quei film in cui la mano del regista è evidente e invisibile al tempo stesso, in quanto riesce ad assemblare ogni elemento in un unicum coeso e corale: attori, fotografia, sceneggiatura, tutto concorre alla creazione di un meccanismo perfetto, in cui ogni ingranaggio è sincronizzato con maestria e nulla è fuori posto. La genialità di Bong Joon-ho sta nella capacità di evitare la freddezza che spesso caratterizza questi film "perfetti", riuscendo a inserire l'imprevedibile e l'imponderabile e a fonderli nel suo meccanismo.

Il risultato è un film dirompente per impatto sia mentale che emotivo, che racconta una storia che è anche una metafora dei nostri tempi, ma riesce a far sì che la metafora non divenga troppo ingombrante, ma rimanga sempre sullo sfondo, nascosta, un'immagine visibile agli occhi ma che la mente non sempre riesce a registrare. A voler essere pignoli, nel finale il film perde forse un po' dell'umanità della prima parte, allontanandoci dai protagonisti in un momento in cui vorremo stare loro vicini, per giustificarli o per giudicarli, e dunque perdendo un po' di impatto emotivo. Si tratta però di un difetto davvero veniale in un'opera maestosa, che dimostra come sia ancora possibile fare un cinema in grado di emozionare, divertire, stupire, e far riflettere.

**** 1/2

Pier

domenica 8 dicembre 2019

Storia di un matrimonio

Quando il divorzio non è un fallimento



Charlie, regista di teatro, e Nicole, sua moglie e prima attrice, si stanno separando. Lui lavora a New York, lei vuole trasferirsi a Los Angeles, dove è cresciuta, per riprendere quella carriera televisiva interrotta per seguire Charlie. Inizialmente intenzionati a separarsi senza andare per vie legali, i due si ritrovano invece invischiati in una battaglia per l'affidamento del figlio che riporterà a galla ricordi dolorosi e li costringerà a confrontarsi con la prospettiva dell'altro su ciò che è stata realmente la loro storia.

Noah Baumbach è uno di quegli autori che sono famosi per ragioni imprecisate. Enfant prodige del cinema indipendente americano quasi per autoacclamazione, il suo cinema è finora spesso sembrato una pallida copia di quello di Woody Allen, con la parziale eccezione del film in cui la compagna-musa Greta Gerwig - a parere di chi scrive ben più degna di acclamazione di lui - ha deciso di illuminare il pretenzioso e vuoto didascalimo baumbachiano con la sua capacità nel raccontare emozioni e sentimenti reali.

Dopo anni di convivenza e partnership artistica, Baumbach sembra aver finalmente appreso la lezione della compagna: Storia di un matrimonio è un film finalmente scevro di manierismi, intellettualismi, e autocompiacimento, che racconta una storia intima, emozionante, e vero. Baumbach si spoglia della sua autocucita veste di narratore delle nevrosi contemporanea per tuffarsi in una vicenda parzialmente autobiografica, un divorzio doloroso che segna la fine di un sodalizio personale e artistico. Il regista fa centro decidendo di offrire (per quanto possibile, essendo lui parte coinvolta) la prospettiva di ambedue i coniugi, evitando così l'errore di Kramer contro Kramer, che finiva per concentrarsi prevalentemente sul padre.

Il film inizia con un meraviglioso espediente narrativo che, se all'inizio appare come un puro esercizio di stile, assume invece un forte significato con il prosieguo del film, in cui il non detto diventa la barriera più forte tra i due coniugi. Inizialmente intenzionati a separarsi amichevolmente, infatti, Charlie e Nicole finiscono preda di una serie di forze centrifughe che li portano a concentrarsi sui ricordi negativi, distorcendo o dimenticando come ciascuno dei due sia stato fondamentale per la crescita personale e professionale dell'altro. È più facile ricordare i torti che i momenti di arricchimento reciproco, i difetti piuttosto che i pregi: la memoria tradisce e inganna, ma è solo dal ricordo dei momenti felici che può arrivare la risoluzione del conflitto. Storia di un matrimonio è un film che fa del ricordo la sua cifra e la sua lente, concentrandosi sulle storie che raccontiamo a noi stessi e agli altri, e come queste spesso diventino talmente distanti da sembrare due narrazioni completamente estranee.

La cecità viene soprattutto da Charlie, che dal momento del matrimonio è cresciuto fino a diventare uno dei registi più stimati del panorama teatrale statunitense: immerso nelle sue routine e nella città che ama, non si accorge che i suoi desideri non sono necessariamente quelli di Nicole. La sua inconsapevolezza è una sottile forma di violenza, ma non può accorgersene se non con il distacco. Il momento della realizzazione è traumatico, e non può essere altrimenti: la violenza esplode, verbalmente e fisicamente, e attraverso questo momento di degradazione personale Charlie acquisisce contezza di ciò che è successo, del vero motivo per cui Nicole vuole un divorzio e vuole tornare a Los Angeles. Al tempo stesso, Charlie è vittima di un sistema "giusto", disegnato per proteggere le donne da mariti violenti, ma che finisce per allontanarlo artificialmente da suo figlio.


Proprio la causa legale costituisce il cuore del film, con tribunali e avvocati che finiscono per alienare, anziché avvicinare, i coniugi, distruggendo quello scudo di rispetto e affetto reciproco e facendoli scivolare in un imbarbarimento dei rapporti che pare non necessario quanto inevitabile. Laura Dern e Alan Alda rappresentano due estremi opposti ma complementari del sistema: se a pelle è impossibile non simpatizzare con il personaggio di Alda, che sembra genuinamente interessato alla riconciliazione, demonizzare l'avvocatessa rampante della Dern sarebbe profondamente sbagliato. In un monologo memorabile per scrittura e interpretazione, la Dern mette a nudo le contraddizioni di un rapporto all'apparenza idilliaco e paritetico, ma che in realtà è cresciuto a spese dell'individualità di Nicole, cannibalizzandone le ambizioni.

 Al centro di questo bandolo di emozioni ci sono due attori in stato di grazia: Adam Driver dimostra un range emotivo ed espressivo impressionante, dimostrando capacità comiche, drammatiche e di canto da grandissimo attore. Un paio di suoi momenti sono da applausi a scena aperta e, se non fosse per la presenza di Joaquin Phoenix tra i rivali, da Oscar istantaneo. Scarlett Johansson è forse alla miglior prova della sua carriera, in una prova in crescendo che va di pari passo con la consapevolezza del suo personaggio, cui riesce a donare un giusto mix di dolcezza e determinazione che è la chiave dell'equilibrio in termini di empatia con i due partner che pervade il film. Il suo monologo nello studio di Laura Dern non è uno dei momenti migliori del film solo per la sua eccessiva lunghezza, imputabile più a una recrudescenza di manierismo baumbachiano che alla sua splendida interpretazione.

Ciò che colpisce di più in Storia di un matrimonio, tuttavia, è la capacità di Baumbach di raccontare persone, emozioni, relazioni, declinando in una chiave finalmente personale le influenze woodyalleniane che, pur rimanendo evidenti, diventano feconde di nuove intuizioni e suggestioni anziché puro citazionismo onanistico. Il passaggio a una storia intima e personale fa sì che Baumbach racconti una storia più vicina a Bergman e all'Allen bergmaniano, in una storia in cui i sentimenti e i ricordi sono più importanti delle azioni, e piccoli gesti come allacciare una scarpa emozionano di più di grandi discorsi.

Con Storia di un matrimonio, Baumbach si spinge con successo in un territorio a lui finora sconosciuto, quello della sincerità, e realizza un film sublime per sensibilità e capacità di bilanciare comico e drammatico. Un film che parla a tutti, raccontando la fine di un sentimento senza demonizzare nessuna delle due parti. Il divorzio smette così di essere un fallimento, come troppo spesso viene rappresentato, per diventare semplicemente quello che è: la fine di un capitolo e l'inizio di un altro, che non cancella il bagaglio emotivo e l'arricchimento ma li rende parte di un "noi" che, pur non esistendo più a livello legale, continua a esistere su quello personale.

**** 

Pier

venerdì 6 dicembre 2019

Frozen 2 - Il segreto di Arendelle

Il ritorno dei cheapquel


È passato qualche tempo dalle avventure raccontate in Frozen, e tutto sembra procedere tranquillamente ad Arendelle. A turbare la tranquillità arriva una misteriosa voce che solo Elsa sembra sentire: una voce che promette di rivelarle molte verità sul suo passato, la sua famiglia, e l'origine dei suoi poteri. Partirà quindi in un viaggio alla ricerca di una foresta incantata, accompagnata come sempre dalla sorella Anna e da Kristoff, Sven, e Olaf.

Nella sua lunga storia, la Disney ha quasi sempre evitato di produrre sequel dei suoi film d'animazione destinati alla proiezione in sala: l'idea alla base di questa decisione era che i sequel rischiavano di svalutare marchio Disney Animation, il cui valore aggiunto veniva dalla capacità di produrre sempre qualcosa di nuovo all'interno di una formula collaudata. Per anni, quindi, la Disney non ha prodotto alcun sequel.
Negli anni Novanta il trend iniziò a cambiare: nel 1990 uscì in sala con Bianca e Bernie nella terra dei canguri, fino a tempi recenti l'unico sequel Disney destinato alla distribuzione cinematografica. Il vero cambiamento, tuttavia, fu l'inizio della produzione dei sequel "direct to video": realizzati con grande economicità di mezzi e idee, erano di qualità talmente inferiore agli originali da guadagnarsi l'appellativo - in molti casi meritato - di cheapquel (sequel di cattiva qualità).

Frozen 2 è, triste a dirsi, molto vicino a essere un cheapquel. La trama è scontata, prevedibile, senza una vera tensione né una crescita dei personaggi. Manca un villain, sia nel senso classico del termine sia in quello più innovativo sperimentato proprio da Frozen e poi anche da Ralph spacca Internet, lui sì degno sequel dell'originale. La trama è slegata, poco coerente, con momenti comici che si inframmezzano a quelli drammatici senza alcuna logica, in un pastiche degno di quello di alcuni dei peggiori blockbuster della storia recente. Al tempo stesso, la storia è stantia e prevedibile: non c'è nulla che accade nel film che non si possa prevedere con almeno mezz'ora di anticipo, e non si prova mai una reale apprensione per i personaggi: siamo lontani anni luce dall'apprensione e dalle lacrime disperate sentite per Big Hero 6 o per alcuni lavori della Pixar.

I nuovi personaggi sono o inutili o imbarazzanti, figurine appena abbozzate senza alcun approfondimento. I protagonisti non hanno un vero sviluppo al di là di quello già esibito nel primo film: Elsa impara ad accettarsi ancora di più, Anna diventa ancora più indipendente. L'assenza di un arco evolutivo dei personaggi è reso ancora più evidente dal fatto che gli sceneggiatori affidano a Olaf una serie di battute sull'importanza della crescita e sul viaggio come fonte di cambiamento: tematiche che, oltre a essere vecchie e stantie, sono del tutto assenti dal film, e che se presenti dovrebbero essere in grado di emergere da sé, senza spiegazioni didascaliche da parte di uno dei personaggi. Olaf stesso è in alcuni momenti il punto forte del film - esilarante il suo riassunto mimato degli eventi narrati in Frozen - e in altri il suo punto debole: troppo "stupido", infantile e mieloso per intrattenere chiunque abbia superato l'età prescolare.

Persino le musiche, punto forte del primo film grazie soprattutto (ma non solo) al tormentone Let it go, sono di livello decisamente inferiore: Nell'ignoto è poco orecchiabile e non scalda il cuore, e in generale quasi tutte le canzoni si dimenticano già all'uscita della sala. Si salvano solo Mostrati, ottima per potenza e musicalità, ed erede più degna di Let it go rispetto alla collega, e Perso quaggiù, sorretta anche dalla miglior intuizione comico-musicale del film.

Cosa rimane, dunque, a salvare Frozen 2 dall'appellativo di cheapquel? I personaggi principali sono comunque "freschi" e interessanti grazie alla buona caratterizzazione offerta nel primo film, e alcuni momenti comici sono oggettivamente esilaranti. Tuttavia, il punto migliore del film è senza dubbio la parte visiva. A livello puramente tecnico, Frozen 2 è sontuoso, con animazioni ed effetti di livello pari se non superiore all'originale, in grado di immergere lo spettatore in fiabesche atmosfere nordiche che riescono a distrarlo, almeno a tratti, dallo scempio narrativo cui sta assistendo.

Se Frozen 2 doveva essere la conferma, dopo Ralph spacca Internet, della possibilità di realizzare sequel di alta qualità dei classici disneyani, la risposta è senza dubbio negativa. Pare incredibile che uno studio che ha sempre fatto di trama e caratterizzazione i suoi punti di forza abbia realizzato e distribuito un film con difetti così macroscopici che sono in diretta contraddizione con regole basilari della sceneggiatura cinematografica, d'animazione e non. Rimane, appunto, la bellezza delle immagini: poco, troppo poco per un film che aveva un potenziale immenso, e che forse è stato schiacciato dalle necessità commerciali e dall'aspettativa di ripetere il successo del primo capitolo.

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Pier