lunedì 27 gennaio 2020

1917

Piano se(que)nz'anima



Blake e Schofield, giovani soldati durante la Prima Guerra Mondiale, ricevono l'ordine di attraversare le linee nemiche per evitare che 1600 uomini cadano in una trappola tesa dall'esercito tedesco. Per Blake la missione ha anche una valenza personale, dato che suo fratello fa parte di quei 1600 soldati. Il loro percorso è però disseminato di insidie e pericoli.

Impossibile non rimanere abbacinati di fronte ad alcune sequenze di 1917: i virtuosismi della macchina da presa lasciano spesso con il fiato sospeso, e la magnifica fotografia di Roger Deakins offre immagini di rara potenza visiva, tra rovine che diventano cattedrali pagane erette al dio della guerra e tunnel che sembrano infiniti e destinati a sprofondare sempre più a fondo nelle viscere di una terra distrutta e attonita.

Tuttavia, il film inizia e finisce con i suoi virtuosismi e questo, vista la materia trattata, non può essere un bene: l'emozione muore quasi subito e viene sostituita da un interesse documentaristico, a tratti videoludico, in cui non ci si appassiona alla vicenda umana dei protagonisti ma ci si interessa solo a come sopravviverà all'ennesima sventura che capita loro tra capo e collo. Nel film si conta un'unica scena emozionante, e avviene talmente a ridosso del finale che anche questa finisce per avere un impatto inferiore rispetto a quanto potrebbe.

La mancanza di emozioni è senza dubbio da imputare alla scelta di girare tutto come se fosse un unico piano sequenza - anche se in realtà il film è composto da tante riprese "lunghe" che sembrano un'unica ripresa (o, meglio, due: c'è un taglio di montaggio esplicito) grazie all'uso della computer grafica. Se l'effetto funziona molto bene durante le scene di azione, finisce per rallentare incredibilmente il ritmo durante i momenti più statici, come quello sul camion, dove lo spettatore si trova quasi a implorare uno stacco di montaggio. Inoltre, e sorprende che un regista come Mendes abbia trascurato questo aspetto, l'uso del piano sequenza in spazi aperti limita l'uso di primi piani e montaggio alternato, e dunque la possibilità di concentrarsi sulle emozioni dei protagonisti. In questo senso la lezione di Birdman, altro film costruito su un finto piano sequenza, doveva essere maestra: la costruzione in interni permetteva di seguire le emozioni dei personaggi, immergendosi nel loro mondo e nei loro moti dell'animo.

Ancora più grave, soprattutto stanti le dichiarazioni del regista e la catchphrase promozionale (Time is the enemy, il tempo è il nemico) è la quasi totale mancanza di tensione: dopo i primi minuti non si è mai in ansia per la sorte dei protagonisti, destinati a sopravvivere per ragioni narrative che divengono subito evidenti e li ammantano di quella invincibilità presunta che rende impossibile stare in ansia per loro. In questo senso, il film rimane lontano anni luce dalla capacità ansiogena di Dunkirk, dove invece lo spettatore viveva le ansie dei protagonisti in tempo reale grazie anche al sapiente montaggio visivo e sonoro, che toglieva ogni punto di riferimento e restituiva l'incertezza provata dai personaggi.

Quello che rimane, dunque, è un virtuosismo tecnico fine a se stesso, e comunque nel complesso inferiore a quello esibito nel capolavoro di Nolan. Il piano sequenza, anziché essere uno strumento espressivo al servizio del film, ne diviene invece la pastoia, costringendolo su binari prefissati che possono funzionare in un videogioco, ma risultano freddi, per quanto a tratti spettacolari, all'interno di un prodotto cinematografico.

1917 risulta quindi un'occasione mancata, un prodotto con una bella confezione ma vuoto all'interno, cui mancano anima, visione, e slancio espressivo. Un vero peccato, considerando sia l'eccellenza del comparto visivo, sia la presenza di ottimi attori nei ruoli dei protagonisti e di supporto.

***

Pier

lunedì 20 gennaio 2020

Jojo Rabbit

Tra satira e Wes Anderson



Jojo ha dieci anni, vive nella Germania nazista, ed è un fanatico del regime. Il suo amico immaginario è Adolf Hitler, e il suo sogno è di entrare a far parte della Gioventù Hitleriana. Sua madre cerca di "rieducarlo" con il sorriso, ma invano. Quando Jojo scopre che la madre nasconde in casa Elsa, una ragazzina ebrea, si troverà costretto a riconsiderare tutto il suo sistema di valori.

Il nazismo è stato uno dei grandi mali del Novecento: tali sono stati gli orrori e le nefandezze perpetrate dal regime che, con il tempo, Hitler e i suoi seguaci sono assorti a paradigma del male assoluto. Questo è vero soprattutto al cinema, dove la prospettiva tedesca sulla Seconda Guerra Mondiale è raramente presente e, quando lo è, è sempre quella di qualcuno che ha trovato il coraggio di ribellarsi al regime.

Taika Waititi ha il coraggio di raccontare la storia dalla parte dei nazisti, focalizzandosi sugli ultimi giorni del regime che sta cadendo sotto i colpi degli Alleati. Seguendo l'esempio di un illustre predecessore come Chaplin, Waititi mette in scena una satira, ma a differenza di Chaplin decide di integrarla all'interno di un racconto più tradizionale, incentrato sui personaggi. Questi personaggi vengono tratteggiati e raccontati con un affetto e un occhio più affini ai lavori di Wes Anderson che allo humor tagliente di Waititi, e costituiscono la parte più riuscita del film, quella che intrattiene e appassiona, ma al tempo stesso fa riflettere.

Il fanatismo "innocente" dell'altrimenti adorabile Jojo ci mette di fronte alla potenza della manipolazione di massa e a come sia in grado di corrompere anche gli animi più innocenti. Il messaggio può sembrare banale, ma Waititi riesce a trasmetterlo con forza e senza retorica, servendosi solo dei suoi personaggi e dell'atmosfera semionirica in cui li immerge, fatta di situazioni e personaggi sopra le righe, di un Hitler amico immaginario ancora più insicuro del giovane protagonista, e di una Germania da cartolina: un mix wesandersoniano con un pizzico di originalità, che funziona e rende impossibile non affezionarsi a questi nazisti da operetta e non commuoversi di fronte alle loro sofferenze.


Questa umanità e questo calore, tuttavia, hanno un prezzo: se le assurdità dei personaggi finiscono per esaltarne i tratti più umani, la satira pura si perde e risulta quindi poco tagliente. Le assurdità del totalitarismo e delle idee che lo sorreggono rimangono sullo sfondo, e non vengono sferzate con la veemenza che sarebbe lecito aspettarsi dal genere caro a Giovenale, rendendo qualsiasi collegamento con la contemporaneità abbastanza piatto e superficiale.

Waititi sembra tuttavia compiere questa scelta consapevolmente, interessato forse più a raccontare come si possa spezzare il circolo vizioso del totalitarismo e del culto del capo che a metterne a nudo le nefandezze. L'umanizzazione dei protagonisti e la progressiva rieducazione di Jojo grazie ai modi dolci ma fermi della madre (una ottima Scarlett Johansson) e all'incontro con Elsa sembrano suggerire una visione su come persuadere coloro che oggi propagandano pappagallescamente idee estremiste: è solo attraverso dialogo e conoscenza che si possono appianare le differenze e superare i pregiudizi. L'operazione del regista riesce, anche se rimane il dubbio sull'effettiva utilità di quei momenti di pura satira/comicità slapstick sparsi qua e là per il film: esilaranti, certo, ma un po' avulsi dalla trama e dal messaggio.

Jojo Rabbit è un film semplice, ma fa della sua semplicità la sua forza: i diversi livelli di lettura non sono imposti, ma emergono naturalmente durante alla visione grazie alla forza delle immagini e dei personaggi. Waititi realizza un film efficace, che diverte, commuove e fa riflettere, anche se forse senza il mordente che era lecito aspettarsi da un regista con il suo senso della parodia e della comicità.

*** 1/2

Pier