sabato 26 marzo 2022

Oscar 2022 - I pronostici

Questa notte, come ogni anno, gli occhi del mondo cinematografico si sposteranno sul Dolby Theatre di Los Angeles per la cerimonia di premiazione della novantaduesima edizione degli Academy Awards. 

Dopo un anno funestato dalla pandemia, il 2021 è stato vagamente più normale, permettendo la distribuzione di blockbuster e film indipendenti nelle sale. Lo streaming, tuttavia, è ancora fortissimo, e questo si riflette nelle nomination.

Anche quest'anno, purtroppo, preso in mezzo da un trasloco internazionale, non ho visto molti dei film in concorso. Basterà questo a fermarmi? Ovviamente no. Ciarlare dello sconosciuto è la specialità di ogni critico concionatore e il sottoscritto non fa eccezione.

Pronti? Iniziamo! I film recensiti sono linkati ogni volta che vengono nominati.


Miglior montaggio
Cinque ottimi candidati, ma i favoriti sembrano essere Hank Corwin per Don't look up e Joe Walker per Dune, con Andrew Weisblum e Myron I. Kerstein per Tick, Tick... Boom! come possibili sorprese. La mia scelta personale ricade su Joe Walker, il pronostico su Hank Corwin.
Pronostico: Hank Corwin, Don't look up

Scelta personale: Joe Walker, Dune - Parte 1


Miglior fotografia
La fotografia scarna ma spettacolare di Dune, o i cupi deserti de Il potere del cane? O, forse, gli oscuri anfratti del circo (e della mente) di Nightmare alley? Chi scrive non può che scegliere il lavoro di Greig Fraiser nel deserto di Arrakis, con eco di Lawrence d'Arabia e Apocalypse Now: e penso che anche l'Academy deciderà allo stesso modo.
Pronostico: Greig FraiserDune
Scelta personale: Greig FraiserDune


Miglior film d'animazione
Impossibile non indicare Encanto, che ha sbancato qualunque altro premio a parte gli Annie Awards (gli Oscar dell'animazione), dove si è invece imposto I Mitchell contro le macchine. Sono ambedue film splendidi e meritevoli, ma penso che Encanto la spunterà. Il mio voto del cuore, tuttavia, va a Luca: un film solo in apparenza minore, ma che racconta una storia piena di cuore.
Pronostico: Encanto
Scelta personale: Luca


Miglior attore non protagonista
Qui il favorito è solo uno, Troy Kotsur per CODA, che purtroppo non ho visto. Tra gli altri candidati, la mia scelta personale ricade su Kodi Smit-McPhee per Il potere del cane, con una menzione speciale per Ciarán Hinds in Belfast.
Pronostico: Troy Kotsur, CODA
Scelta personale: Kodi Smit-McPhee, Il potere del cane



Miglior attrice non protagonista
A chi scrive farebbe molto piacere la vittoria di Jessie Buckley per The lost daughter, ma questa è la categoria forse più scontata dell'intera competizione, con Ariana DeBose di West Side Story che sta già spolverando la mensola dove sistemerà la statuetta. E, va detto, alla fine la merita, risultando una delle poche note positive di quel deja-vu glorificato di West Side Story.
Pronostico: Jessie BuckleyThe lost daughter
Scelta personale: Ariana DeBoseWest Side Story


Miglior sceneggiatura originale
Competizione che strazia il cuore di chi scrive, vista la presenza simultanea di Paul Thomas Anderson, Aaron Sorkin e Adam McKay. Vedo favorito Anderson con Licorice pizza cui, pur non avendolo ancora visto, va anche il mio voto personale, sulla fiducia. Chi conosce Anderson capirà.
Pronostico: Paul Thomas Anderson, Licorice pizza
Scelta personale: Paul Thomas Anderson, Licorice pizza


Miglior sceneggiatura non originale
Denis Villeneuve ha fatto un piccolo capolavoro nell'adattare quel romanzo inadattabile che è Dune, ma sappiamo bene che l'Academy premia rarissimamente i blockbuster in questa categoria. Meriterebbe anche Maggie Gyllenhaal per The lost daughter, ma penso che alla fine vincerà CODA.
Pronostico: Sian Heder, CODA
Scelta personale: Denis Villeneuve, Eric Roth, Jon Spaiths, Dune


Miglior attrice protagonista
La grande favorita è Nicole Kidman, splendida Lucille Ball in Being the Ricardos. A insidiarla, solo Jessica Chastain, ma la sua pare una rincorsa disperata. Sulla Kidman ricade anche la mia scelta personale, con Olivia Colman per The lost daughter che arriva poco distante. 
Pronostico: Nicole Kidman, Being the Ricardos
Scelta personale: Nicole Kidman, Being the Ricardos


Miglior attore protagonista
Gara senza storia, con Will Smith che si è aggiudicato praticamente ogni premio sulla strada degli Oscar per la sua prova in King Richard. Il mio voto personale va invece ad Andrew Garfield per Tick, Tick... Boom!: una prova poliedrica, la sua, nonché un riscatto enorme per un attore spesso denigrato.
Pronostico: Will Smith, King Richard
Scelta personale: Andrew Garfield, Tick, Tick... Boom!

Miglior regia
Data la vergognosa esclusione di Denis Villeneuve, il mio voto va a Kenneth Branagh per quello splendido ritratto nostalgico di Belfast. La favorita, tuttavia, sembra essere Jane Campion per il western desolato e senza speranza de Il potere del cane

Pronostico: Jane Campion, Il potere del cane
Scelta personale: Kenneth Branagh, Belfast


Miglior film
Competizione serratissima per il premio principale: Il potere del cane sembrava in vantaggio, ma sembra aver perso l'abbrivio nelle ultime settimane. CODA potrebbe essere la sorpresa, e anche West Side Story potrebbe inopinatamente portare a casa l'ambita statuetta. Il mio pronostico va però a Drive my car, che ha tutti gli ingredienti (importanza del dialogo, lutto personale che riflette un lutto collettivo nazionale) per conquistare i cuori dei membri dell'Academy. La scelta personale, se ancora non si fosse capito, ricade su Dune: un kolossal autoriale e ambizioso, ma in grado di conquistare anche il grande pubblico; un tipo di film che l'Academy dovrebbe celebrare, perché è linfa vitale per il cinema in generale e per il cinema in sala in particolare, ma che finirà per essere miopemente ignorato.

Pronostico: Drive my car
Scelta personale: Dune

Che aspettate? Correte in sala scommesse!

Pier

lunedì 7 marzo 2022

The Batman

Il mistero del pipistrello


Da due anni Bruce Wayne combatte il crimine a Gotham City nei panni di Batman, giustiziere che si nasconde tra le ombre e sta lentamente diventando sinonimo di terrore tra i criminali. L'omicidio di un personaggio molto in vista lo porterà sulle tracce di un serial killer che ama gli enigmi, ma anche a scavare nella storia ufficiale della città, riportando alla luce storie che, forse, dovevano rimanere sepolte.

Piove, a Gotham City, ma non è una pioggia catartica, che lava via i peccati: è una pioggia tossica, che scava nel terreno e nell'anima e fa riaffiorare scheletri ed esondare le fogne, riportando a galla il marcio su cui è costruita la città. La voce di Batman ci immerge nelle lunghe notti di Gotham, come quella di un detective privato alla Philip Marlowe o alla Sam Spade (o, per citare un esempio più recente, come i protagonisti della saga di Sin City): disincantato, disilluso, portato ad andare avanti solo da un senso del dovere che trova senso in se stesso e non nei risultati, che anzi spingerebbero a desistere.

Fin dalle prime battute, The Batman si rivela per quello che é: un noir, con l'Uomo Pipistrello a fare le veci di Humphrey Bogart, a indagare, stanare, risolvere un caso che da "semplice" omicidio si rivela essere molto di più, aprendo uno squarcio nell'abisso che è il passato di Gotham City. Batman non distoglie lo sguardo, e l'abisso guarda dentro di lui. L'indagine è lenta, faticosa, procede per false piste, tentativi, dettagli non colti, dimenticati, ricordati: il pipistrello è, in fondo, un topo con le ali, e come un topo si perde nel labirinto eretto dall'Enigmista, in un'incarnazione lontanissima da quella di Jim Carrey in uno dei Batman che ci piace dimenticare, e più vicina al serial killer di neo-noir come Seven o Zodiac. Non mancano i classici ingredienti del noir, dalla polizia corrotta alla femme fatale, una Selina Kyle/Catwoman ben delineata per profondità di motivazioni e personalità. 

Al centro di tutto c'è un Batman neofita: Bruce Wayne indossa da appena due anni il costume del pipistrello. La scelta di ambientare il film non "alle origini" del personaggio ma appena dopo consente di esplorare un aspetto finora ignorato da tutte le incarnazioni cinematografiche dell'Uomo Pipistrello (solo Nolan lo aveva sfiorato nel secondo capitolo della sua trilogia), ovvero quello dell'identità, di quale sia la reale missione di Batman. È un vendicatore? Un giustiziere? Un anticorpo al virus che sta divorando Gotham, o un anticorpo autoimmune, che sta contribuendo a distruggere ciò che dovrebbe proteggere? Bruce Wayne è ancora in preda al lutto, e non ha una risposta a questa domanda. Il suo percorso, la sua catabasi nei bassifondi della città lo porteranno a trovarla, e non sarà quella che si aspettava: il regista Matt Reeves gioca con intelligenza con il mito di Batman, e riesce a ricavarne una risposta forse non stupefacente, ma sicuramente diversa, quasi spiazzante rispetto all'immagine che le ultime incarnazioni avevano deciso di abbracciare.


Se la sceneggiatura, pur con qualche lungaggine evitabile e senza guizzi particolari, convince, il pezzo forte del film sta indubbiamente nelle atmosfere. Reeves mostra di aver imparato la lezione visiva di Joker e della serie animata, e ci presenta una Gotham sporca, brutta, realistica ed espressionista al tempo stesso: un trionfo di ombre e vicoli bui, di strade lercie e abbandonate alternate con edifici goticheggianti . La fotografia punta tutto sul rosso e il nero (e loro combinazioni) che campeggiano nel titolo, e riduce la luce al minimo indispensabile, puntando sul non-visto, su quello che si nasconde nell'oscurità (magistrale, in tal senso, la scena di apertura), lasciando che siano gli spettatori a costruire mentalmente quel che non si vede. Le scene di azione sono ben coreografate, con almeno due pezzi di bravura. La colonna sonora di Giacchino è splendida, con un tema principale che entra subito in testa e temi secondari ben orchestrati.

Il vero punto forte del film, però, è il casting: non c'è una parte fuori posto, dall'Enigmista di Paul Dano (debitore dell'Arthur Fleck di Joaquin Phoenix nella scrittura, ma non nell'interpretazione, più simile a quella dello stesso Dano ne Il petroliere) alla Selina Kyle di Zoe Kravitz, passando per l'Alfred di Andy Serkis e il Pinguino dell'irriconoscibile Colin Farrell. Il plauso maggiore, tuttavia, va al Batman di Robert Pattinson: molti erano scettici sulla sua scelta, e invece Pattinson convince come un Bruce Wayne "di transizione", ancora alla ricerca di se stesso, intrappolato da un dolore che gli ha impedito di diventare veramente adulto.

The Batman è un film semplice ma non banale nella concezione e solidissimo nell'esecuzione. Torna alle origini dell'Uomo Pipistrello (Batman nasce proprio come detective) e si riappropria di quelle suggestioni noir e investigative che sono al centro di alcune delle sue avventure più amate (Year One, Il lungo Halloween), raccontando una storia più "quotidiana" (nonostante l'escalation della posta in palio del finale), in grado di far affiorare l'umanità e la fragilità di Batman, eroe umano, troppo umano, sempre sull'orlo del precipizio tra vita e morte, tra sanità e follia, tra vendetta e giustizia.

****

Pier

venerdì 4 marzo 2022

Belfast

La sofferenza di chi parte, la sofferenza di chi resta


Belfast, 1969. Buddy, di famiglia protestante, vive con la mamma e il fratello maggiore in un quartiere abitato sia da protestanti che da cattolici, una sorta di famiglia allargata dove tutti si conoscono e si aiutano a vicenda. Il padre viaggia spesso per lavoro, ma cerca di essere presente il più possibile. Il contrasto tra protestanti e cattolici che sta dilaniando il paese, tuttavia, raggiunge anche il loro quartiere a causa di alcuni facinorosi che aizzano il conflitto religioso, devastando negozi, case e ferendo al cuore la comunità. La famiglia di Buddy si ritrova divisa tra il desiderio di restare vicino ai propri affetti e alle proprie radici, e la promessa di una vita più serena ed economicamente più stabile. 

Pochi popoli hanno dovuto migrare, nel corso degli ultimi secoli, quanto gli Irlandesi: costretti da fame, carestie, disoccupazione, e scontri fratricidi, le partenze verso gli USA, il Regno Unito e altri paesi sono state innumerevoli. Branagh racconta l'ultima fase di questo dramma, i nordirlandesi che hanno dovuto lasciare Belfast a causa delle tensioni sociali ed economiche causate dai cosiddetti Troubles. Un tema, questo, che classicamente verrebbe trattato in modo crudo e violento, focalizzandosi sulle deprivazioni, le sofferenze, il razzismo, le violenze; oppure in modo "eroistico", focalizzandosi su qualche leader carismatico o su un momento storico chiave.


Branagh sceglie una strada diversa, quella del racconto autobiografico e famigliare - o, meglio, del racconto di quartiere. Certo, al centro della trama ci sono il piccolo Buddy (lo splendido Jude Hill, all'esordio) e la sua famiglia, ma fin dalla prima scena Branagh mette al centro il quartiere, una sorta di famiglia allargata, in cui tutti si conoscono e si aiutano a vicenda. Una famiglia che verrà messa in crisi dallo scontro tra protestanti e cattolici, che convivono pacificamente nel quartiere di Buddy ma sono in lotta aperta nel resto di Belfast e dell'Irlanda del Nord: una lotta "di altri" che macchia, rovina e distrugge una bella storia di convivenza. Una famiglia allargata che è una risorsa, ma anche un legame che rende difficile, se non impossibile, il distacco: è chiaro che i protagonisti avrebbero una vita materiale migliore in Inghilterra (paga migliore, istruzione migliore, prospettive migliori), ma spesso l'essenziale è immateriale: gli affetti, le piccole consuetudini, ciò che siamo. La nostra identità non risponde alle sollecitazioni razionali, e ci dice che andandocene perderemmo una parte di noi stessi.

Branagh racconta, narra, tratteggia con grande delicatezza la vita quotidiana di Buddy e della sua famiglia, i loro dubbi, i loro affetti, le loro paure. Fin dalla prima scena (un capolavoro assoluto di fotografia e narrazione, uno shot immersivo spielberghiano che in un istante ci trasporta a Belfast, 1969, facendoci percepire luce, odori, sapori) Branagh alterna sapientemente il dolore, le violenze e la paura alla gioia, la speranza, l'insopprimibile voglia di vivere - di vivere insieme - dei protagonisti. 


La maestria di Branagh sta nel creare un'identificazione quasi totale tra spettatore e protagonisti, riuscendo a spostare il focus a seconda della scena: lo spettatore si riconosce nella gioia innocente di Buddy che gioca, nelle preoccupazioni della mamma, nei tormenti da separazione del papà, nell'affetto senza condizioni dei nonni - per i figli, per i nipoti, e per loro stessi. Un'operazione, questa, che non era riuscita al più celebrato ROMA, e che invece Branagh padroneggia alla perfezione, realizzando non un semidocumentario con immagini bellissime, ma un racconto famigliare che brilla di una luce che nemmeno i Troubles riescono a sopprimere - la luce degli amori, passioni (quella per il cinema su tutte), paure, gioie di un piccolo, grande protagonista e del suo micro-universo.

Branagh, insomma, racconta un fenomeno storico (l'emigrazione, i Troubles) senza perderne di vista i protagonisti, ma anzi mettendo al centro le loro emozioni, la loro quodianità, la loro vita. Racconta chi parte, ma racconta anche chi resta: il film si chiude su un primo piano e su poche semplici parole di un'intensità devastante, che catturano la dignitosa sofferenza di chi è consapevole di non poterla, di non volerla evitare - una sofferenza colma di solitudine, ma che al tempo stesso si tinge di gioia nel vedere i propri cari salpare verso una vita migliore. 


A una sceneggiatura semplicemente perfetta per ritmo, dialoghi, e ampiezza emotiva (si ride, tanto, e si piange, tanto), Branagh accompagna una fotografia dolce, avvolgente, con un bianco e nero meraviglioso per luce, contrasti, vividezza delle immagini - uno di quei bianco e nero talmente riusciti, talmente emozionanti da far quasi rimpiangere l'invenzione del colore. La scena d'apertura, come detto, toglie il fiato per perfezione e shock emotivi, trasportando lo spettatore dal familiare allo sconosciuto, dal quotidiano all'eccezionale, dalla gioia alla paura con un semplice movimento di macchina; la scena della festa è un inno alla vita, un canto catartico in cui la luce, lentamente, scaccia le ombre e le costringe a retrocedere, ammettendo la sconfitta.
Anche la splendida colonna sonora di Van Morrison abbraccia lo spettatore, unendosi a immagini e narrazione per trasportarlo con delicatezza, quasi cullandolo, all'interno di una storia semplice, poetica, che arriva dritto al cuore, grazie anche alla prova perfetta di tutti gli attori, tra cui si segnalano i due genitori - l'ottima Catriona Balfe, e il soprendente Jamie Dornan, che smette i panni da tonno sadomaso di Cinquanta sfumature e si rivela un attore capace e versatile.

Kenneth Branagh si esibisce nell'arte dimenticata di far durare un film meno di due ore e riuscire comunque a raccontare una storia emotivamente ricca e visivamente splendida. Belfast non parla solo di Irlanda, parla di tutti coloro che hanno dovuto lasciare il luogo dove sentono di avere le proprie radici. Finito il film, sarete preda della nostalgia per tutti quei luoghi e quelle persone che avete "lasciato indietro", temporaneamente o definitivamente e vi ritroverete a pensarci, e a ripensarci, e a ripensarci ancora. Questo è l'effetto che fanno i piccoli, grandi film.

**** 1/2

Pier

mercoledì 2 marzo 2022

Assassinio sul Nilo

 Il colpevole è il digitale


Hercule Poirot, l'infallibile investigatore, viene invitato dall'amico Bouc a unirsi alla crociera lungo il Nilo organizzata da due neosposi: la ricca ereditiera Linnet Ridgeway e il bel Simon Doyle. I due si sono conosciuti da poco, e Doyle era fidanzato con la migliore amica di Linnet, Jacqueline de Bellefort, che si unisce, non invitata, alla crociera. A bordo di una nave su cui si muovono vari personaggi legati a Linnet (cameriere, parenti, manager, cantanti), l'atmosfera si fa sempre più rovente, fino a quando non viene ritrovato un cadavere. Toccherà a Poirot, come sempre, scoprire il colpevole.

Assassinio sul Nilo, secondo capitolo dedicato da Kenneth Branagh al detective più famoso creato dalla penna di Agatha Christie *, è un film pieno di scelte bizzarre - poco efficaci, e difficilmente razionalizzabili. In primis, è un film d'avventura e in costume, che dovrebbe fare delle location il suo punto forte, ed è invece interamente girato all'interno degli studios , facendo largo uso del green screen. In secondo luogo, perché decide di dedicare gran parte del film al passato di Poirot - un passato che Agatha Christie ha invece sempre lasciato appena abbozzato, per larga parte avvolto nel mistero - una scelta che costituisce parte del fascino del personaggio. "Umanizzare" Poirot è una strategia molto in linea con il trend del momento (persino i cattivi Disney devono diventare personaggi a tutto tondo), ma che finisce, forse, per banalizzare un personaggio che fa dell'eccezionalità, della stranezza la sua cifra e il suo carattere distintivo. Branagh, peraltro, sceglie peculiarmente di inventare del tutto il passato di Poirot, anziché attingere dalle informazioni fornite dalla Christie.

Una terza bizzarria sta nella presentazione del caso e degli indizi. Branagh cambia dei dettagli, e fin qui nulla di male: anzi, è un'ottima scelta per dare una maggiore freschezza a chi ha già letto il libro o visto la versione del 1976. Tuttavia, uno degli elementi "inventati" da Branagh finisce per rivelare anche allo spettatore meno attento il possibile colpevole già nella prima metà del film: presentato in una scena altrimenti "inutile", attira immediatamente l'attenzione e porta a trasformare un semplice sospetto in una certezza quasi assoluta, poi puntualmente confermata dagli eventi. Una decisione abbastanza incomprensibile, e spiegabile solo con il desiderio di essere "capito" anche dai meno attenti, ma che finisce per eliminare quell'elemento di sorpresa che è l'anima del genere whodunnit.

Tutto male, dunque? Niente affatto. Il cast è azzeccato nei suoi componenti principali: Branagh è decisamente più a suo agio nei panni di Poirot, Gal Gadot è azzeccata nei panni della ricca ereditiera, Emma Mackey una bellissima sorpresa in quelli della sua rivale. La sceneggiatura, al netto dei difetti sopra elencati, ha ritmo, e la regia di Branagh è avvolgente, ricca di piani sequenza, panoramiche, movimenti circolari, a sottolineare visivamente l'assedio fisico e mentale cui l'assassino sottopone gli altri protagonisti. Persino le scenografie e i paesaggi, per quanto in gran parte digitali, riescono nel loro compito, risultando comunque abbastanza evocative.

Le bizzarrie di cui sopra, tuttavia, non sono ignorabili, e finiscono per rendere meno godibile una visione che, invece, aveva tutto il potenziale per intrattenere quanto e più del primo film. Un peccato, per una saga che prometteva bene: ma, visti gli incassi, forse Branagh avrà occasione di rimediare in un altro capitolo.

** 1/2

Pier

*: Curiosa la scelta che ha portato Branagh a seguire esattamente lo stesso ordine seguito a suo tempo per i film con Peter Ustinov: prima l'Orient Express, poi il Nilo. Curioso come anche la riuscita dei due film (molto buono il primo, più piatto il secondo) sia quasi identica - ma lì c'era la scusa del cambio di regista, da Lumet a Guillermin.