Sguardi ravvicinati del terzo tipo
A seguito di uno strano incidente, OJ e Emerald Haywood ereditano un ranch di cavalli, addestrati per essere usati nelle produzioni della vicina Hollywood. La famiglia ha legami strettissimi con il mondo del cinema, dato che un loro antenato sarebbe il fantino immortalato da Eadweard Muybridge nel primo (brevissimo) film della storia. Il ranch è in difficoltà economica, così OJ cerca di vendere alcuni dei cavalli. Tuttavia, fatti sempre più inquietanti e inspiegabili sconvolgono la vita degli Haywood e dei loro vicini, compreso il potenziale acquirente Jupiter: OJ si convince così che qualcosa di ostile li sta osservando.
Nope arriva al cinema carico di aspettative: non solo sulla sua qualità, ma anche sul suo significato recondito e nascosto. Ambedue le aspettative sono legittime: prima con Get Out e poi con Noi, Jordan Peele ci ha abituato a usare il genere (là l'horror, qui la fantascienza) per parlare di altro, della nostra società, delle storture che la animano e la corrodono fin dalle radici. E Nope non delude certamente le aspettative, offrendo una poliedricità di significati che faranno la gioia di chi ama le cacce al tesoro simboliche all'interno dei film (qui trovate un buon riassunto, ma ci torneremo).
Nope è però, prima di tutto, il film più strettamente cinematografico di Peele - quello, cioè, che sfrutta di più il linguaggio specifico del mezzo, abbandonandovisi completamente. Hitchcock diceva che il cinema è l'arte dello sguardo, e che si dovrebbe mostrare più che dire, limitando il più possibile l'uso della parola (se volete approfondire, procuratevi questo testo imprescindibile). Nope è un film sullo sguardo, esattamente come lo era il capolavoro di Hitchcock, La donna che visse due volte. La vicenda viene inquadrata dall'occhio dei personaggi, un occhio che si deve distogliere dalla creatura ma allo stesso tempo vuole, deve assolutamente guardarla, vivisezionarla, registrarla.
Nope è un racconto di sguardi predatori e di predatori che guardano, che prendono lo sguardo come un guanto di sfida, e di umani che non riescono a smettere di guardare. Peele mette in scena la negazione dello sguardo e al tempo stesso la sua inevitabilità, la nostra morbosa necessità di guardare, vedere: non guardare, distogliere lo sguardo può essere un gesto di sopravvivenza, ma per l'uomo è un'attività insostenibile nel lungo periodo. Non guardare significa negare la realtà e, allo stesso tempo, renderla più terrificante: ciò che non vediamo è sempre peggio di ciò che possiamo vedere, per quanto pericoloso sia. Se questo è vero a livello storico (il film oscilla costantemente tra primordiale e futuristico, atavico e fantascientifico, in un kubrickiano confronto tra scimmiesco e alieno), lo è ancora di più nella società contemporanea, in cui lo sguardo è diventato onnipervasivo, sempre presente. Siamo tutti perennemente in mostra, sui social media e sulle telecamere di sicurezza: quella che è stato definito alternativamente come capitalismo della sorveglianza e società dei selfie è, nel complesso, una società dello sguardo.
Peele viviseziona questa società attraverso il mezzo che più dipende dallo sguardo: il cinema. Nope è infatti anche un film sul cinema e sull'intrattenimento, che ci impone di interrogarci sui loro meccanismi e su come distorcano la nostra percezione della realtà. Vediamo solo ciò che ci fa comodo vedere, cancellando il resto, come succede al cavaliere di colore protagonista del primo clip filmato della storia; ciò che non vediamo non esiste, da cui deriva la nostra ossessione per la ripresa, per il "registrare", fissare un'immagine spettacolare e memorabile, anche a costo della nostra stessa vita; la realtà stessa deve piegarsi alle esigenze dell'immagine, come si vede nelle scene in cui OJ (nome non casuale, che richiama quello del protagonista di uno dei primi processi ipermediatici) porta il suo cavallo sul set; siamo tutti costantemente sotto osservazione di qualche telecamera (di sicurezza, del telefono, cinematografica), esibendoci trumanianamente per un pubblico ogni volta diverso, eppure sempre uguale.
Su questa analisi sociale si innesta una pletora di significati e messaggi: molti esistono solo nell'occhio e nella testa dello spettatore (così come per La donna che visse due volte), ma Peele è regista troppo abile per non aver volutamente disseminato alcune tematiche nel film. La sensazione, e forse è questo l'unico vero difetto del film, è che Nope si carica forse di troppi significati e messaggi, finendo per indebolire l'impatto specifico di ciascuno e, soprattutto, l'impatto viscerale di un film che ha la sua forza nel livello inconscio più che in quello cosciente.
Il film, comunque, funziona alla grande, e lo fa prima di tutto come spettacolo di intrattenimento, dimostrando anche qui di aver capito la lezione hitchockiana: si può realizzare un film commerciale senza rinunciare all'artisticità della propria visione e alla complessità tematica. Il ritmo è veloce e lento al tempo stesso: veloce nel dipanarsi degli eventi, degno di un blockbuster estivo (impossibile non pensare al capostipite, Lo squalo, un altro grande esempio di come il non visto faccia più paura di ciò che vediamo) - un blockbuster che ibrida moltissimi generi, dal fantascientifico all'horror, passando per il western; lento nel tirare le fila del proprio discorso. I pezzi del puzzle ci vengono dati poco alla volta, lasciando che lo spettatore esplori la situazione per conto suo, e portandolo lentamente alla sua conclusione - qualunque essa sia. La splendida fotografia di Hoyte van Hoytema si mette al servizio ed esalta la tematica centrale del film attraverso il frequente uso di soggettive (dei personaggi, ma anche del "qualcosa" che li osserva) offrendo immagini di grande, terrificante bellezza.
Nope, nonostante qualche inciampo, colpisce fortissimo, più a livello viscerale che razionale, offrendo allo spettatore uno spettacolo degno di un grande blockbuster estivo ma stimolando anche pensieri e riflessioni che si protraggono ben oltre l'uscita dalla sala.
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Pier
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