lunedì 25 aprile 2022

C'mon C'mon

Ascoltare, ascoltarsi


Johnny è un fonico e documentarista che gira per gli Stati Uniti per intervistare i giovani, chiedendo loro come si immaginano il futuro. Mentre lavora a questo progetto si mette in contatto con la sorella Viv, che gli rivela che il marito sta male e lei ha bisogno di raggiungerlo per convincerlo a ricoverarsi. Johnny si ritrova così a badare a Jesse, il nipotino di nove anni, trovandosi a dover fare in privato quello che fa per lavoro: confrontarsi con un bambino di oggi, le sue ansie, i suoi desideri.

C'mon C'mon è un film sull'ascolto. Si parte dall'ascolto di una generazione, catturata nel documentario metanarrativo che Joaquin Phoenix/Johnny sta realizzando, conducendo una serie di interviste (vere) a bambini e adolescenti statunitensi per conoscere le loro aspettative sul futuro, le loro paure, i loro sogni. Johnny, in una sorta di contrappasso volontario, fa sul lavoro quello che non ha fatto con sua sorella Viv tanti anni prima: ascoltare. Capire. Accettare. La chiamata con Viv e l'inizio del rapporto con il nipote Jesse lo riportano a quel momento, ponendolo di nuovo di fronte a una scelta: chiudersi, oppure mettere in pratica ciò che il suo lavoro gli ha insegnato, rendendosi disponibile ad ascoltare un'altra persona, un bambino che, ironia della sorte, potrebbe essere uno dei suoi intervistati (e, senza che lui lo sappia, lo diventa). 

Il film a tratti è forse troppo cerebrale, ma ritrova immediatamente il suo centro e la sua potenza non appena torna a concentrarsi sul suo cuore emotivo, i rapporti umani tra i protagonisti. Johnny e Jesse, certo, ma anche Jesse e Viv, e Viv e Johnny: un rapporto da costruire, uno da salvare, uno da recuperare. Mills lascia spazio ai momenti quotidiani, ai piccoli gesti, all'apparenza insignificanti ma in realtà rivelatori di un complesso mondo interiore. Ogni rapporto è imperfetto, fatto di incertezze, insicurezze, ed errori: si naviga a vista, ma la forza di un legame sta precisamente nella determinazione che mettiamo nel portarlo avanti, nell'attraversare il mare in tempesta per salvare chi sta affogando, nell'ascoltare la sua storia, per poi lasciarci salvare e ascoltare a nostra volta. L'ascolto degli altri diventa un percorso di autoconoscenza, di redenzione e catarsi.

Johnny è il più improbabile dei babysitter: solitario, taciturno, introverso: ma, forse, ha imparato ad ascoltare. Da questo ascolto nasce una comunicazione speciale con Jesse, fatta anche di silenzi, gesti, non detti. Nonostante tra i due scatti indubbiamente qualcosa di speciale, non è un percorso facile. Jesse si trova ad affrontare una cosa più grande di lui, una malattia mentale del padre che finisce per strappargli entrambi i genitori, con la madre che deve occuparsi del padre per assicurarsi che stia meglio e accetti di farsi ricoverare. Questa situazione lo rende forte ma fragile al tempo stesso: basta poco per perdere la sua fiducia. Johnny e Jesse passano quindi dal capirsi senza bisogno di parole a momenti di crisi assoluta, in cui Johnny si rivolge a Viv per cercare una spiegazione, solo per sentirsi rispondere che una spiegazione, spesso, non c'è.

Mike Mills fotografa il film con un bianco e nero caldo, avvolgente, luminoso, che dona un tono gioioso, di rinascita anche ai momenti più tristi. La sua macchina da presa indugia sugli sguardi e le espressioni dei protagonisti, catturandone con naturalezza i momenti di complicità, frustrazione e fragilità. Joaquin Phoenix porta come sempre un'intensità verista al suo personaggio, cui è impossibile non affezionarsi. Gaby Hoffman è una splendida Viv, ma la vera stella è il piccolo Woody Norman, che ruba la scena in ogni minuto e offre una prova di una maturità sorprendente per la sua giovanissima età.

C'mon C'mon è un piccolo gioiello, un film fatto di piccole cose ma che racconta cose grandi, raccontando il disagio e i desideri di un ragazzo e di un'intera generazione. Nel farlo, si rende portavoce di un messaggio di fondamentale importanza per il mondo di oggi, fatto di urla e improperi tra opposte barricate, l'una contro l'altra armate, e incapace di fare la cosa più semplice di tutte: ascoltare.

**** 1/2

Pier

venerdì 22 aprile 2022

Animali Fantastici - I Segreti di Silente

Solidità senza creatività


L'ascesa al potere di Grindelwald sembra inarrestabile: il mondo magico pende dalle sue labbra, e Silente, l'unico che potrebbe contrastarlo, non può farlo in virtù di un antico patto di sangue, siglato quando i due erano amanti. Silente assolda quindi una "sporca mezza dozzina" con il compito di fermarlo. A guidarla, Newt Scamander, accompagnato da suo fratello Theseus, dalla sua assistente Bunty, dalla professoressa Eulalie Hicks, da Yussuf Kama e dal pasticcere babbano Jakob Kowalski, deciso a salvare la sua amata Queenie, apparentemente irretita da Grindelwald.

Il dilemma che si trovano ad affrontare tutte le grandi saghe cinematografiche è "cosa fare da grandi." Hai avuto successo con una formula, fatta di personaggi, trame, scelte di fotografia, atmosfere: bene, e ora? Devi ripetere quella formula, giocando sull'effetto nostalgia ma rischiando di uccidere del tutto la creatività e, quindi, stancare lo spettatore? O devo provare a battere nuove strade, lanciandomi in territori inesplorati per tenere viva la fiamma creativa, rischiando però l'ira funesta del "vero fan" TM ? Di questo dilemma abbiamo già ampiamente parlato qui e una risposta giusta, applicabile a ogni caso, probabilmente non esiste.

Animali fantastici le ha provate un po' tutte: dopo aver intrapreso la seconda strada nel primo capitolo, con buoni risutlati, già dal secondo ha decisamente virato su una via di mezzo, con esiti più deludenti. Ora, con questo terzo capitolo vira decisamente sull'opzione "solita minestra", riportando al centro della vicenda tutto ciò che i fan amano di più: Silente, Hogwarts, la sfida tra maghi "buoni" e oscuri - persino il Quidditch. Tuttavia, questo terzo capitolo si trova nella poco invidiabile posizione di essere l'eccezione alla regola - di essere, cioè, un film che gioca sul sicuro e riesce comunque a lasciare insoddisfatti i fan e, peccato ancor più grave, a non stupire mai, nemmeno per sbaglio.

La trama, in superficie, funziona: gli eventi si susseguono con buon ritmo, la vicenda è ben congegnata, gli archi dei personaggi coerenti. Come è possibile allora che il film deluda? La risposta sta nella totale mancanza di coinvolgimento emotivo. La causa principale sta nella scelta di cambiare de facto il protagonista della saga: non più Newt Scamander, ridotto a comprimario/esecutore, ma il giovane Silente e il suo rapporto di amore tradito con Grindelwald. Il problema è che i fan della saga sanno già tutto: non in dettaglio, certo, ma la cronistoria di questi eventi e l'impatto avuto su Silente sono già stati presentati nella serie di romanzi e nella sua trasposizione cinematografica. L'interesse, quindi, è giocoforza basso, l'effetto nostalgia del tutto assente: il Silente che il pubblico ama ha già superato quegli eventi, e gli eventi stessi sono solo pezzi del puzzle narrativo costruito dalla Rowling nel settimo libro - elementi utili a concludere la storia di Harry Potter, e poco più.

Allo stesso tempo, il film non fa assolutamente nulla per rinverdire l'interesse, rinunciando quasi del tutto a intraprendere l'unica strada che permetterebbe di farlo: esplorare più a fondo la relazione emotiva tra i due personaggi. E dire che gli attori permetterebbero un lavoro di questo tipo: Law costruisce un Silente dolente e malinconico, che ben si adatterebbe a un lavoro più psicologico; e Mikkelsen, subentrato a Johnny Depp, dona a Grindelwald un giusto mix di signorilità, ideali deviati e malvagità latente, rendendolo un personaggio complesso e affascinante - un angelo caduto, un Satana tentatore che poteva essere utilizzato infinitamente meglio. 

Chiariamoci, i momenti riusciti non mancano, ma sono tutti nelle mani di un personaggio reso ormai secondario (Newt) e delle sue creature, quegli animali fantastici che dovrebbero guidare la saga, ma risultano ormai solo meravigliosi diversivi, parentesi narrative con un impatto molto ridotto sul dipanarsi della vicenda. Redmayne è costretto a un'interpretazione sempre più monodimensionale di Scamander, priva di quel mix di goffa simpatia e inettitudine emotiva che lo rendeva così interessante ed efficace nel primo capitolo. Funzionano anche, ma erano già presenti e meglio utilizzati nel capitolo precedenti, i rimandi storici: l'ascesa di Grindelwald ricorda in tutto e per tutto quella di Hitler e dei totalitarismi novecenteschi, e le atmosfere delle scene "di massa" sono suggestive e ben realizzate. Yates si dimostra ancora una volta un ottimo esecutore, uno scalpellino della regia che realizza ottime confezioni cui manca però la scintilla della vita.

I Segreti di Silente è, in sintesi un film dimenticabile: non annoia, non disturba, non sporca, ma non stupisce, mai: e, per una saga come quella del Wizarding World e per il genio di J.K. Rowling (qui ancora sceneggiatrice) è il peccato più imperdonabile di tutti.

** 1/2

Pier

mercoledì 13 aprile 2022

Red

Abbracciare il panda rosso


Mei Lee ha tredici anni. Studentessa modello e figlia rispettosa, aiuta la famiglia a gestire il tempio di famiglia che gestiscono da generazioni a Toronto. Il suo sogno è andare con le sue amiche al concerto della sua boy band preferita. Sembra, insomma, un'adolescente come tanti: ma tutto cambia quando, un mattino, Mei si risveglia e si ritrova trasformata in un enorme panda rosso - una trasformazione che nasconde un segreto di famiglia di cui non era a conoscenza.

La produzione recente della Pixar sembra seguire un trend ben preciso. Da un lato ci sono i film che da sempre costituiscono il cuore della produzione della casa della lampadina: storie esistenzialiste e ambiziose, ambientate in mondi nuovi e magici che ci costringono a ripensare il funzionamento della realtà. Dall'altro lato troviamo da qualche tempo storie all'apparenza più semplici, intime, il cui centro emotivo si colloca all'interno dei rapporti amicali o famigliari. Esiste un elemento fantastico, ovviamente, ma è solo un pretesto per parlare di qualcosa di molto più terreno: il legame tra due fratelli e l'assenza di un genitore, l'accettazione di un'identità sfaccettata, il tormento e l'estasi del diventare grandi. In questo filone si collocano Onward e Luca.

In questo filone si colloca anche Red. Come i suoi predecessori, tuttavia, Red è molto più di quello che appare: dietro la semplicità del racconto si nasconde una grande complessità di significati ed emozioni, in un film che scava in profondità nel periodo più difficile e mostruoso per un ragazzo: l'adolescenza. La metafora della trasformazione in panda rosso per rappresentare i cambiamenti della pubertà è, all'apparenza, abbastanza scontata, una versione edulcorata di quanto già fatto, ad esempio, da Stephen King in Carrie. All'apparenza, appunto, perchè il panda rosso di Red rappresenta molto altro: il contrasto tra individualità e collettivo (la famiglia), la ricerca di una propria identità, e, soprattutto, il rapporto con la diversità.


Red insomma, è un film che parla anche di pubertà, ma non solo. La regista Domee Shi, al debutto alla guida di un lungometraggio dopo il meraviglioso corto Bao, tesse abilmente la sua tela e fa passare la sua riflessione sul tema senza calcare troppo la mano né scivolare in eccessi retorici come capita a molti film su tematiche simili. La trasformazione in panda rosso coinvolge tutti gli elementi femminili della famiglia di Mei, ma solo lei decide di accettarla come parte di sé, di un'identità ancora in costruzione ma sulla quale la ragazzina sembra avere le idee più chiare rispetto a quelle di madre, nonna e zie. Se la loro soluzione era di bandire per sempre la diversità, al fine di omologarsi alle aspettative sociali e famigliari, Mei decide che la diversità è parte di lei, e va esibita, non nascosta. 

È, in questo senso, una scelta simile a quella di Luca, che però lo fa spinto dal desiderio di una vita differente, di una fratellanza tra specie differenti, e soprattutto in un contesto che gli permette di mostrare un solo lato di sé (uomo o mostro marino) in base all'ambiente in cui si trova. Mei decide attivamente che il panda rosso è una parte di sé e della sua personalità cui non vuole rinunciare: non lo fa per curiosità o per poter esplorare un mondo che altrimenti le sarebbe precluso, lo fa per affermare la sua identità nella sua completezza, in tutte le sue sfaccettature.

L'animazione è, come sempre nei film Pixar, una gioia per gli occhi: il panda rosso fa venir voglia di abbracciarlo attraverso lo schermo per la perfezione nella resa del pelo e delle espressioni facciali. Domee Shi unisce gli stilemi Pixar a quelli dell'anime giapponese e di TikTok. Il risultato è un'animazione fresca, innovativa e vitale, che restituisce alla perfezione la bruciante, inesauribile energia di Mei e delle sue amiche, il loro sguardo sul mondo.

Red è una storia di crescita e autoaccettazione, in cui le nuove generazioni insegnano a quelle del passato l'importanza di essere se stessi fino in fondo, accettando anche quei lati di noi che possono essere visti come buffi, ridicoli, o vergognosi. Il coraggio di Mei riflette quello della regista, in grado di creare una storia attuale e divertente, che cattura fin dalle prime inquadrature grazie a una protagonista carismatica, un ritmo travolgente, e una storia di grande complessità emotiva, in grado di toccare il cuore di adulti e bambini come solo i migliori film per ragazzi sanno fare.

**** 1/2

Pier

sabato 2 aprile 2022

Licorice Pizza

Il tempo che corre


Los Angeles, 1973. Gary Valentine è un adolescente intraprendente, un venditore nato deciso a farsi strada. Quando incontra Alana Kane, di dieci anni più vecchia di lui e ancora in cerca della sua strada, comincia a farle disperatamente la corte.  Lei lo rifiuta, ma comincia a frequentarlo, dando vita a un rapporto di equivoci, incertezze, e slanci romantici che si dipana tra mille svolte tortuose, sullo sfondo della San Fernando Valley.

Che colore ha la nostalgia? Un colore caldo, avvolgente, che trasuda vitalità, corse affannate, tentativi di diventare grandi e, al tempo stesso, la paura che sia già troppo tardi. È paradossalmente difficile spiegare perché Licorice Pizza è un grandissimo film: sarebbe come cercare di spiegare perché certe serate sembrano semplicemente perfette, o la bellezza di un gioco spensierato con gli amici, o l'inebriante sensazione del primo amore: Licorice Pizza è tutto questo, un film che parla della bellezza di un amore che si scontra con l'imperfezione della vita, dando vita a un inseguimento che dura per anni, e in cui il destino, raramente così cinico e baro, cerca continuamente di mettersi di mezzo.


Anderson parte dalla lezione di American Graffiti e tesse un racconto che procede per analogie e associazioni, come fanno i ricordi: i momenti si intersecano, si inseguono, si rincorrono come i due protagonisti, creando un arazzo composito che rappresenta la vita, con le sue svolte illogiche, i suoi imprevisti, le sue follie. Tuttavia, il racconto è anche fluido, naturale, senza un momento di pausa. Anderson fa un uso abbondante e magistrale dei piani sequenza, come se non volesse staccare mai gli occhi dai suoi protagonisti. La scelta di usare la pellicola 35 mm dona al film colori vibranti, vivi, in grado di suscitare emozioni a ogni inquadratura. Il risultato è un racconto fluido, vitale, come il ricordo di un'estate infinita, fatta di colori pastello e di una luce quasi innaturale nella sua perfezione, in netto contrasto con il bianco e i bruni de Il filo nascosto, il suo ultimo film.

Al centro della storia ci sono i due splendidi protagonisti. Raramente si vede al cinema un'intesa così perfetta come quella che si sviluppa tra Alana Haim e Cooper Hoffman (figlio del compianto Philip Seymour, collaboratore storico di Anderson): ambedue esordienti, ambedue dotati di un'innata, naturale simpatia che fa sì che lo spettatore "tifi" sempre per loro, per il loro successo personale e di coppia, per la realizzazione dei loro sogni. Haim e Hoffman sono una gioia per gli occhi, e donano al film un'energia unica, irripetibile, dando vita a una delle coppie più memorabili viste su schermo, e a un rapporto di raro realismo, con le sue gelosie, i suoi slanci, i suoi dispetti, le sue assurde pretese. Alana non sa cosa vuole, e trova in Gary uno sprone a inseguire i suoi sogni, a credere in se stessa, a emanciparsi da una realtà poco ambiziosa cui si è condannata da sola; Gary è intraprendente, sicuro di sé, ma capriccioso, immaturo, incapace di lavorare di squadra. Le loro imperfezioni si compensano, si arricchiscono, si colorano a vicenda, dando vita a un quadro di meravigliosa gioia.



Paul Thomas Anderson non rinuncia, nemmeno in un film all'apparenza spensierato, alla riflessione, e in particolare alla critica (portata avanti già ne Il filo nascosto, in The Master e ne Il petroliere) a una mascolinità stereotipata e tossica. Alana non accetta Gary come ragazzo perché ha dieci anni in meno di lei e le sembra immaturo (non a torto). Tuttavia, tutti gli uomini che incontra sulla sua strada si dimostrano, nonostante siano adulti, ancora più immaturi di lui: dal Jack Holden (chiaramente ispirato all'omonimo William) di Sean Penn al Jon Peters di Bradley Cooper, passando per Lance e Joel Wachs, gli uomini della vita di Alana si rivelano dei bambini poco cresciuti, in alternativa preda delle loro pulsioni o incapaci di prendersi le proprie responsabilità, di mettere i bisogni di chi sta loro intorno davanti ai propri. 

Licorice Pizza è un film sempre proiettato in avanti, in continuo movimento, mai fermo. Anderson racconta una storia solo in apparenza semplice, ma che scava nelle emozioni dello spettatore con efficacia pari se non maggiore a quella delle opere precedenti: una storia che brucia di vita, una candela che si consuma rapidissima ma altrettanto rapidamente si rigenera, per poi consumarsi ancora, in un'eterna corsa verso l'ignoto.

**** 1/2

Pier