sabato 27 agosto 2022

Nope

Sguardi ravvicinati del terzo tipo


A seguito di uno strano incidente, OJ e Emerald Haywood ereditano un ranch di cavalli, addestrati per essere usati nelle produzioni della vicina Hollywood. La famiglia ha legami strettissimi con il mondo del cinema, dato che un loro antenato sarebbe il fantino immortalato da Eadweard Muybridge nel primo (brevissimo) film della storia. Il ranch è in difficoltà economica, così OJ cerca di vendere alcuni dei cavalli. Tuttavia, fatti sempre più inquietanti e inspiegabili sconvolgono la vita degli Haywood e dei loro vicini, compreso il potenziale acquirente Jupiter: OJ si convince così che qualcosa di ostile li sta osservando.

Nope arriva al cinema carico di aspettative: non solo sulla sua qualità, ma anche sul suo significato recondito e nascosto. Ambedue le aspettative sono legittime: prima con Get Out e poi con Noi, Jordan Peele ci ha abituato a usare il genere (là l'horror, qui la fantascienza) per parlare di altro, della nostra società, delle storture che la animano e la corrodono fin dalle radici. E Nope non delude certamente le aspettative, offrendo una poliedricità di significati che faranno la gioia di chi ama le cacce al tesoro simboliche all'interno dei film (qui trovate un buon riassunto, ma ci torneremo).

Nope è però, prima di tutto, il film più strettamente cinematografico di Peele - quello, cioè, che sfrutta di più il linguaggio specifico del mezzo, abbandonandovisi completamente. Hitchcock diceva che il cinema è l'arte dello sguardo, e che si dovrebbe mostrare più che dire, limitando il più possibile l'uso della parola (se volete approfondire, procuratevi questo testo imprescindibile). Nope è un film sullo sguardo, esattamente come lo era il capolavoro di Hitchcock, La donna che visse due volte. La vicenda viene inquadrata dall'occhio dei personaggi, un occhio che si deve distogliere dalla creatura ma allo stesso tempo vuole, deve assolutamente guardarla, vivisezionarla, registrarla. 

Nope è un racconto di sguardi predatori e di predatori che guardano, che prendono lo sguardo come un guanto di sfida, e di umani che non riescono a smettere di guardare. Peele mette in scena la negazione dello sguardo e al tempo stesso la sua inevitabilità, la nostra morbosa necessità di guardare, vedere: non guardare, distogliere lo sguardo può essere un gesto di sopravvivenza, ma per l'uomo è un'attività insostenibile nel lungo periodo. Non guardare significa negare la realtà e, allo stesso tempo, renderla più terrificante: ciò che non vediamo è sempre peggio di ciò che possiamo vedere, per quanto pericoloso sia. Se questo è vero a livello storico (il film oscilla costantemente tra primordiale e futuristico, atavico e fantascientifico, in un kubrickiano confronto tra scimmiesco e alieno), lo è ancora di più nella società contemporanea, in cui lo sguardo è diventato onnipervasivo, sempre presente. Siamo tutti perennemente in mostra, sui social media e sulle telecamere di sicurezza: quella che è stato definito alternativamente come capitalismo della sorveglianza e società dei selfie è, nel complesso, una società dello sguardo.

Peele viviseziona questa società attraverso il mezzo che più dipende dallo sguardo: il cinema. Nope è infatti anche un film sul cinema e sull'intrattenimento, che ci impone di interrogarci sui loro meccanismi e su come distorcano la nostra percezione della realtà. Vediamo solo ciò che ci fa comodo vedere, cancellando il resto, come succede al cavaliere di colore protagonista del primo clip filmato della storia; ciò che non vediamo non esiste, da cui deriva la nostra ossessione per la ripresa, per il "registrare", fissare un'immagine spettacolare e memorabile, anche a costo della nostra stessa vita; la realtà stessa deve piegarsi alle esigenze dell'immagine, come si vede nelle scene in cui OJ (nome non casuale, che richiama quello del protagonista di uno dei primi processi ipermediatici) porta il suo cavallo sul set; siamo tutti costantemente sotto osservazione di qualche telecamera (di sicurezza, del telefono, cinematografica), esibendoci trumanianamente per un pubblico ogni volta diverso, eppure sempre uguale.

Su questa analisi sociale si innesta una pletora di significati e messaggi: molti esistono solo nell'occhio e nella testa dello spettatore (così come per La donna che visse due volte), ma Peele è regista troppo abile per non aver volutamente disseminato alcune tematiche nel film. La sensazione, e forse è questo l'unico vero difetto del film, è che Nope si carica forse di troppi significati e messaggi, finendo per indebolire l'impatto specifico di ciascuno e, soprattutto, l'impatto viscerale di un film che ha la sua forza nel livello inconscio più che in quello cosciente. 

Il film, comunque, funziona alla grande, e lo fa prima di tutto come spettacolo di intrattenimento, dimostrando anche qui di aver capito la lezione hitchockiana: si può realizzare un film commerciale senza rinunciare all'artisticità della propria visione e alla complessità tematica. Il ritmo è veloce e lento al tempo stesso: veloce nel dipanarsi degli eventi, degno di un blockbuster estivo (impossibile non pensare al capostipite, Lo squalo, un altro grande esempio di come il non visto faccia più paura di ciò che vediamo) - un blockbuster che ibrida moltissimi generi, dal fantascientifico all'horror, passando per il western; lento nel tirare le fila del proprio discorso. I pezzi del puzzle ci vengono dati poco alla volta, lasciando che lo spettatore esplori la situazione per conto suo, e portandolo lentamente alla sua conclusione - qualunque essa sia. La splendida fotografia di Hoyte van Hoytema si mette al servizio ed esalta la tematica centrale del film attraverso il frequente uso di soggettive (dei personaggi, ma anche del "qualcosa" che li osserva) offrendo immagini di grande, terrificante bellezza.

Nope, nonostante qualche inciampo, colpisce fortissimo, più a livello viscerale che razionale, offrendo allo spettatore uno spettacolo degno di un grande blockbuster estivo ma stimolando anche pensieri e riflessioni che si protraggono ben oltre l'uscita dalla sala.

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Pier

martedì 2 agosto 2022

L'occhio del regista #6 - Denis Villeneuve

Nuova puntata della rubrica L'occhio del regista (qui le puntate precedenti) dove identifichiamo tre caratteristiche distintive dello stile di un regista. La puntata di oggi è dedicata a Denis Villeneuve.


Denis Villeneuve è emerso relativamente tardi: ha girato il suo primo film, August 22nd on Earth, quando aveva già 31 anni; e ha riscosso il suo primo successo internazionale con Incendies quando ne aveva già 43. Per avere un termine di paragone, guardiamo a suoi due coetanei: Wes Anderson ha fatto il suo primo film a 27 anni, e ha avuto il suo primo successo a 32; Christopher Nolan a 28 e 30 anni. Da quando è uscito dal Canada, tuttavia (con Prisoners ed Enemy nel 2013), Villeneuve si è imposto come uno dei più grandi registi contemporanei, soprattutto all'interno del genere fantascientifico. Arrival ha stupito talmente in positivo che gli sono stati affidati due film che avrebbero fatto tremare le ginocchia a chiunque: il sequel di Blade Runner, e l'adattamento impossibile per eccellenza, Dune

I critici di Villeneuve gli rimproverano un'eccessiva freddezza, un approccio alla Asimov alla materia fantascientifica. Questo è indubbiamente vero, ma fa parte della sua poetica: una poetica fatta di grandi forze primigenie, Bene e Male che si combattono, si conoscono, si comprendono, fino a non essere, in alcuni casi, più distinguibili.

Questa visione del mondo si riflette in quello che è il tratto più distintivo del cinema di Villeneuve: il suo sguardo, il suo modo di raccontare eventi piccoli e grandi soffondendoli di un sottotesto visivo che, spesso, si fa più forte del racconto e delle parole e diventa il vero significante del film. 

1. Silhouette 
Villeneuve ama fare un uso della luce che non esiterei a definire caravaggesco con un fortissimo contrasto tra luci e ombre. Rimanendo al cinema, Villeneuve sembra riprendere la lezione dell'espressionismo tedesco, dove la luce veniva utilizzata non solo a fine estetici, ma anche per restituire lo stato interiore dei personaggi.

In particolare, Villeneuve sfrutta luci e ombre per ritrarre i suoi personaggi in silhouette: questo suo "marchio di fabbrica" è visibile fin dai suoi primi film, come Prisoners ed Enemy, dove viene utilizzato per "inquadrare il protagonista in un momento particolarmente cupo.

Prisoners

Enemy
Nei film successivi, Villeneuve comincia a utilizzare le inquadrature in silhouette con maggiore ambizione, utilizzandoli anche per scene corali o addirittura d'azione.

Sicario

Arrival

Dune - Parte 1

2. Personaggi solitari
I protagonisti di Villeneuve sono spesso "soli contro il mondo": anche chi li accompagna nel loro viaggio è spesso incapace di comprendere fino in fondo il loro tormento, il loro rovello. Sono spalle solo fino a un certo punto, perché nei momenti capitali sono loro, e solo loro, a dover prendere una decisione.

Villeneuve rende visivamente questa solitudine attraverso inquadrature a campo largo che danno rilievo ai personaggi (a volte ponendoli al centro dell'inquadratura, come in Arrival e Blade Runner 2049; a volte mettendoli in primissimo piano, come in Incendies) ma allo stesso tempo li immergono in un mondo soverchiante e incombente, troppo grande, troppo complesso perché loro possano controllarlo.

Arrival

Blade Runner 2049

Incendies

3. Riprese aeree
Villeneuve è un costruttore di mondi. Questo è vero non solo dei suoi film di fantascienza, ma anche di quelli di altro genere, dove spesso ci cala in realtà poco conosciute o alternative. In questo senso, Villeneuve fa sua e rielabora la lezione di Spielberg e del suo piano sequenza immersivo, sostituendolo con un uso frequente delle panoramiche aeree. Uno sguardo d'insieme, quasi divino, che svolge una duplice funzione: diegeticamente, mette i protagonisti di fronte al loro "nuovo mondo", catturando l'immensità di ciò con cui dovranno confrontarsi; extra diegeticamente, mostra al pubblico il mondo di cui stiamo per entrare, facendoli "immergere" nella nuova realtà.

Enemy

Arrival

Dune

Uso della silhouette e dei giochi di ombre, protagonisti solitari, inquadrature aeree: Villeneuve gira ogni suo film con un occhio epico, che cattura la complessità della natura, umana e non, immergendo lo spettatore in mondi visivamente abbacinanti e moralmente ambigui, in cui la luce si spegne in fretta e l'essere umano rimane solo di fronte ai suoi demoni. Il suo è un cinema epico, fatto di dilemmi morali e scontro tra nòmos ed èthos, con degli eco da tragedia greca dove però non c'è nessun deus ex machina, e l'uomo è chiamato a salvare se stesso e gli altri - non sempre riuscendoci.

Pier