La sofferenza di chi parte, la sofferenza di chi resta
Belfast, 1969. Buddy, di famiglia protestante, vive con la mamma e il fratello maggiore in un quartiere abitato sia da protestanti che da cattolici, una sorta di famiglia allargata dove tutti si conoscono e si aiutano a vicenda. Il padre viaggia spesso per lavoro, ma cerca di essere presente il più possibile. Il contrasto tra protestanti e cattolici che sta dilaniando il paese, tuttavia, raggiunge anche il loro quartiere a causa di alcuni facinorosi che aizzano il conflitto religioso, devastando negozi, case e ferendo al cuore la comunità. La famiglia di Buddy si ritrova divisa tra il desiderio di restare vicino ai propri affetti e alle proprie radici, e la promessa di una vita più serena ed economicamente più stabile.
Pochi popoli hanno dovuto migrare, nel corso degli ultimi secoli, quanto gli Irlandesi: costretti da fame, carestie, disoccupazione, e scontri fratricidi, le partenze verso gli USA, il Regno Unito e altri paesi sono state innumerevoli. Branagh racconta l'ultima fase di questo dramma, i nordirlandesi che hanno dovuto lasciare Belfast a causa delle tensioni sociali ed economiche causate dai cosiddetti Troubles. Un tema, questo, che classicamente verrebbe trattato in modo crudo e violento, focalizzandosi sulle deprivazioni, le sofferenze, il razzismo, le violenze; oppure in modo "eroistico", focalizzandosi su qualche leader carismatico o su un momento storico chiave.
Branagh sceglie una strada diversa, quella del racconto autobiografico e famigliare - o, meglio, del racconto di quartiere. Certo, al centro della trama ci sono il piccolo Buddy (lo splendido Jude Hill, all'esordio) e la sua famiglia, ma fin dalla prima scena Branagh mette al centro il quartiere, una sorta di famiglia allargata, in cui tutti si conoscono e si aiutano a vicenda. Una famiglia che verrà messa in crisi dallo scontro tra protestanti e cattolici, che convivono pacificamente nel quartiere di Buddy ma sono in lotta aperta nel resto di Belfast e dell'Irlanda del Nord: una lotta "di altri" che macchia, rovina e distrugge una bella storia di convivenza. Una famiglia allargata che è una risorsa, ma anche un legame che rende difficile, se non impossibile, il distacco: è chiaro che i protagonisti avrebbero una vita materiale migliore in Inghilterra (paga migliore, istruzione migliore, prospettive migliori), ma spesso l'essenziale è immateriale: gli affetti, le piccole consuetudini, ciò che siamo. La nostra identità non risponde alle sollecitazioni razionali, e ci dice che andandocene perderemmo una parte di noi stessi.
Branagh racconta, narra, tratteggia con grande delicatezza la vita quotidiana di Buddy e della sua famiglia, i loro dubbi, i loro affetti, le loro paure. Fin dalla prima scena (un capolavoro assoluto di fotografia e narrazione, uno shot immersivo spielberghiano che in un istante ci trasporta a Belfast, 1969, facendoci percepire luce, odori, sapori) Branagh alterna sapientemente il dolore, le violenze e la paura alla gioia, la speranza, l'insopprimibile voglia di vivere - di vivere insieme - dei protagonisti.
La maestria di Branagh sta nel creare un'identificazione quasi totale tra spettatore e protagonisti, riuscendo a spostare il focus a seconda della scena: lo spettatore si riconosce nella gioia innocente di Buddy che gioca, nelle preoccupazioni della mamma, nei tormenti da separazione del papà, nell'affetto senza condizioni dei nonni - per i figli, per i nipoti, e per loro stessi. Un'operazione, questa, che non era riuscita al più celebrato ROMA, e che invece Branagh padroneggia alla perfezione, realizzando non un semidocumentario con immagini bellissime, ma un racconto famigliare che brilla di una luce che nemmeno i Troubles riescono a sopprimere - la luce degli amori, passioni (quella per il cinema su tutte), paure, gioie di un piccolo, grande protagonista e del suo micro-universo.
Branagh, insomma, racconta un fenomeno storico (l'emigrazione, i Troubles) senza perderne di vista i protagonisti, ma anzi mettendo al centro le loro emozioni, la loro quodianità, la loro vita. Racconta chi parte, ma racconta anche chi resta: il film si chiude su un primo piano e su poche semplici parole di un'intensità devastante, che catturano la dignitosa sofferenza di chi è consapevole di non poterla, di non volerla evitare - una sofferenza colma di solitudine, ma che al tempo stesso si tinge di gioia nel vedere i propri cari salpare verso una vita migliore.
A una sceneggiatura semplicemente perfetta per ritmo, dialoghi, e ampiezza emotiva (si ride, tanto, e si piange, tanto), Branagh accompagna una fotografia dolce, avvolgente, con un bianco e nero meraviglioso per luce, contrasti, vividezza delle immagini - uno di quei bianco e nero talmente riusciti, talmente emozionanti da far quasi rimpiangere l'invenzione del colore. La scena d'apertura, come detto, toglie il fiato per perfezione e shock emotivi, trasportando lo spettatore dal familiare allo sconosciuto, dal quotidiano all'eccezionale, dalla gioia alla paura con un semplice movimento di macchina; la scena della festa è un inno alla vita, un canto catartico in cui la luce, lentamente, scaccia le ombre e le costringe a retrocedere, ammettendo la sconfitta.
Anche la splendida colonna sonora di Van Morrison abbraccia lo spettatore, unendosi a immagini e narrazione per trasportarlo con delicatezza, quasi cullandolo, all'interno di una storia semplice, poetica, che arriva dritto al cuore, grazie anche alla prova perfetta di tutti gli attori, tra cui si segnalano i due genitori - l'ottima Catriona Balfe, e il soprendente Jamie Dornan, che smette i panni da tonno sadomaso di Cinquanta sfumature e si rivela un attore capace e versatile.
Kenneth Branagh si esibisce nell'arte dimenticata di far durare un film meno di due ore e riuscire comunque a raccontare una storia emotivamente ricca e visivamente splendida. Belfast non parla solo di Irlanda, parla di tutti coloro che hanno dovuto lasciare il luogo dove sentono di avere le proprie radici. Finito il film, sarete preda della nostalgia per tutti quei luoghi e quelle persone che avete "lasciato indietro", temporaneamente o definitivamente e vi ritroverete a pensarci, e a ripensarci, e a ripensarci ancora. Questo è l'effetto che fanno i piccoli, grandi film.
**** 1/2
Pier
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