domenica 20 febbraio 2022

Drive My Car

Catarsi e ascolto


In seguito a un lutto, Yûsuke Kafuku, attore e regista teatrale, si trasferisce a Hiroshima per gestire un laboratorio che culminerà nella produzione di Zio Vanja di Cechov: una produzione che Yûsuke affida a una compagnia di attori di varie nazioni, chiedendo a ciascuno di recitare nella propria lingua. I responsabili del laboratorio lo costringono ad accettare un'autista: per Yûsuke, molto affezionato alla sua auto e grande appassionato di guida, è difficile adattarsi. 

Un film complesso, quello di Ryusuke Hamaguchi, che sembra più un collage di tanti film diversi, mescolati e amalgamati in una storia labirintica che finisce e ricomincia più volte, un labirinto di strade separate eppur collegate dal cuore emotivo della vicenda, quello di un uomo dal cuore spezzato che cerca la redenzione. Spesso film del genere si rivelano dei disastri, accrocchi senza né capo né coda: non è il caso di Drive my car, che prosegue per sbalzi, divagazioni, piccoli quadri che si rivelano però pezzi di un unico puzzle, una sinfonia della solitudine che trova declinazioni in ogni suo interprete, sia nella vita reale, sia sul palcoscenico. 

Una catarsi collettiva, un tentativo di liberarsi del peso del passato che, non a caso, avviene attraverso Cechov e, ancora meno a caso, avviene nella città che per i Giapponesi rappresenta il ricordo più pesante e ingombrante, Hiroshima.  La storia di Yûsuke diviene quella di un'intera nazione ancora incapace di elaborare un lutto incancellabile, un macigno che pesa sul cuore della collettività, che desidererebbe solo quel che Sonja invoca alla fine di Zio Vanja: il riposo che viene dall'autoassoluzione, ma anche dal dialogo. 

E proprio il dialogo è l'altro tema centrale del film: un dialogo con funzione catartica, certo, ma anche con funzione di ponte, di congiunzione tra i popoli, in grado di superare le barriere linguistiche per sublimarsi in valori universali come l'arte, la pietà, la compassione. Hamaguchi usa il lavoro teatrale del suo protagonista per lanciare un messaggio a un'umanità sempre più divisa, lacerata e isolata, una situazione che la pandemia non ha creato ma solo esacerbato. Solo con il dialogo e l'ascolto, il vero ascolto l'umanità può sopravvivere a se stessa: solo con il dialogo e l'ascolto possiamo smettere di essere soli.

Il film ha ritmi volutamente bassi, introspettivi, in cui lo spettatore, così come i personaggi, è chiamato a guardarsi dentro, a osservare gli altri e ritrovare se stesso; ogni gesto, ogni sguardo ha un valore profondo. Le parole sono tante, ma i momenti chiave sono scarni, quasi muti. La fotografia, splendida, indugia in campi lunghi evocativi che riescono a catturare lo spettatore nonostante la loro ripetitività. Quello che manca, ogni tanto, è uno scatto in avanti, un cambio di ritmo, un'accelerazione che permetta di apprezzare maggiormente i momenti di pausa e di riflessione. Il film invece mantiene sempre lo stesso ritmo, quello di una contemplativa, regolare lentezza che può risultare un po' ostica per alcuni spettatori e, a tratti, finisce per depotenziare un messaggio che nei suoi momenti migliori risuona forte e chiaro, scavando dentro il cuore di chi lo ascolta.

Drive my car è un film ambizioso e coraggioso, che non ha paura di affrontare temi "alti" attraverso una storia quotidiana, semplicissima nei contenuti quanto complessa nella struttura: la storia di una, due, infinite solitudini che si incontrano e si guariscono a vicenda, un'ode al potere catartico dell'arte ma anche il canto dolente di una nazione ferita. Può non essere per tutti, ma aprirà il cuore a chi saprà abbandonarsi al suo incedere ipnotico, come quello di un'auto nella notte su una strada deserta.

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Pier




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